martedì 26 febbraio 2013

Elezioni


E ora?
(di Felice Celato)
All’indomani di queste fatali elezioni, sarebbe naturale tentarne fra noi un (doloroso) bilancio, cercare insieme gli errori commessi, dall’uno o dall’altro, o magari mettere in campo qualche magro “l’avevo detto, io”.
Ma vorrei evitarlo, prima di tutto perché ce ne sono molte, sui giornali, di analisi, quasi tutte svolte da persone più competenti di me in materia di elettorati; e poi perché non ne ho voglia, di mettere in fila i grossolani errori di valutazione commessi dai partiti italiani nell’affrontare questo passaggio della vita del nostro Paese che avrebbe ben potuto costituire un momento di crescita dell’autocoscienza degli Italiani ed invece è risultato un groviglio di rabbie, di storici rancori, di pulsioni irrazionali e di insensate narrazioni.
Mi limiterò a confessare tre sorprese (che dimostrano come mi sia stato difficile capire che cosa bolliva nella pentola dell’Italia di oggi): la prima è la dimensione del successo del Movimento 5 Stelle, che certamente non immaginavo sopra il 20% dei voti; la seconda è la caduta, contenuta ma rovinosa negli effetti, del PD (ai minimi storici dell’ultimo ventennio, non ostanti i vantaggi di posizione di cui ha goduto); la terza, infine, è la resilienza del PdL che pure usciva (apparentemente) provato da uno dei periodi più difficili della sua storia; e ciò, non ostante la caduta verticale della Lega. Monti, secondo me, ha preso il numero minimo di voti, all’interno della “forchetta” che mi aspettavo.
Proviamo invece a tentare di indovinare quali saranno le conseguenze di questo “blocco” che si è determinato.
Mi pare che sul piano politico la soluzione meno rischiosa (tenuto conto della nostra delicatissima situazione sul fronte internazionale) e meglio gestibile da politici sfacciati quali sono sicuramente i nostri, sia quella della grande coalizione (PD+PdL+Monti) con programma limitato e orizzonte breve, magari cementato da qualche (inevitabile) italianissimo scambio sottobanco. Il rischio di questa soluzione sta tutto nell’abbondanza di argomenti che essa fornirebbe ai centri dell’anti-politica, con i quali comunque a breve occorrerà tornare a fare i conti; il vantaggio potrebbe essere quello di consentire una distensione dei toni della politica fra quelli che sono stati i poli della più aspra competizione reciproca e, ad un tempo, il bersaglio – separato ma idealmente congiunto – delle “invettive” del Movimento 5 Stelle.
Nella sua oggettiva e soggettiva difficoltà, questa soluzione mi pare anche l’unica in grado di garantire un minimo di governabilità per il tempo più lungo: una soluzione diversa (PD+ 5 Stelle), quand’anche fosse fattibile, durerebbe di meno e inquieterebbe di più chi ci guarda da fuori, incredulo creditore e, allo stesso tempo, partner timoroso della possibile deflagrazione della nostra società e della nostra economia.
Il rischio del “commissariamento”(naturale conseguenza di una nostra richiesta di soccorso finanziario) mi pare incombente. Non è successo nulla, come dicevamo qualche giorno fa, durante la nostra campagna elettorale, che abbia fatto venire meno i problemi che avevamo e che tuttora abbiamo; solo sono diminuite le soluzioni a disposizione; ed il tempo. E, temo, sono andate perse occasioni che è complicato rideterminare.
Vedremo, purtroppo.
Roma 26 febbraio 2013


domenica 24 febbraio 2013

Letture

Un articolo da leggere
(di Felice Celato)

Mentre ci avviciniamo al triste bilancio dei reciproci disprezzi (quello degli Italiani verso i politici e quello, come dicevamo qualche tempo fa, dei politici verso gli Italiani) mi pare assai più confortante tornare a riflettere sul significato della decisione  di Benedetto XVI.
Molti di noi cattolici “devoti” abbiamo pensato al “gesto” di Benedetto XVI, che si dimette sentendosi debole di fronte alle necessità della Chiesa, ponendolo a raffronto con quello del suo predecessore, Giovanni Paolo II, plasticamente rappresentato mentre batte con la mano il leggìo dalla finestra del palazzo che resta muta per la fisica impotenza alle parole.
A tutti quelli che hanno seguito questo percorso di riflessione, segnalo l’articolo di Mons. Bruno Forte, vescovo di Chieti, fine teologo ed anche scrittore suggestivo (pubblicato oggi da Il Sole 24 ore, segue link), che mi pare fornisca una chiave di lettura profonda e densa di significati.



Roma,24 febbraio 2013

mercoledì 20 febbraio 2013

In limine suffragii


Timori e speranza
(di Felice Celato)
Confesso cha arrivo a queste elezioni con la mente fortemente impregnata di sensazioni complesse, non tutte facili da spiegare.
Le “dimissioni” di questo grande papa, fragile e forte profeta, umilissimo e saldo nella mente e nell’amore per la Chiesa, si sono connotate di un significato epocale (“ la fine del vecchio e l’inizio del nuovo”) che sta influenzando con speranze e trepidazioni le mie riflessioni di cattolico “devoto” e, nello stesso tempo, purtroppo, con scorate aspettative quelle di cittadino depresso.
Così mi viene molto difficile tornare a ragionare (in limine suffragii) del nostro presente e del nostro probabile futuro politico senza porre a raffronto questo straordinario passaggio della storia che ci offre la Chiesa con il rumoroso e convulso avvicinarsi del “giudizio del popolo” su cosa volere per noi e per l’Italia.
E mentre nella vicenda ecclesiale vedo delinearsi una formidabile istanza  di cambiamento (di conversione, mi verrebbe da dire) che forse non andrà delusa, in quella politica mi pare di percepire l’aria viziata della grande occasione sprecata, dopo che lo scuotimento impresso dalla crisi economica, finanziaria e morale del Paese mi pareva potesse fondare la speranza di una palingenesi politica che invece sta grossolanamente dissipandosi.
Molte volte mi sono domandato quanto sia lecito ad un credente guardare alle vicende di questo mondo e ai loro “passaggi” esistenziali utilizzando la categoria teologale della speranza, la virtù difficile ed ambigua (cfr post del 21 settembre 2011 ”Divagazioni sulla speranza”) che pure sempre ci tenta, anche nelle cose più “mondane”, quasi come una naturale compagna di vita; e molte volte ho trovato risposte diverse, talora dolenti (“E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte. Tu non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro”, diceva accorato Paolo VI nella basilica di san Giovanni), talora confortate da alcuni fra i passi più suggestivi del Vangelo (“Ecco, Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, l’ultimo versetto del vangelo di Matteo) o dalle storie di uomini che sono stati esauditi quando si sono trovati a pregare nei momenti più difficili del loro Paese (o della loro vita)
Anche qui Benedetto XVI, in fondo, ci ha dato una lezione straordinaria: l’uso della ragione, anche in contrasto con le più consolidate tradizioni di abbandono al giudizio e all’opera alla Provvidenza, è un dovere forte che non può essere eluso anche dall’uomo dalla fede più vigorosa e raffinata. Ad esso, quindi, attingiamo anche nell’accingerci al voto che pure – forse esageratamente – temiamo per come ad esso ci siamo preparati e per esso dilaniati.
Non mancherà, fra gli amici che leggono queste note, chi troverà questo mio atteggiamento verso il passaggio del 24 e 25 febbraio esasperato e quindi inappropriatamente drammatizzato; perciò – come spesso mi accade di dover fare – spero vivamente di sbagliare; eppure mi pare di avere chiaro uno scenario gravido di rischi che non esito a ritenere  decisivo per il nostro futuro.
Che cosa è successo – ed io non me ne sono accorto – in questi due mesi di campagna elettorale “ufficiale” perché si possa dire che tutto ciò che ci aveva terrorizzato nel 2012 si sia dissolto? Nulla, anzi si è drammaticamente accentuata la faglia che allontana le nostre illusioni dalla realtà, le favole dalla verità, le soluzioni semplici dai problemi complessi, i rancori dalla ricostituzione del nostro tessuto civile. Si potrà dire: era infondato l’allarme. Vedremo, io penso di no.
Ecco perché, di fronte all’irrazionalità emotiva che pare pervadere il paese, mi sorge spontanea una percezione “epocale” del periodo che viviamo anche come collettività. Non ero nato, il 2 giugno del ’46, quando i nostri padri scelsero la repubblica, né il 18 aprile del ‘48 quando scelsero per l’occidente. Ma ho la sensazione, magari esagerata, che il prossimo passaggio elettorale abbia la stessa valenza, lo stesso decisivo significato sul futuro. Come dicevamo l’anno scorso, l’Italia non sarà più la stessa dopo la vicenda di questa crisi.
Per questo, sull’esempio infinitamente più grande di Benedetto XVI, nel mio piccolo cercherò di votare guidato dalla ragione (àncora forte nel mare delle parole) e, poi, aspetterò con fiducia che la mano del Signore, Dio della Storia,  additi una strada a “questo popolo dalla dura cervice”.
Roma, 20 febbraio 2013

giovedì 14 febbraio 2013

Il passaggio della storia


Benedetto XVI
(di Felice Celato)
L’addio di Benedetto XVI, per me commovente e denso di significati, dà luogo, come è consuetudine forse non solo Italiana, a ragli e calci d’asino di straordinaria superficialità e malignità: per rendersene conto, basta superare il disgusto e leggere i commenti alle notizie “finemente vergati” dagli opinionisti istantanei di cui il nostro incolto Paese abbonda e di cui sollecita continuamente gli augusti  “pensieri”.
Eppure il gesto del Papa e i suoi modi sembravano idonei, oltreché a connotarlo di grande e profonda sensibilità umana e sollecitudine ecclesiale, a lanciare un messaggio positivo anche presso coloro che sono soliti “ragionare” secondo categorie non dico semplicemente mondane ma addirittura frivole: un gesto moderno, inusuale, umanissimo, “de-sacralizzante”, libero e originale.
No. Nemmeno quest’ottica ha “sfondato”. Anzi, c’è stato chi è andato a caccia di citazioni, evangeliche e non, per fare la morale al papa, come si conviene ad ogni buon padreterno da porta Portese. 
E’ il segno dei (pessimi) tempi che viviamo; direi nulla di nuovo per me che non li amo ( e ne temo gli sviluppi). Il modo con cui comunichiamo è figlio di ciò che siamo diventati, dicevamo qualche giorno fa.
E va bene (anzi male); ma la cosa di cui fatico a non provare scandalo è la reazione di alcuni prelati (sempre celati dietro un ipocrita anonimato), solo preoccupati degli sviluppi curiali del “gesto” di Benedetto XVI. O di alcuni “intellettuali” alla moda che si sono agitati per coglierne la strumentalità elettorale!
Narrano che, mentre Hegel osservava dalla finestra del suo appartamento "il passare della Storia" (Napoleone che sfila vittorioso, alla testa dei suoi soldati, dopo la battaglia di Jena), il suo cameriere notava con fastidio che i cavalli sporcano le strade.
Dopo questo Papa, intelligente, profondo, colto, aperto ed attento al mondo, spero in un Papa ancora straniero che voglia contornarsi, a Roma, di altri stranieri, che sappia universalizzare (o de-italianizzare?) la cultura della curia, una ramazza dura, come lo può essere il ventilabro dei profeti e anche dei santi, dei quali abbiamo sempre estremo bisogno.
Di Benedetto XVI ricorderemo per sempre la figura fragile e l’intelletto forte, gli occhi chiari, la cultura densa e incarnata, la fede colta, la Caritas in veritate, i libri sul Gesù di Nazareth, la pedagogia paolina, la sua concezione del tempo come sabato santo della storia. Ed infine, il suo “gesto” umile e rivoluzionario, un appello ultimo e malinconico al dovere del fare e alle sue fatiche. L’uomo di fede profonda sa quale è il campo della ragione e conosce il dovere di impiegarla anche nella Chiesa, quando il passo del pastore, divenuto tardo, non gli consente di essere appieno il tutore e la guida del gregge.
Roma, 14 febbraio 2013, San Valentino.

giovedì 7 febbraio 2013

Letture


Un libro terribile
(di Felice Celato)
Mi rendo conto che in questo periodo sto sommergendo di segnalazioni letterarie i miei amici; ma è anche vero che si tratta, per me, di un periodo nel quale preferisco immergermi nei buoni libri del passato (o sul passato) anziché seguire questo confuso, pericoloso e sconsolante presente (del quale, invece, si occupano con molta e immeritata passione altri miei più pazienti amici); ed inoltre, questo libro di cui voglio parlarvi, è proprio veramente memorabile.
Si tratta di un “libro” di sole 30 pagine (l’edizione che ho letto ne reca poi altre 50-60 dedicate alla vita dell’autore e alla complessa vicenda della composizione di quelle 30); il titolo: Yossl Rakover si rivolge a Dio. L’autore: Zvi Kolitz, un ebreo Lituano che ha poi vissuto in Israele e negli USA. L’editore: Adelphi. Però queste 30 pagine costituiscono, secondo me, un vero e proprio nuovo salmo, straordinariamente intenso e commovente.
La storia è semplicissima: un ebreo che sta per cadere come uno degli ultimi eroi del ghetto di Varsavia, scrive, il 28 aprile del ’43, prima di morire bruciato nei roghi della follia umana, una lettera-testamento che nasconde in una bottiglia; e, in questa lettera, novello Giobbe, si rivolge a Dio con un amore, una fede e una violenza che francamente non possono che lasciare profondamente sconvolti: “Hai fatto di tutto perché non avessi fiducia in Te, perché io non credessi più in Te, io invece muoio così come sono sempre vissuto, pervaso da un’incrollabile fede in Te”, sono le ultime parole di questo grido irragionevole ed umanissimo  al tempo stesso, prima della recita dello Shema Israel. “Ti avverto, Dio mio e dei miei padri, che non Ti servirà a nulla….[perché io] sempre ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!”.
E prima: “Ti voglio chiedere, Dio, e questa domanda brucia dentro di me come un fuoco divorante: che cosa ancora, sì, che cosa ancora deve accadere perché Tu mostri nuovamente il Tuo volto al mondo?”, chiede, aspro, a Dio l’uomo di fede Yossl Rakover nell’inferno di Varsavia, quando la storia del popolo ebraico visse la sua propria passione; come “Elì,Elì, lemà sabactàni?” aveva gridato quasi duemila anni prima il Cristo sulla Croce, “assume[ndo] così in sé tutto il tormento non solo di Israele, ma di tutti gli uomini che soffrono in questo mondo per il nascondimento di Dio”(J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Seconda parte, LEV, pg 239).
In esergo al testo è riportata una frase ritrovata sui muri di una cantina di Colonia dove si nascosero alcuni ebrei per tutta la durata della guerra: “Credo nel sole, anche quando non splende; credo nell’amore, anche quando non lo sento; credo in Dio, anche quando tace”.
Il silenzio di Dio di fronte al male, e al male estremo e bestiale, ed il dolore dell’uomo di fede per questo silenzio, costituiscono per me il tema più difficile della fede e della speranza. E ormai l’unico tema che sempre mi commuove; questo libro ne coglie l’essenza con una intensità disperata, in una dimensione umanissima che non dispone di nessuna theologia Crucis per continuare a credere eppure rimane drammaticamente fedele.
Sono sicuro che nell’”abissale oggi della sofferenza” (Ratzinger, ibidem, pg 241), ciascuno di noi, per quanto lontani siano – per nostra fortuna – gli scenari tragici di questo piccolo libro, ha avuto i suoi momenti di buio nei quali ha mormorato una protesta dolorosa.
Roma 7 febbraio 2013