venerdì 15 luglio 2016

Nizza, 14 luglio

Latent threats
(di Felice Celato)
In questi tempi  ci siamo abituati alle notizie di attentati e di stragi; quella di Nizza mi ha, tuttavia, colpito particolarmente per una serie di motivi che vanno al di là della stessa efferatezza degli eventi e che provo a mettere in fila.
Il pensiero, a caldo, mi è corso all’11 settembre del 2001, una data che, per una serie di motivi, ho vissuto, allora, con grande emozione, come una svolta epocale, dopo la quale – mi dissi allora – il mondo non sarebbe stato più quello al quale ci eravamo abituati: tre strumenti di vita e di progresso (tre aerei di linea) furono trasformati in strumenti di morte, diventando armi letali come, appunto, ogni arma fabbricata per esserlo. Un atto di guerra non dichiarata, messo in atto da un nemico liquido, nel cuore di una aggregazione umana scelta per le sue caratteristiche simboliche.
Giusto stamane parlavamo delle latent failures dei processi con i quali cerchiamo di assicurarci una relativa sicurezza; oggi – un camion, anch’esso strumento di progresso, di circolazione di beni, di connessione di mercati, trasformato in un macinatore di vite – mi sono venute in mente le latent threats, le minacce latenti del nostro vivere in comunità dense di persone e di incroci esistenziali; latenti e imprevedibili.
Come le latent failures si annidano nei buchi neri delle nostre menti, così le  latent threats si incistano nei recessi perversi delle nostre teste, disposte a trasformare qualsiasi oggetto in strumento di male, spesso di male assoluto, direi, perché rivolto solo a realizzare se stesso su indistinti bersagli.
Non sono state utilizzate armi, se non, pare, per tragiche operazioni di contorno, per aggiungere morte ai morti cercati con uno strumento della vita di ogni giorno. E’ stato usato un banale camion, che fino ad allora aveva trasportato tonnellate e tonnellate di merci, noleggiato mostrando una patente e – immagino – una carta di credito, senza subire perquisizioni mirate ad accertare che chi prendeva in uso il camion non portasse “armi a bordo”; la sua arma – potente ed esplosiva – era celata nella sua mente.
Come si difendono il nostro mondo, le nostre collettività mobilissime, le nostre civiltà basate sull’incontro, da questo tipo di arma? Possiamo immaginare un dialogo con queste armi viventi? Bisognerà immaginare una versione “buona” della psicopolizia di Orwelliana memoria per stanare le schegge crudeli che vivono in mezzo a noi? Possiamo seguitare a proclamare, nei nostri esercizi di retorica, che i nostri liquidi aggressori non cambieranno i nostri stili di vita?
Proprio non so; l’illusione di vivere in un periodo di pace si confronta con 84 morti, quasi 200 feriti, parecchi gravi, molti bambini. E’ ancora latente la minaccia al nostro mondo?
Roma 15 luglio 2016


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