lunedì 21 ottobre 2019

Bandoli di matasse

Il malessere inquieto
(di Felice Celato)
Vi capita mai di domandarvi che cosa stia succedendo al nostro mondo? Intendo, ovviamente, a quello lato sensu Occidentale, nel quale siamo in qualche modo immersi; e con riferimento al quale, per letture quotidiane e consuetudine etnico-culturale, mi pare più facile pensare di poter attingere ad una visione d’insieme, presumendo (magari avventatamente) una capacità di intelligenza e di concettualizzazione di cui, anche ratione materiae, forse non dispongo. 
A volte mi pare – prescindendo dalle convulsioni tristi del nostro povero paese – che il nostro mondo sia preda di un cupio dissolvi di dimensioni vaste ed incongrue, quasi che la lunga pace, la prosperità in fondo cresciuta più o meno costantemente negli ultimi 50 anni, le condizioni di vita (relativamente) ottimali, abbiano generato una sorta di torpore del senso di sé, un malessere inquieto come quello (uso qui le parole del Maalouf recentemente segnalato) di chi sentisse aleggiare su di sé il fantasma di un naufragio imminente e volesse affrettarne la manifestazione, piuttosto che adoperasi per metterlo in fuga. Gli USA di Trump, le guerre doganali, la follia politico/emotiva della Brexit, l’Europa irresoluta e angosciata, i nazionalismi risorgenti (Polonia, Ungheria, in qualche modo l’Italia, la Catalogna), l’esacerbazione dei sentimenti identitari, le isteriche ansie securitarie, le inquietudini persino Francesi, Tedesche o Austriache; tutto sembra indicare, appunto, un malessere inquieto, una crisi a vasto raggio di valori, cultura e persino di senso della storia.
Di tutte queste malaises tentare una sintesi, come accennavo, è arduo, impervio, rischioso e forse anche inutile; ma solo per tentare di capire, provo a cercare, se c’è, il famoso bandolo della intricata matassa, anzi – ancora più rischiosamente – un bandolo condiviso da intricate matasse.
Mi rendo conto che, questa che sto per proporre, possa apparire una lettura artificiosamente alta, ben sopra quella, invece diffusa, di una crisi di fiducia nel progresso e nella ulteriore prosperità degli Stati, tutto sommato semplice da spiegarsi nel contesto – più o meno banalizzato – della cosiddetta globalizzazione; ma, cogliendo uno spunto Ratzingeriano, mi sento di domandarmi, se, piuttosto e  più gravemente, non sia forse in atto nel mondo occidentale una progressiva indifferenza alla verità. 
Beninteso: che cosa è la verità? non è domanda nuova, come sappiamo. Però nel porla a Gesù, nella mattina di quel drammatico venerdì della storia, Pilato in fondo anticipava uno scettico approccio dell’uomo moderno. Oggi magari preferiamo pensare in termini di società liquida (cioè senza punti fermi) o di post-moderna dissoluzione delle certezze; ma il concetto è lo stesso: essendo irriconoscibile la verità, Pilato lascia intendere, facciamo secondo quanto è più pratico, ha più successo, e non cercando la verità. Condanna poi Gesù a morte, perché segue il pragmatismo, il successo, la sua propria fortuna. (Benedetto XVI, Assisi, 17 giugno 2007). 
Inoltre, si dirà – forse a ragione –  che la ricerca della verità non è il praecipuum della politica. Ma è anche vero che, senza verità, il consenso (il metro della democrazia) rischia di essere esso stesso un drammatico inganno. 
E quanta attenzione di verità c’è, secondo voi, nel consenso che in tanta parte del nostro mondo sembra essere maturato attorno alle varie forme del malessere inquieto di cui stiamo parlando? O quant’è, invece, pragmatica costruzione di un consenso per il successo di fortune politiche del tutto indifferenti alla verità?
Non mi sto avventurando – è bene chiarirlo – nella messa in discussione dei meccanismi delle democrazie (in fondo tutti i paesi nei quali si rileva “l’aria” di cui esemplificavo all’inizio sono delle democrazie, di grado più o meno liberale, ma pur sempre delle democrazie); né voglio trascinare qui dentro l’eterna questione della tyranny of the majority di cui discute Fareed Zakaria nel suo profetico libro The future of freedom (scritto nel 2003!). Il fatto oggettivo, però, sembra essere quello che il malessere inquieto di cui forse soffre il mondo occidentale ha, dappertutto, un evidente radicamento democratico, nel senso che chi ne coltiva l’interessato ardore lo fa sulla base di una legittimazione democratica, magari transeunte, forse già messa in questione da chi l’ha conferita, ma, allo stato attuale, indiscutibile (sia che si tratti di Trump o di Johnson o di Orban o di chiunque altro). 
E allora? Allora forse il male è più profondo di quello che si può ritenere radicato nell’orientamento “perverso” di governi che ci paiano infelici; il male sta nelle rispettive società, nel tarlo che forse le rode da dentro rendendole indifferenti (o forse insensibili) alla verità, quasi come se il senso di questa si fosse perso del tutto nel valore del consenso; come se fosse il consenso ad illuminarci nella ricerca della verità piuttosto che questa nella ricerca di quello.
Roma 21 ottobre 2019


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