Latent
threats
(di
Felice Celato)
In
questi tempi ci siamo abituati alle notizie di attentati e di stragi;
quella di Nizza mi ha, tuttavia, colpito particolarmente per una serie di
motivi che vanno al di là della stessa efferatezza degli eventi e che provo a
mettere in fila.
Il
pensiero, a caldo, mi è corso all’11 settembre del 2001, una data che, per una
serie di motivi, ho vissuto, allora, con grande emozione, come una svolta
epocale, dopo la quale – mi dissi allora – il mondo non sarebbe stato più
quello al quale ci eravamo abituati: tre strumenti di vita e di progresso (tre
aerei di linea) furono trasformati in strumenti di morte, diventando armi
letali come, appunto, ogni arma fabbricata per esserlo. Un atto di guerra non
dichiarata, messo in atto da un nemico liquido, nel cuore di una aggregazione
umana scelta per le sue caratteristiche simboliche.
Giusto
stamane parlavamo delle latent failures
dei processi con i quali cerchiamo di assicurarci una relativa sicurezza; oggi
– un camion, anch’esso strumento di progresso, di circolazione di beni, di
connessione di mercati, trasformato in un macinatore di vite – mi sono venute
in mente le latent threats, le
minacce latenti del nostro vivere in comunità dense di persone e di incroci
esistenziali; latenti e imprevedibili.
Come
le latent failures si annidano nei
buchi neri delle nostre menti, così le latent threats si incistano nei recessi
perversi delle nostre teste, disposte a trasformare qualsiasi oggetto in
strumento di male, spesso di male assoluto, direi, perché rivolto solo a
realizzare se stesso su indistinti bersagli.
Non
sono state utilizzate armi, se non, pare, per tragiche operazioni di contorno,
per aggiungere morte ai morti cercati con uno strumento della vita di ogni
giorno. E’ stato usato un banale camion, che fino ad allora aveva trasportato
tonnellate e tonnellate di merci, noleggiato mostrando una patente e – immagino
– una carta di credito, senza subire perquisizioni mirate ad accertare che chi
prendeva in uso il camion non portasse “armi a bordo”; la sua arma – potente ed esplosiva – era celata nella sua mente.
Come
si difendono il nostro mondo, le nostre collettività mobilissime, le nostre
civiltà basate sull’incontro, da questo tipo di arma? Possiamo immaginare un
dialogo con queste armi viventi? Bisognerà immaginare una versione “buona”
della psicopolizia di Orwelliana
memoria per stanare le schegge crudeli che vivono in mezzo a noi? Possiamo seguitare a proclamare, nei nostri esercizi di retorica, che
i nostri liquidi aggressori non cambieranno i nostri stili di vita?
Proprio
non so; l’illusione di vivere in un periodo di pace si confronta con 84 morti,
quasi 200 feriti, parecchi gravi, molti bambini. E’ ancora latente la minaccia
al nostro mondo?
Roma
15 luglio 2016
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