giovedì 31 ottobre 2019

Segnalazioni

Non è facile essere ebreo
(di Felice Celato)
Concludiamo questo meraviglioso ottobre (dal punto di vista meteorologico, intendo!) con la segnalazione di un libro interessante e piacevole, scritto da Riccardo Calimani (Non è facile essere ebrei. L’ebraismo spiegato ai non ebrei, La nave di Teseo, 2019; credo però che la prima edizione del libro in discorso risalga a diversi anni fa).
I lettori di questo blog sono già familiari con il nome dell’autore, qui più volte citato, soprattutto per il suo libro Storia del pregiudizio contro gli ebrei, Mondadori, 2007; ma ancor più, credo, per i tanti volumi che lo accreditano come un profondo conoscitore della storia dei nostri fratelli maggiori, e come colto e raffinato scrittore di cultura ebraica.
Il libro di oggi è – come dice il sottotitolo – essenzialmente dedicato ai non ebrei, cioè ai tantissimi, radicali sconoscitori dell’immensa cultura umana e della meravigliosa storia di questo “popolo” polimorfo (ciascun ebreo…può scegliere a suo piacere una variante semplice o composta del proprio modo di essere, senza che un qualche tipo di gerarchia possa condizionarlo, scrive Calimani) al quale il nostro presente deve tanta parte dei suoi fondamenti culturali e spirituali.
Al di là della ricchezza degli stimoli a meglio conoscere offerti dal libro che oggi segnalo all’attenzione dei miei (per fortuna) pochi lettori, come dicevo poco fa il testo risulta anche di una singolare piacevolezza perché l’autore sa essere ironico e appassionato, capace di mescolare un singolare acume con la simpatia di un umorismo tipicamente ebraico, del quale, nel corso del libro, Calimani offre numerosi esempi.

Concludo la segnalazione con due spiritose citazioni che spero invoglino alla lettura. La prima riguarda quali sono gli ebrei più importanti della storia dell’umanità:
Mosè che ha annunciato: “Tutto risiede nella Legge”
Gesù, che ha affermato: “Tutto risiede nell’amore”
Marx, che ha sostenuto: “Tutto risiede nel denaro”
Freud, che ha scoperto: “Tutto risiede nel sesso”
Bergson, che ha detto: “Tutto risiede nel riso”
Einstein, che ha osservato: “Tutto è relativo”

La seconda citazione riguarda l’opinione propria di Calimani sul significato dell’essere ebrei (per gustarla bisogna sapere che Calimani è veneziano, anzi venezianissimo): secondo me, significa avere un piede nel particolare e uno nell’universale, un piede sul pontile e uno sul vaporetto. Di solito, quando ci si trova in posizioni del genere si finisce in acqua. Essere ebrei significa invece non cadere e continuare a vivere, contro ogni apparenza, perennemente in equilibrio….Essere ebrei significa sentirsi a disagio in mezzo agli ebrei e anche quando ci si trova fra non ebrei, ma sentirsi comunque terribilmente vivi e desiderosi di sopravvivere.

Bene: mi fa piacere fare questa segnalazione nel giorno in cui i giornali riferiscono della costituzione (votata a maggioranza!) di una Commissione straordinaria (proposta da Liliana Segre) per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza.
In linea di principio guardo con diffidenza alle cosiddette commissioni parlamentari e alle derive che spesso assumono nei conseguenti dibattiti in aula, talora poveri di contenuti e spesso ricchi di indifferenza alla verità. Ma, stavolta, considerata la materia e l’allarmata attenzione che sta suscitando, in molte parti del nostro mondo, la diffusione di nuovi rigurgiti antisemiti e, più in generale, di sentimenti di rancore e di disprezzo preconcetto, mi sento di attendermi qualche frutto positivo; ben al riparo – spero vivamente – da ogni deriva strumentale tesa a mettere sullo stesso piano semplici manifestazioni di anche grossolana incoltura (cui pure – piaccia o non piaccia – il cittadino ha intangibile diritto) e intollerabili fomentazioni di odio violento ed irrazionale.

Il libro di Calimani è anche un piccolo strumento per conoscere e per comprendere; senza conoscenza e comprensione ogni scelleratezza è possibile.
Roma, 31 ottobre 2019

domenica 27 ottobre 2019

Bandoli di matasse 2

Una nuova passione per la verità
(di Felice Celato)
L’interesse (e usiamo pure la scandalosa parola: il consenso) suscitato presso amici lettori e lettrici di queste riflessioni sui bandoli di matasse del nostro malessere inquieto, mi induce a proseguire nel ragionamento sul tema, ovviamente aperto a reazioni, contributi e dissensi; lo faccio – qui e cautamente – partendo dall’apparente iato fra consenso e verità. 
Prendo spunto da una considerazione di Yuval Noah Harari (di lui abbiamo già parlato commentando Sapiens. Da animali a dei, in un post del 10 gennaio dell’anno scorso) contenuta in un suo libro che sto leggendo: 21 Lezioni per il XXI secolo (Bompiani 2018) [N.B.: non ho ancora finito il corposo volume, sul quale ritornerò a lettura ultimata. Ne ho lette, di queste Lezioni, solo 5 sulle 21 programmate dall’autore; ma, come dicevo, il volume è corposo e la digestione delle 450 pagine richiede tempo. Tuttavia, mi pare di aver letto quelle più vicine al nostro tema.] Dunque, scrive Harari  (Lezione n. 3, Libertà) che i referendum e le elezioni riguardano sempre i sentimenti, non la razionalità delle persone; sicché, esemplifica Harari, il famoso quesito sulla Brexit rivolto ai cittadini del Regno Unito avrebbe dovuto più correttamente essere “Che cosa provi al riguardo?” piuttosto che “Che cosa ne pensi?”.
Ora, poiché referendum ed elezioni sono gli eventi con i quali la democrazia misura il consenso, dovremmo concludere (nella prospettiva di Harari) che essi sono, per natura, in qualche modo indifferenti alla verità, come lo sono tutte le cose che non riposano sulla conoscenza razionale (o per lo meno ragionante) del mondo [scriveva del resto Sant’Agostino: a che cosa perviene chi sa usare la ragione, se non alla verità?]; cioè che essi sono, in potenza, una manifestazione politica di quell’ignoranza globale devastante che Hans Rosling scansiona nel suo libro Factfulness (di cui pure abbiamo qui già parlato in un post del 28 giugno dell’anno scorso).
Se così fosse, avrebbe ragione Harari nell’individuare nel consenso il tallone d’Achille della democrazia liberale, fondata – come ognuno sa – sull’assunto dell’intrinseca saggezza del voto popolare. [Da qui Harari parte con una serie di considerazioni sui rischi delle due rivoluzioni in atto, quella bio-tecnologica e quella informatica; ma…diciamo che il futuro esula per il momento dai nostri ragionamenti, e – malvolentieri – accantoniamo questo seguito futuristico, ratione brevitatis.]
Bene; traiamo qualche provvisoria conseguenza da questi stimoli ulteriori a pensare, siano o no siano “perfetti” nel loro portato. Dovremmo concludere che il tallone d’Achille della democrazia liberale sta nell’intrinseca pre-razionalità del voto popolare.
Non a caso, la mobilità dei consensi dell’elettorato (che, a misura di giudizi razionali, di per sé, non sarebbe un male) sembra essere ormai la cifra costante dell’aggregazione del consenso democratico, in Italia ma anche all’estero, nel resto del nostro mondo lato sensu occidentale: dall’emergenza dell’invasione di immigrati, alla emergenza securitaria, alla Brexit, alla emergenza della concorrenza globalizzata, alle urgenti  tensioni identitarie, ai nazionalismi più sgangherati, tutto serve per suonare le campane della patria assediata (e per muovere ampie masse di elettori eccitati); come se la ragione (le sue misure, i suoi fondamenti esperienziali, i suoi nessi di causalità, etc.) avessero perso ogni presa per l’elettore democratico, affamato di  comprensione iper-semplificata. Rischiamo di essere cioè società “liberali” basate sull’emotività collettiva, a tal punto che la caratteristica stessa di società liberali (basate, appunto, sull’intrinseca saggezza del voto popolare) può essere radicalmente messa in discussione da un devastante emozionismo, magari sostenuto da sdegni collettivi, talora mediaticamente sollecitati anche a costo di ripetere come opinione di osservatori ciò che era solo lo slogan di un politico. [Dice spesso un mio amico che l’Italia sembra diventata una repubblica democratica fondata sull’indignazione! ]
L’indifferenza alla verità – di cui dicevamo nel post precedente – presuppone una profonda sfiducia nella ragione e dissolve la consistenza del consenso nel fluttuare confuso dei turbamenti, anche artificialmente suscitati. Il tallone d’Achille delle società liberali rischia di restare pericolosamente scoperto. Urge una nuova e ragionante passione per la verità. “Vasto programma!”, direbbe De Gaulle.
Roma, 27 ottobre 2019, torna l’ora solare.

lunedì 21 ottobre 2019

Bandoli di matasse

Il malessere inquieto
(di Felice Celato)
Vi capita mai di domandarvi che cosa stia succedendo al nostro mondo? Intendo, ovviamente, a quello lato sensu Occidentale, nel quale siamo in qualche modo immersi; e con riferimento al quale, per letture quotidiane e consuetudine etnico-culturale, mi pare più facile pensare di poter attingere ad una visione d’insieme, presumendo (magari avventatamente) una capacità di intelligenza e di concettualizzazione di cui, anche ratione materiae, forse non dispongo. 
A volte mi pare – prescindendo dalle convulsioni tristi del nostro povero paese – che il nostro mondo sia preda di un cupio dissolvi di dimensioni vaste ed incongrue, quasi che la lunga pace, la prosperità in fondo cresciuta più o meno costantemente negli ultimi 50 anni, le condizioni di vita (relativamente) ottimali, abbiano generato una sorta di torpore del senso di sé, un malessere inquieto come quello (uso qui le parole del Maalouf recentemente segnalato) di chi sentisse aleggiare su di sé il fantasma di un naufragio imminente e volesse affrettarne la manifestazione, piuttosto che adoperasi per metterlo in fuga. Gli USA di Trump, le guerre doganali, la follia politico/emotiva della Brexit, l’Europa irresoluta e angosciata, i nazionalismi risorgenti (Polonia, Ungheria, in qualche modo l’Italia, la Catalogna), l’esacerbazione dei sentimenti identitari, le isteriche ansie securitarie, le inquietudini persino Francesi, Tedesche o Austriache; tutto sembra indicare, appunto, un malessere inquieto, una crisi a vasto raggio di valori, cultura e persino di senso della storia.
Di tutte queste malaises tentare una sintesi, come accennavo, è arduo, impervio, rischioso e forse anche inutile; ma solo per tentare di capire, provo a cercare, se c’è, il famoso bandolo della intricata matassa, anzi – ancora più rischiosamente – un bandolo condiviso da intricate matasse.
Mi rendo conto che, questa che sto per proporre, possa apparire una lettura artificiosamente alta, ben sopra quella, invece diffusa, di una crisi di fiducia nel progresso e nella ulteriore prosperità degli Stati, tutto sommato semplice da spiegarsi nel contesto – più o meno banalizzato – della cosiddetta globalizzazione; ma, cogliendo uno spunto Ratzingeriano, mi sento di domandarmi, se, piuttosto e  più gravemente, non sia forse in atto nel mondo occidentale una progressiva indifferenza alla verità. 
Beninteso: che cosa è la verità? non è domanda nuova, come sappiamo. Però nel porla a Gesù, nella mattina di quel drammatico venerdì della storia, Pilato in fondo anticipava uno scettico approccio dell’uomo moderno. Oggi magari preferiamo pensare in termini di società liquida (cioè senza punti fermi) o di post-moderna dissoluzione delle certezze; ma il concetto è lo stesso: essendo irriconoscibile la verità, Pilato lascia intendere, facciamo secondo quanto è più pratico, ha più successo, e non cercando la verità. Condanna poi Gesù a morte, perché segue il pragmatismo, il successo, la sua propria fortuna. (Benedetto XVI, Assisi, 17 giugno 2007). 
Inoltre, si dirà – forse a ragione –  che la ricerca della verità non è il praecipuum della politica. Ma è anche vero che, senza verità, il consenso (il metro della democrazia) rischia di essere esso stesso un drammatico inganno. 
E quanta attenzione di verità c’è, secondo voi, nel consenso che in tanta parte del nostro mondo sembra essere maturato attorno alle varie forme del malessere inquieto di cui stiamo parlando? O quant’è, invece, pragmatica costruzione di un consenso per il successo di fortune politiche del tutto indifferenti alla verità?
Non mi sto avventurando – è bene chiarirlo – nella messa in discussione dei meccanismi delle democrazie (in fondo tutti i paesi nei quali si rileva “l’aria” di cui esemplificavo all’inizio sono delle democrazie, di grado più o meno liberale, ma pur sempre delle democrazie); né voglio trascinare qui dentro l’eterna questione della tyranny of the majority di cui discute Fareed Zakaria nel suo profetico libro The future of freedom (scritto nel 2003!). Il fatto oggettivo, però, sembra essere quello che il malessere inquieto di cui forse soffre il mondo occidentale ha, dappertutto, un evidente radicamento democratico, nel senso che chi ne coltiva l’interessato ardore lo fa sulla base di una legittimazione democratica, magari transeunte, forse già messa in questione da chi l’ha conferita, ma, allo stato attuale, indiscutibile (sia che si tratti di Trump o di Johnson o di Orban o di chiunque altro). 
E allora? Allora forse il male è più profondo di quello che si può ritenere radicato nell’orientamento “perverso” di governi che ci paiano infelici; il male sta nelle rispettive società, nel tarlo che forse le rode da dentro rendendole indifferenti (o forse insensibili) alla verità, quasi come se il senso di questa si fosse perso del tutto nel valore del consenso; come se fosse il consenso ad illuminarci nella ricerca della verità piuttosto che questa nella ricerca di quello.
Roma 21 ottobre 2019


martedì 15 ottobre 2019

Stupi-diario diagnostico/terapeutico

Conferme
(di Felice Celato)
Quasi due anni fa (Stupi-diario ipocondriaco, del 25 gennaio 2018) – scherzando su un neologismo, attribuito (pare erroneamente) al filosofo inglese Roger Scruton – mi ero diagnosticato una seria malattia mentale (o dello spirito?): l’oicofobia, ovvero l’avversione per la propria casa ed il proprio retaggio. Per la verità – per scrupolo diagnostico – mi riconoscevo solo uno dei due sintomi (l’avversione per la propria casa, intesa come appartenenza etnico-giuridica), mentre, per fortuna, avevo difficoltà a riconoscere la sussistenza dell’altro (l’avversione per il proprio retaggio); forse grazie al mio amore per Dante, Manzoni, Machiavelli, San Francesco, Giotto, Michelangelo e qualche altro non minore, ma disperso nei secoli.
A distanza di tempo, attraverso diuturne osservazioni dei miei più compulsivi fastidi, devo riconoscere che la diagnosi allora abbozzata (seppur, come detto, dimidiata) mi pare confermata; e, anzi, non ostante la richiesta di aiuto agli amici (non vorrei morire oicofobico, gridavo loro, implorando soccorso!), mi pare aggravata nelle sue manifestazioni più ossessive: basti pensare alla dolorosa avversione ideologica che ho maturato contro il più sacro dei simboli patriottici (il parmigiano, “che tutto il mondo ci invidia”), avversione che sta avvelenando le mie cene di sentimenti drammaticamente contrastanti (tipo il Catulliano odi et amo, ti odio con la testa e ti amo con la bocca).
E’ noto che quando si hanno certe malattie occorre tenere comportamenti atti a non aggravarne le manifestazioni; per esempio, ogni diligente agorafobo  dovrebbe astenersi dal partecipare a raduni sindacali del tipo 1° maggio a piazza San Giovanni o anche dall’andare allo stadio nel giorno di Roma-Lazio; così come, del resto, ogni coscienzioso claustrofobo evita di prendere l’ascensore, o ogni buon rupofobo  evita di andare a gettare l’immondizia in uno dei cassonetti che insozzano le nostre strade; o ogni sospettoso xenofobo  evita di girare per il mondo (o anche per le strade, ormai – fortunatamente! – policrome, del nostro stesso paese).
Ma io, povero oicofobo (sia pur dimidiato), che cosa posso fare (o almeno non fare)? Sì certo, una misura prudenziale di sicura efficacia sarebbe quella di disconnettere le TV nazional-popolari (di stato e non di stato), sicché si eviti di entrare in contatto con esse (col rischio di infettarsene) persino mentre si sta facendo zapping; oppure quella di non leggere più, per nessuna ragione, le inutili cronache dei giornali italiani e, magari, passare le serate rivedendo le vecchie partite del Milan (di quando c’era Lui!) o sfogliando giornali vecchi (come consigliava il mio professore di liceo, il compianto don Benedetto: capirete tante cose, diceva!). Tutte cose difficili da praticarsi con continuità; temo, purtroppo, che l’avversione per il nostro contorno sociopolitico e culturale, per poter essere seriamente mantenuta sotto controllo, almeno nelle manifestazioni più fastidiose, richieda una vera e propria fuga dal presente (il chiostro?) o dal domestico nazionale (l’espatrio?). Confesso di aver più fiducia nella prima forma di fuga (il chiostro), che tuttavia ragioni affettive non mi consentono di intraprendere. Allora resta l’auto-isolamento, l’auto-limitazione ai soli contatti familiari (per definizione intrisi di reciproca carità); e gli amici? Per quanto accuratamente selezionati (su base esclusivamente affettiva e intellettuale) non si può evitare che abbiano idee diverse dalle nostre (sennò sarebbero in qualche modo inutili; e del resto non ho trovato nessuno – fra i miei – affetto dalla mia patologia, per almeno condividerne il peso). A loro si può chiedere, tuttalpiù, indulgenza e comprensione per la grave malattia: ma come evitare che, magari per sbaglio, ti chiedano: Che dici del Governo? O: Che te ne pare del DEF? O: Hai letto di Papeete? E lì, allora, il male esplode in tutta la sua gravità, e le parole (ripetibili o irripetibili) fluiscono irruente a guastare la serata.
Niente da fare, ormai mi sono convinto; l’unica terapia realistica (e anche alla moda) sono gli integratori alimentari: lo zenzero (un anti-emetico prodigioso, utilissimo prima di leggere le notizie), il magnesio (la cui carenza può portare a spasmi muscolari incontrollati, tremiti e cambiamenti di personalità; e dunque più adatto alla fase di riflessione post-lettura), la calendula officinalis (che pare abbia benefici effetti sulle conseguenti ulcere, anche di origine allergica) e, infine, la papaya fermentata  (dalle straordinarie proprietà antiossidanti e anti-invecchiamento).
Nel complesso però, come al solito, la vecchia saggezza raccomanda anche agli oicofobi una vita sana, al riparo da stimoli eccessivi per le loro ridotte possibilità di sopportazione; e (secondo alcuni) anche qualche passeggiata golfistica in più.
Roma 15 ottobre 2019

P.S.: giornata piovosa, nevvero?

domenica 13 ottobre 2019

Rimuginazioni del Camminatore Urbano

Filosofia della miopia
(di Felice Celato)
Il merito (o il demerito) di queste rimuginazioni del C.U.R. (Camminatore Urbano, appunto, Rimuginante) è tutto di un singolare, distintissimo signore, dal forte accento forse tedesco o – a giudicare dall’ottimo Italiano che parlava – almeno altoatesino (se così si può dire ancora), col quale ho avuto una singolare conversazione surreale, affacciati su quel breve tratto di Roma che si scorge da ponte Garibaldi. Forse vale la pena che ve ne dia un cenno. Dunque, questo signore, affacciato verso l’Isola Tiberina, mi ha chiesto, l’altro giorno, di spiegargli quel che si vedeva; e, per giustificare la curiosa domanda, mi precisava sorridendo: "Sa, è la prima volta che vengo a Roma e, per di più, sono molto miope!”.
Dopo la mia breve spiegazione (l’Isola, san Bartolomeo, il ponte Cestio, la cupola della sinagoga, sullo sfondo le statue alte sopra al Vittoriano, etc), il distinto signore ha tirato fuori dal taschino un occhiale dalle lenti molto spesse e ha riguardato il panorama con apparente, grande soddisfazione. Poi, forse vedendomi perplesso, mi ha spiegato: “In fondo anche la miopia ha i suoi vantaggi: delle cose più lontane, posso scegliere quali vedere, sempreché ne valga la pena!”. E sorridendo si è allontanato, dopo aver riposto gli occhiali nel taschino, col passo sicuro di chi, in fondo, per il momento, vuole accontentarsi di vedere solo fino all’altro lato del ponte.
Dunque: non ci avevo mai pensato ai curiosi “vantaggi filosofici” della miopia, della quale – del resto – soffro anch’io, sia pur lievemente; in verità sono, invece, fortemente astigmatico e, senza occhiali mi pare di vedere tutto confuso, soprattutto di notte. Per questo indosso gli occhiali, da quando mi sveglio a quando spengo la luce: vedere bene i contorni delle cose mi illude di avere anche un cervello acuto e magari raffinato; e così mi consolo facilmente della scomodità di portare sempre gli occhiali sul naso (persino quando gioco a golf!).
Ma, mi è venuto di pensare, se occorre essere molto saggi ed ironici per apprezzare i “vantaggi filosofici” della miopia, più certamente questo diffuso difetto della rifrazione oculare ha anche i suoi drawbacks “filosofici”, che – a pensarci bene – sembrano proprio una specie di volontaria cifra del nostro tempo: la nostra shortsighted  umanità – così mi pare – si è così abituata alla sua miopia che sembra aver maturato la tragica convinzione che, invece di essere semplicemente oltre il suo breve o medio campo visivo, ciò che non vede, in realtà, proprio non esista. 
Non ne voglio fare qui una questione di opzione fondamentale per la fede (direbbe Joseph Ratzinger: ciò che non può essere visto, quello che non può assolutamente entrare nel nostro raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma è anzi l’autentica realtà: quella che sorregge e rende possibile la realtà); m’interessa – invece, qui –  più fisicamente, solo ciò che tangibilmente esiste, magari al di là del nostro campo visivo; forse, appunto, non lo vediamo e non vogliamo nemmeno indossare gli occhiali della storia o dell’esperienza per almeno intuirlo. Ma certamente c’è; e nessuna forma di volontaria agnosia percettiva o di maligno presentismo deve indurci ad ignorarlo, aspettando che lo scorrere dello spazio o del tempo della nostra vita mortale ci costringa a toccarlo con mani, quando l’avremo davanti, a misura del nostro innanzi che siamo costretti ad esplorare con gli occhi dell’hic et nunc.
Ecco: il surreale interlocutore del vostro C.U.R. può mettere gli occhiali nel taschino per scegliere, in qualche modo, ciò che gli va di vedere bene; in fondo sa perfettamente che la sua vista – senza occhiali – è proprio corta. A noi – soprattutto alle guide cieche del nostro mondo – non deve essere consentito di scambiare la realtà col proprio raggio visivo.
Roma, 13 ottobre 2019





martedì 8 ottobre 2019

Una lettura complessa

Il naufragio delle civiltà
(di Felice Celato)
Di nuovo con una lettura. Stavolta è un autore da me molto amato (Amin Maalouf), soprattutto come romanziere ma anche come saggista. I lettori più antichi e di migliore memoria, ricorderanno un post Letture di quasi 7 anni fa (10 marzo 2013) dedicato al romanzo di Maalouf che allora segnalavo (I disorientati), dove, appunto, l’autore componeva narrativamente un quadro dei dubbi, dei rimpianti, dei rimorsi e delle nostalgie degli emigrati dal Libano nell’ultimo trentennio del secolo scorso; e, allo stesso tempo, svolgeva una appassionata rassegna delle ragioni della permanenza di quelli che, invece, erano restati in patria mentre i più fortunati (o i più deboli? o i più coraggiosi?) se ne allontanavano.
Dell’autore e dei suoi libri si dice qualcosa nel vecchio post ( facilmente clickabile qui accanto, risalendo alla data): 70 anni, ora francese e Accademico di Francia ma nato a Beirut da genitori cristiani, radicato per parte di madre in Egitto e per parte di padre in Libano, autore di romanzi e di saggi, tutti in qualche modo focalizzati nell’area geografica e culturale del Medioriente Mediterraneo. E dunque non ritorno sull’autore. Vengo invece al libro di oggi: Il naufragio delle civiltà (La Nave di Teseo, 2019) può considerarsi in qualche modo una elaborazione concettuale di quel “lutto” per ciò che l’autore chiama il naufragio dell’universo levantino. Eppure – così mi è parso – l’intero libro (lo dico subito: gradevolissimo alla lettura, anche perché in larga parte strutturato come una specie di biografia intellettuale) rimane emotivamente pervaso dal senso di “quella” tragedia, di quel naufragio che ha affondato il Levante plurale, trasformandolo nell’emblema del fallimento Mediorentale e, addirittura, nel catalizzatore di una più vasta crisi di identità della nostra civiltà. 
Intendiamoci: si può legittimamente dubitare – e l’autore non manca di dar atto di una possibile sua esacerbata sensibilità al riguardo – della fondatezza di tutte le relazioni causali che Maalouf stabilisce fra gli eventi di cui fa rassegna; ma rimane vivo, in tutto il libro, un senso drammatico della storia che costituisce il nucleo delle convinzioni dell’autore: è a partire dalla mia terra natale – scrive Maalouf – che le tenebre hanno cominciato a diffondersi in tutto il resto del mondo. Qualche anno fa avrei esitato a scrivere quest’ultima frase considerandola un’approssimazione grossolana derivante dalla mia esperienza personale e da quella dei miei cari. Oggi non c’è più alcun dubbio che le convulsioni che scuotono il pianeta sono strettamente legate a quelle che hanno agitato il mondo arabo negli ultimi decenni.
Francamente, come accennato, non mi sentirei di far mia un’opinione così radicale; ma nemmeno di negare del tutto il senso del fil-rouge che Maalouf dipana con acume e abbondanza di argomenti e di testimonianze dirette.
Nella carrellata (sempre interessante) sulla storia contemporanea, colpisce la concentrazione attorno all’anno 1979 di eventi che Maalouf considera autentiche pietre miliari nel processo di disgregazione del mondo, senza peraltro mai negarne, quando ci sono, le intrinseche pluralità di senso: le due rivoluzioni conservatrici (Thatcher e Reagan), la crisi terminale dell’URSS, lo shock petrolifero, l’avvento al potere di Deng Xiaoping e di Giovanni Paolo II al soglio pontificio, il rapimento e l’uccisone di Aldo Moro, il ritorno a Teheran di Khomeini, l’assedio all’ambasciata americana sempre di Teheran, l’assalto alla moschea della Mecca da parte dei jihidisti sunniti, etc.
Maalouf conserva costantemente (e prudentemente) una certa distanza dai nessi causali troppo stretti; e spesso costella il flusso delle memorie di oneste remore intellettuali. E tuttavia le connessioni (quanto meno temporali) che disegna con penna molto felice fanno emergere con chiarezza le sue tristezze, quella antica (per i due paradisi della mia infanzia. Quello di mia madre prima [l’Egitto] e quello di mio padre poi [il Libano]) e quella, più ansiosa ed articolata, per il fantasma di un naufragio imminente che sente aleggiare sulla storia della nostra civiltà, sotto forma di concezioni tribali (dell’identità, della nazione e della religione), di esaltazioni individualiste, di incapacità di autogenerazione di efficaci punti di riferimento e, infine, di derive orwelliane della nostra convivenza, come sottoprodotto delle nostre ansie per la sicurezza.
Complessivamente, il libro di Maalouf mi pare, come dicevo all’inizio, più un’intelligente elegia che una pura esegesi intellettuale; e perciò si legge con grande piacere, non ostante qualche opinione più difficile  da condividere.
Roma, 8 ottobre 2019




.

venerdì 4 ottobre 2019

Italica

Cronache sorprendenti
(di Felice Celato)
Nella morta gora dell’Italia verbigerante, dove solo il rancore sembra animare la palude, mi ha molto colpito, per efficacia, solidità e chiarezza, la brusca analisi che il presidente dell’Assolombarda (Carlo Bonomi) ha snocciolato, senza perifrasi, davanti al Presidente del Consiglio intervenuto all’Assemblea Generale – appunto – dell’associazione degli imprenditori Lombardi, tenutasi ieri alla Scala di Milano.
Il discorso (pubblicato integralmente su ilFoglio.it del 3 ottobre, cfr. link in fondo) mi è parso così poco contemporaneo (nel senso deteriore che la contemporaneità Italiana esige) da meritare diverse sorprese letture: c’è ancora, in questo vecchio Paese un po' incosciente, un po' politicante, un po' ruffiano, chi sa parlare con chiarezza e chi sa far risuonare, con passione diretta, documentata ed esplicita, parole dense di senso e di costruttiva pro-vocazione.
Non è il caso di analizzare qui il contenuto del discorso, ma – facendo uso di un termine desueto e comunque a me non familiare – oserei definire il discorso di Bonomi “patriottico” e di un patriottismo che, oggi, ha senso solo nella sua richiamata dimensione Europea ed aperta al mondo.
In un tempo in cui il patriottismo nostrano si sostanzia nel culto del parmigiano o del ripieno dei tortellini o nella preservazione della nostra intemerata purezza civica ed etnica, mi pare utile riportare qualche passo della pro-vocazione degli imprenditori lombardi. 
A darci forza ogni giorno è innanzitutto una certa idea dell’Italia. Un’idea dell’Italia che unisce tutti in un grande patrimonio condiviso. Non solo storico, letterario, artistico e monumentale. Un patrimonio di valori comuni, di umanità, reciproca comprensione e di apertura verso il mondo. Un patrimonio di unità che….noi avvertiamo il dovere di difendere. Troppe e temibili sono le forze divisive sprigionatesi in questi anni. Rincorrendo facili consensi, la politica rischia di picconare questo patrimonio comune di civiltà. Ed è una storia purtroppo già vista, nel passato dell’Europa.
Il nazionalismo finisce per distruggere il senso vero della Patria, lo riduce da valori condivisi a simboli identitari branditi da tribù intolleranti. In una sola fase della nostra secolare storia dirsi “italiano” era diventato un criterio per negare ad altri fondamentali diritti umani. E noi a quella fase storica non vogliamo tornare..
Certo, l’immigrazione è un fenomeno immane e complesso, che deve trovare una compartecipata soluzione europea. E che deve vedere l’Italia capace di realizzare una struttura efficace non solo per le emergenze, ma per l’integrazione sociale degli immigrati e per il rispetto da parte di tutti delle nostre leggi. Noi siamo fieri di avere un Capo dello Stato che in questi anni ha fatto tutto ciò che gli era possibile, per richiamare i toni della politica e gli atti di governo al rispetto di forme, toni e diritti che sono il vero patrimonio indivisibile non solo della libertà e dello Stato di diritto. Ma che rappresentano per noi il senso stesso di dirsi “italiani” di fronte al mondo. Un fondamento comune non solo della crescita ma del vivere civile, che alla propria base ha una fede irrinunciabile nei valori della solidarietà umana, e nel rispetto sacro dei diritti della persona. Di “ogni” persona: quale che sia la sua nascita, il suo sesso, la sua religione.
Ed è per questo che lanciamo un appello alla società italiana. Credere che sia solo la politica dall’alto, a cambiare l’Italia e a ridarle impulso e crescita, coesione e giustizia, è una pericolosa illusione che non dà risultati. Gli anni alle nostre spalle sono lì a dimostrarlo, con tutte le alternanze e i cambi di governi e di leggi elettorali che abbiamo visto… O costruiamo fondamenta civili ed economiche di un’Italia nuova e più giusta dal basso, noi tutti insieme, oppure un Paese a demografia a picco e bassa produttività non sarà capace della svolta civile che è più che mai necessaria. Una svolta che deve vivere e manifestarsi nei comportamenti di tutti, prima che nelle deleghe alla politica.
….E’ l’energia dell’intero Paese e la sua decisione a trasformarsi e migliorare ad ogni livello che deve rispecchiarsi nelle decisioni di chi lo guida: nelle garanzie istituzionali dei pesi e contrappesi, in una giustizia al servizio dei deboli, in una politica trasparente nei suoi finanziamenti e comportamenti, misurabile ex ante ed ex post nelle sue decisioni. Perché non sarà la spesa pubblica decisa dalla politica a salvarci, ma uno Stato diverso….Dobbiamo chiedere alla società civile un grande sforzo comune. Dobbiamo e vogliamo agire perché crediamo in questa Italia. Rimettiamo in sesto tutti insieme dal basso le fondamenta del nostro Paese.
Il discorso di Bonomi è anche concreto e, su molti temi del governo del paese, crudo e preciso. Ma qui non mi pare ci sia altro da aggiungere.
Roma, 4 ottobre 2019 (san Francesco d'Assisi)





martedì 1 ottobre 2019

Letture forse indispensabili

Una sfidante alternativa
(di Felice Celato)
Torniamo seri: l’altro giorno scherzavamo con le fantasie oniriche; oggi – dicevo – torniamo seri. E lo facciamo con un libro che, già nel titolo, contiene un messaggio, più che solo serio, spiacevole (ma vero): Nessun pasto è gratis, di Lorenzo Forni (Il Mulino, 2019,  meno di 150 pagine, ebook).
Come del resto dice anche il sottotitolo del libro (Perché politici ed economisti non vanno d’accordo), l’autore si impegna – secondo me con grande efficacia – a rendere ragione di quella banale contrapposizione che vede, forse da troppo tempo, i politici bersagliare gli economisti con strali di discredito, spesso assai rozzi, scagliati ogni volta (da noi accade quasi tutti i giorni) che ad essi (agli eletti) vengono ricordate le leggi insuperabili – perché meramente logiche – che legano fra di loro alcune grandezze economiche; e che gli eletti, invece, vorrebbero sottoposte solo alle esigenze del loro consenso.
Forni si adopera per rendere chiare queste  relazioni anche a chi economista non è, implicitamente facendo sua una alternativa sfidante ma seducente: se con gli eletti non si riesce a ragionare (si badi bene: non perché non capiscano; alcuni di essi sono, talora, tutt’altro che sprovveduti. Il fatto è che la loro ottica – il  tweet di stasera, il consenso di domani, le elezioni di dopodomani, etc – confligge strutturalmente con leggi che necessariamente si auto-impongono in tempi medi o lunghi ma svincolati da tali cadenze); se – dicevo – con gli eletti non si riesce a ragionare, perché non provare con gli elettori
Certo non con tutti: il libro, per sua natura, si sforza di semplificare e di spiegare ma richiede pur sempre al lettore non specialista un minimo di attenzione. Ma, coi più volenterosi, si può sempre tentare, perché la conoscenza è anche un cardine dei propri doveri civici, fra i quali rientra – primario – quello di saper fare il proprio mestiere, anche di semplice elettore.
Queste leggi insuperabili sono infatti tutte quelle legate alle caratteristiche  logiche di certe grandezze macroeconomiche che, necessariamente, fra di loro si aggiustano nel tempo, ricomponendo forzatamente ( e dolorosamente) quello che gli eletti pretendevano (edonisticamente) di eludere. 
Queste leggi insuperabili sono i tanto disprezzati vincoli di bilancio: ora, ci sono vari vincoli di bilancio. C’è il vincolo di bilancio del singolo consumatore, quello dello Stato, quello di un paese nei confronti dei non residenti. Quello del singolo consumatore è quello familiare che affrontiamo tutti i giorni. Quello dello Stato riguarda il fatto che se le spese pubbliche sono superiori alle entrate si crea un disavanzo, e quindi un debito, che prima o poi andrà ripagato. Quello estero è simile. È il vincolo in base al quale se importiamo di più di quanto esportiamo stiamo accumulando debito nei confronti dei non residenti, che prima o poi dovremo ripagare. Tutti questi vincoli di bilancio, che sono poi interrelati tra loro, vanno rispettati. Cioè, quello che in economia è possibile, lo è se soddisfa i vari vincoli di bilancio. Chiariamo subito un aspetto importante: il vincolo di bilancio agisce nel tempo (è «intertemporale», come dicono gli economisti). Si può spendere più di quello che si produce indebitandosi per un certo periodo [N.B. Il debito pubblico Italiano era, nel 1970, pari al 37% del PIL; oggi è pari a circa il 134% del PIL], ma prima o poi questo processo deve trovare una correzione. Ad un certo punto bisognerà cominciare a consumare meno di quello che si produce per ripagare il debito contratto…. Sfuggire al vincolo di bilancio non è possibile. ….In realtà se ogni volta che una politica viene proposta ci si chiedesse che implicazioni ha sul vincolo di bilancio, avremmo già fatto molti passi in avanti. Se tutti accettassimo l’idea che il vincolo di bilancio esiste e va rispettato, molte delle proposte fatte dai politici perderebbero immediatamente di credibilità.
Ecco: questo è il senso del bel libro di Forni (che ho riletto in questi giorni per astrarmi dalle chiacchiere sulla Nota di Aggiornamento del DEF). Ripeto: la sua lettura è estremamente utile per i (volenterosi) digiuni di economia; utile anche per chi vuole, invece, solo ripassarla anche partendo da esperienze concrete (fra l’altro c’è anche una breve Appendice tecnica fatta molto bene); ma – oso dire – indispensabile per ogni buon elettore che voglia dirsi cosciente di quello che fa.
Roma 1° ottobre 2019 (Santa Teresa del Bambino Gesù; a chi non lo ha fatto, suggerisco la lettura de La leggenda del santo bevitore, stupendo racconto dell’ebreo Joseph Roth, del quale Teresa di Lisieux è silente protagonista)