mercoledì 25 settembre 2013

Fluitare necesse est?

Angosce autunnali
(di Felice Celato)
Pur avendo, da tempo, perso ogni confidenza col pettine, non mi è stato difficile, sempre da tempo, immaginare che tutti i nodi sarebbero giunti, prima o poi, al pettine. Ora io credo che, non essendo accaduto per tempo, noi siamo, hic et nunc, nel bel mezzo del “poi”: i conti nazionali non tornano, il debito continua a crescere e con esso cresce il costo del suo rifinanziamento, le tasse non scendono, le spese pubbliche non si tagliano, la competitività del Paese cala, la sua industria (servizi compresi, e quindi: siderurgia, costruzioni, ma anche telefonia, trasporti, moda persino, etc.) è a pezzi, la disoccupazione non cala, il Governo è prigioniero dei due malsani partiti che dovrebbero sorreggerlo e che invece lo ricattano con le esigenze del loro posizionamento elettoralistico, la legge elettorale non c’è, il famoso problema del finanziamento ai partiti non è stato affrontato; e, come se non bastasse, i talk show televisivi hanno ricominciato a veicolare verso le teste degli Italiani  le retoriche vacue e le chiacchiere insulse di una classe politica, in larghissima parte, superata dai tempi.
Navigare necesse est” Plutarco faceva dire a Pompeo; ma, domando io, anche “fluitare necesse est”, è necessario galleggiare? E’ sano il solo tenersi a galla mentre gli altri nuotano verso la riva?
Anche De Rita (Il Corriere della sera di oggi), da sempre nume tutelare di un ottimismo “sistemico”, comincia a nutrire dubbi sulla nostra capacità di riuscire a mettere insieme uno scenario di riferimento da perseguire con determinazione, appunto, di sistema.
Già, diranno i saggi amici conservatori in politica e rivoluzionari in ecclesiologia, e poi che succede se si va alle elezioni in questa situazione?
Non lo so; so solo quello che succede se continuiamo a galleggiare: un’onda più grande ci travolgerà. E sempre gli stessi amici diranno: sempre il solito pessimista! E’ vero, semplificando atrocemente, io sono un pessimista che vorrebbe non avere mai avere ragione; loro, i miei amici saggi, preferiscono essere ottimisti ma avere sempre torto. Questione di gusti!
Roma 25 settembre 2013



giovedì 19 settembre 2013

Letture

La democrazia critica
(di Felice Celato)
Nulla, per la democrazia critica, è tanto insensato quanto la divinizzazione del popolo di cui è espressione la massima vox populi, vox Dei, una vera e propria forma di idolatria politica”. Così scrive Gustavo Zagrebelsky nel suo interessantissimo libro Il “crucifige!” e la democrazia (Einaudi), che ho appena finito di leggere e che mi affretto a segnalare ai cultori di scienza politica e di sociologia.
Che cosa sia la democrazia critica (un metodo per la ricerca delle soluzioni che assume la fallibilità degli uomini e la loro limitatezza; un atteggiamento dello spirito, aperto all’ottimismo ma non chiuso al pessimismo; una sorta di tensione al meglio e di insoddisfazione rispetto all’esistente, etc) Zagrebelsky lo spiega, con ricchezza di espressioni, partendo dall’analisi accurata del procedimento “apparentemente” o “strumentalmente” democratico adottato da Pilato e dal Sinedrio – con fondamento diverso ma con finalità convergente – per condannare Gesù, anzi per far condannare Gesù dal popolo.
L’analisi è svolta, con grande acume, partendo dai testi evangelici, ovviamente in questo contesto utilizzati come straordinario vaso di paradigmi (“una specie di bassorilievo del mondo e dell’uomo e dei caratteri umani, dove tutto ha il suo nome e la sua connotazione per i secoli dei secoli  scrive Zagrebelsky, citando Dostoevskij) e non come il testo teologico basilare del Nuovo Testamento e men che meno come un testo da vivisezionare con le tecniche degli esegeti biblici.
Ne viene fuori un quadro politico-sociologico delle reciproche interazioni fra la folla, le autorità e Gesù stesso, che, per quanto attiene alla vicenda della Passione, mi è parso completo, profondo ed originale.
Nella mia sensibilità di questi tempi, non potevo mancare di soffermarmi sui temibili processi di genesi di quel consenso che portò la folla unanime della domenica delle palme a gridare tre volte “crucifige!”: come potevano essersi determinate quelle pulsioni ostili e violente fra lo stesso popolo dell’Osanna? Che tipo di suggestione manipolativa ha influenzato la folla, trasformandola in una muta della quale non si può non avere terrore? Quali rozze semplificazioni hanno suggerito il grido, quali paure, quali facili scorciatoie della mente ha preso il pensiero e quali chine ha preso il sentimento? Quale tenda d’argilla si lascia calare tanto spesso sugli occhi degli uomini, specie quando la “massa psicologica” assorbe la psiche individuale (Freud)? “La folla che gridava il crucifige”, conclude Zagrebelsky,”era esattamente il contrario di quel che la democrazia critica presuppone: aveva fretta, era atomistica ma totalitaria, non aveva né istituzioni né procedure, era instabile, emotiva e quindi estremistica e manipolabile….una folla terribilmente simile al ‘popolo’ al quale ‘la democrazia’ potrebbe affidare le sue sorti nel futuro prossimo
E ancora, tornando più direttamente al tema civile della “democrazia critica”: “alla fine di questa ricostruzione, noi vorremmo dire che l’atteggiamento più prossimo alla democrazia – alla democrazia critica – è quello di Gesù…..quel Gesù che, silente ‘fino alla fine’ invita al dialogo ed al ripensamento; che tace, aspettando ‘fino alla fine’…….Della democrazia critica, la mitezza ….è certamente la virtù cardinale. Ma solo il Figlio di Dio potè essere mite come agnello muto. Nella politica, la mitezza, per non farsi irridere come imbecillità, deve essere virtù reciproca. Se non lo è, ad un certo punto ‘prima della fine’, bisogna rompere il silenzio e agire per cessare di subire.”
In sintesi: un libro da leggere.
 Roma, 19 settembre 2013

PS. Unica pecca del libro è quella di aver tratto tutte le numerose citazioni bibliche da un ampolloso testo seicentesco. Francamente, se mi è consentito, un vezzo fastidioso, talora molto fastidioso.



venerdì 13 settembre 2013

L'igiene delle opinioni

Misure di autotutela
(di Felice Celato)
Un recentissimo dibattito fra amici (l’argomento qui non ha importanza) mi ha indotto a focalizzare, in mezzo al patrimonio di valori e valutazioni di fondo assolutamente convergenti (io ho il previlegio di avere questo tipo di amici!), una mia peculiare sensibilità ad un tema che ai più è parso, invece, quasi marginale o comunque tanto laterale da risultare inconferente rispetto all’oggetto della discussione.
Poiché questo tema (quello dell’”igiene” della formazione delle opinioni) è uno dei pilastri di tante mie non proprio serene aspettative sul futuro (intramondano!) della nostra “eredità”, vorrei tornarci sopra per chiarire, prima di tutto a me stesso, le mie idee al riguardo.
La mia tesi è questa: noi viviamo in un paese caratterizzato dallo sfarinamento progressivo di ogni consistenza del ragionare, da un fastidio per i concetti che appena appena siano un po’ faticosi da mettere insieme; e, d’altro canto, dal progressivo consolidamento di emozionismi vaganti pronti a riprodursi, come certe piante anemofile, sull’onda del vento. E questo potente fluttuare di pollini fa fiorire vacue opinioni caduche che divengono rapidamente – per una sorta di loop naturale fra opinioni (anche mal radicate) e politiche elettoralistiche – altrettanto caduche linee di azione. La conseguenza, e qui uso le parole del Censis (Fenomenologia della società impersonale, giugno 2013) che a questo fenomeno ha dedicato tanta attenzione, è una società afasica….un ingorgo di emozioni che non ha le parole per essere espresso, i pensieri per essere pensato. Il vento “fecondatore” è, ovviamente, il largo mondo delle comunicazioni, con la sua congerie di messaggi, di “pressioni sugli spiriti” (Paolo VI, Messaggio sulle comunicazioni sociali, 1967), di sollecitazioni, di veicolazioni di mentalità e di stili di vita. E tanto più è potente questo vento, quanto meno solido è il terreno culturale cui applica messaggi, pressioni, sollecitazioni, mentalità.
Da questo punto di vista l’Italia appare un paese particolarmente gracile, da un lato per la povertà dei suoi livelli di formazione (per esempio: in Italia l’incidenza dei laureati è pari alla metà di quella dei principali paesi europei, e il divario tende a crescere nel tempo; per essa si parla di analfabetismo funzionale diffuso, cioè l’incapacità da parte di individui di usare in modo efficiente le abilità di lettura, di scritture e di calcolo, vedasi la ricerca OCSE-Unesco Adult literacy and life skills, citata sempre dal Censis); dall’altro, per l’omologazione verso l’alto di stili di vita diffusi in altri Paesi, vissuta senza la capacità di mediazione critica che solo più profondi livelli culturali  consentono.
Per questi motivi, sono portato a considerare, forse ossessivamente, la necessità di un’igiene scrupolosa delle opinioni, di una sorveglianza occhiuta ai cibi (della mente) che ci propiniamo ed alle correnti (delle emozioni) che circolano. Come, appunto, dovrebbe fare ogni persona gracile che si lava spesso le mani, sta attento a quello che mangia e si sottrae agli spifferi.
Assai difficile, però, ancorché per certi aspetti  decisivo, è tradurre queste considerazioni in rimedi di tipo politico, particolarmente in democrazia, dove “il degrado antropologico è anche determinante nella selezione della rappresentanza, che per un verso lo esprime e per l’altro lo legittima e lo consolida” (come scrive il filosofo Salvatore Natoli, Il buon uso del mondo, Mondadori, 2010). Non ho dubbi al riguardo che l’unica strada da percorrere sia quella dell’investimento nel capitale culturale del Paese, nelle sue competenze e nella sua apertura al mondo; ma questo investimento richiede tempi lunghi e sforzi enormi, che forse possono eccedere le risorse di un paese sfibrato.
Non resta, allora e nel frattempo, che il ricorso, appunto ossessivo, a rimedi di “autoprotezione” che si possano mettere in campo sul piano individuale e micro-collettivo (l’igiene del linguaggio, la sanità delle sue fonti, la misura nelle dosi di polemica quotidiana, etc), come altre volte siamo venuti dicendo su questo blog (vedasi la serie: Ecologia della convivenza). Non sarà molto, ma almeno questo  mi pare alla nostra portata. E doveroso per la nostra salute.
Roma, 13 settembre 2013





domenica 8 settembre 2013

Stupi-diario dell'indignazione/2

Nessuno è preoccupato
(di Felice Celato)
In un post di luglio avevo già segnalato la poco commendevole iniziativa del Corriere della sera di sottoporre al termometro degli opinionismi istantanei, espressi con emoticon, le singole notizie che compaiono sull’edizione on-line; fra le reazioni dei lettori (che possono scegliere fra Indignazione, Soddisfazione, Divertimento, Tristezza e Preoccupazione, variano solo le  faccette) viene poi segnalata l’”opinione” prevalente.

Ecco un campionario odierno, abbastanza esaustivo (8 Settembre, ore 18):

  • Letta: “No veti, non voglio galleggiare”: 36% soddisfatto
  • Olimpiadi: Il governo si candida per il 2024: 43% indignato
  • Casaleggio: Mini-show a Cernobbio: 36% divertito
  • Il papa: guerre utili a vendere armi:78% soddisfatto
  • Protesta social dei militari Usa: non combatto per Al Quaeda:71% soddisfatto
  • Scuola:il Ministro: Mai più a 25 anni senza aver lavorato: 45% soddisfatto
  • Strangolata a Lodi, il killer confessa: ”gioco erotico”45% indignato
  • Raul Bova ricoverato per febbre alta; ora sta bene:50% triste
  • L’archetto segato: i trucchi dei ladri di biciclette:50% indignato
  • Pioggia e forti temporali al Nord, allarme della Protezione Civile:35% divertito
  • Il principe Andrea fermato a Palazzo: la polizia si scusa: 88% divertito
  • Berlusconi:il ricorso alla corte europea: 82% indignato
  • Renzi:il PD perdeva anche alle elezioni del condominio: 34% divertito
  • Rotondi, il candidato “appassionato”: 45% indignato
  • Aggredisce due donne e si barrica, 107enne ucciso dalle teste di cuoio: 32% triste
  • Sanremo, turista milanese di 81 anni stuprata in casa, arrestato l’idraulico: 42%indignato
  • Il professore di Saluzzo: le ragazze erano consenzienti: 47% indignato
  • Ucciso da sangue infetto in ospedale: sospetto sul sapone usato dai medici:56% indignato
  • 8 settembre, il fantasma della patria che muore: 61% triste 

Un panorama complesso, non vi pare? Prevale, come al solito, l’indignazione (il sentimento nazionale), soprattutto quando c’è di mezzo Berlusconi; soddisfazione rilevante solo per il Papa e per i militari Usa che non vogliono combattere per Al Quaeda; tristezza per Raul Bova (anche se sta meglio!) e per la patria (post 8 settembre, però!); la notizia del 107enne ucciso dalle teste di cuoio suscita una moderata tristezza (i fatti, in fondo, si sono svolti in Arkansas!); grande divertimento invece (non ostante la distanza) per l’avventura del principe Andrea. Modesto il divertimento per i temporali al nord (o per l'allarme della Protezione Civile?). Per fortuna, nessuno è preoccupato! Meno male.

Fatelo, ogni tanto, questo divertente (?) esercizio di tastare le pulsioni nazionali; aiuta a capire il Paese!

Roma, 8 settembre 2013 (70 anni dopo “l’armistizio”).



martedì 3 settembre 2013

Letture

L’Apostolo
(di Felice Celato)

Nel difficile intento di sottrarmi ad ogni attenzione a quanto avviene in questo povero Paese, mi sono immerso, per molte ore e per molti giorni, nella lettura di un corposo libro che raccomando non solo ai lettori tenaci ma anche a quelli meno allenati che sappiano però gustare, magari poche pagine al giorno, una singolare biografia: la storia infatti, almeno a grandi linee, ci è nota e non si rischia, leggendone poche pagine per volta, di perdere il filo della narrazione.
La biografia riguarda infatti l’Apostolo Paolo e – cosa che rende singolarmente interessante questo libro – è stata scritta, ormai molti anni fa (nel 1943), da un autore ebreo (Sholem Asch, polacco naturalizzato statunitense, vissuto fra il 1880 e il 1957) che, confesso, pur ritenendomi se non uno specialista almeno un appassionato cultore della letteratura ebraica, non conoscevo.

E’ del tutto evidente che l’Apostolo Paolo costituisca, per i nostri fratelli ( e padri nella fede) ebrei, un personaggio scomodo, controverso, per qualche aspetto scandaloso; non a caso, leggo nella biografia dell’autore, questo libro gli è costato un pesante isolamento dalla sua comunità perché in fondo Sholem Asch si dimostra non solo profondamente affascinato dalla figura di Paolo ma anche un innamorato del Messia e dei suoi insegnamenti.

Con la maestria narrativa propria della sua cultura e della sua esperienza di drammaturgo (il libro si legge con grande piacere, con la fluidità di un romanzo), Sholem Asch ricostruisce, in gran parte sulla base degli Atti degli Apostoli, delle lettere paoline e delle tradizioni storiche cattoliche, la vita e le avventure di questo titano della storia della fede che fu San Paolo, aggiungendovi non solo l’immaginazione del contesto ma anche il supporto di un’appassionata prospettiva intrisa, come è ovvio, di sensibilità religiosa ebraica.

Proprio alla luce di questa, Sholem Asch  focalizza la sua attenzione sul  “dramma” del Fariseo figlio di Fariseo che, non solo si fa “scandaloso” Apostolo dei Gentili, ma scardina, con forza trascinante, il recinto della salvezza  che popolo di Giacobbe ascrive alla sua propria elezione.

Ne viene fuori un affresco impressionante, da un lato, della macerazione culturale di una Chiesa nascente che fatica ad integrare la sua rilevantissima matrice ebraica con le prospettive universali del messaggio cristiano, mentre le radica nella cultura pagana di Roma e dell’ambiente tardo ellenistico; dall’altro, delle lacerazioni drammatiche che via via si producevano all’interno di quel pilastro del monoteismo che è stato l’ebraismo, fra tradizionalisti e “Messianisti Cristiani”.

Un libro di straordinario interesse (L’Apostolo, di Shlem Asch, editore Castelvecchi, 2013) che vale anche a “rinfrescare” la memoria di quanti hanno dimenticato le radici (benedette) della nostra fede e della nostra cultura: non solo i protagonisti della Storia (Gesù stesso, Maria, Giuseppe, Maria di Magdala, Pietro e Andrea, Giovanni e Giacomo, Matteo e tutti gli altri) sono ebrei ma ebrei furono gran parte dei primi convertiti che hanno costituito l’ossatura della chiesa nascente, sicché, come ricorda Messori nel libro segnalato qualche post fa (Ipotesi su Gesù), non si può non dire che gli ebrei hanno creduto, come credettero, dopo di loro e, come loro, in parte, i Gentili cui Paolo si rivolse come ebreo e figlio di Israele.
Roma 3 settembre 2013