Timori e speranza
(di
Felice Celato)
Confesso
cha arrivo a queste elezioni con la mente fortemente impregnata di sensazioni
complesse, non tutte facili da spiegare.
Le
“dimissioni” di questo grande papa, fragile e forte profeta, umilissimo e saldo
nella mente e nell’amore per la Chiesa, si sono connotate di un significato
epocale (“ la fine del vecchio e l’inizio
del nuovo”) che sta influenzando con speranze e trepidazioni le mie
riflessioni di cattolico “devoto” e, nello stesso tempo, purtroppo, con scorate
aspettative quelle di cittadino depresso.
Così
mi viene molto difficile tornare a ragionare (in limine suffragii) del nostro presente e del nostro probabile
futuro politico senza porre a raffronto questo straordinario passaggio della
storia che ci offre la Chiesa con il rumoroso e convulso avvicinarsi del
“giudizio del popolo” su cosa volere per noi e per l’Italia.
E
mentre nella vicenda ecclesiale vedo delinearsi una formidabile istanza di cambiamento (di conversione, mi verrebbe da
dire) che forse non andrà delusa, in quella politica mi pare di percepire
l’aria viziata della grande occasione sprecata, dopo che lo scuotimento
impresso dalla crisi economica, finanziaria e morale del Paese mi pareva
potesse fondare la speranza di una palingenesi politica che invece sta
grossolanamente dissipandosi.
Molte
volte mi sono domandato quanto sia lecito ad un credente guardare alle vicende
di questo mondo e ai loro “passaggi” esistenziali utilizzando la categoria teologale
della speranza, la virtù difficile ed ambigua (cfr post del 21 settembre 2011 ”Divagazioni
sulla speranza”) che pure sempre ci tenta, anche nelle cose più “mondane”,
quasi come una naturale compagna di vita; e molte volte ho trovato risposte
diverse, talora dolenti (“E chi può ascoltare
il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte. Tu non hai
esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro”, diceva accorato
Paolo VI nella basilica di san Giovanni), talora confortate da alcuni fra i
passi più suggestivi del Vangelo (“Ecco,
Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”, l’ultimo versetto
del vangelo di Matteo) o dalle storie di uomini che sono stati esauditi quando
si sono trovati a pregare nei momenti più difficili del loro Paese (o della
loro vita)
Anche
qui Benedetto XVI, in fondo, ci ha dato una lezione straordinaria: l’uso della
ragione, anche in contrasto con le più consolidate tradizioni di abbandono al
giudizio e all’opera alla Provvidenza, è un dovere forte che non può essere
eluso anche dall’uomo dalla fede più vigorosa e raffinata. Ad esso, quindi,
attingiamo anche nell’accingerci al voto che pure – forse esageratamente –
temiamo per come ad esso ci siamo preparati e per esso dilaniati.
Non
mancherà, fra gli amici che leggono queste note, chi troverà questo mio
atteggiamento verso il passaggio del 24 e 25 febbraio esasperato e quindi
inappropriatamente drammatizzato; perciò – come spesso mi accade di dover fare
– spero vivamente di sbagliare; eppure mi pare di avere chiaro uno scenario gravido
di rischi che non esito a ritenere
decisivo per il nostro futuro.
Che
cosa è successo – ed io non me ne sono accorto – in questi due mesi di campagna
elettorale “ufficiale” perché si possa dire che tutto ciò che ci aveva terrorizzato
nel 2012 si sia dissolto? Nulla, anzi si è drammaticamente accentuata la faglia
che allontana le nostre illusioni dalla realtà, le favole dalla verità, le
soluzioni semplici dai problemi complessi, i rancori dalla ricostituzione del
nostro tessuto civile. Si potrà dire: era infondato l’allarme. Vedremo, io
penso di no.
Ecco
perché, di fronte all’irrazionalità emotiva che pare pervadere il paese, mi
sorge spontanea una percezione “epocale” del periodo che viviamo anche come
collettività. Non ero nato, il 2 giugno del ’46, quando i nostri padri scelsero
la repubblica, né il 18 aprile del ‘48 quando scelsero per l’occidente. Ma ho
la sensazione, magari esagerata, che il prossimo passaggio elettorale abbia la
stessa valenza, lo stesso decisivo significato sul futuro. Come dicevamo l’anno
scorso, l’Italia non sarà più la stessa dopo la vicenda di questa crisi.
Per
questo, sull’esempio infinitamente più grande di Benedetto XVI, nel mio piccolo
cercherò di votare guidato dalla ragione (àncora forte nel mare delle parole) e,
poi, aspetterò con fiducia che la mano del Signore, Dio della Storia, additi una strada a “questo popolo dalla dura
cervice”.
Roma,
20 febbraio 2013
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