martedì 31 luglio 2018

Divagazioni oziose

Babelisti D.O.C.
(di Felice Celato)
Come forse i lettori più assidui di questo blog ricorderanno, le cicale hanno su di me l’effetto (non tocca a me dire se benefico o malefico) di trascinarmi verso divagazioni, pensose forse, ma, più probabilmente,  solo  oziose.
Stavolta è toccato al tema del razzismo, un male antico dell’uomo (mi è capitata tra le mani una foto del pogrom antisemita del 1941, a Leopoli, dove un “buon” borghese, con tanto di giacca allacciata e cravatta, assesta un calcio sulla schiena di un ebreo caduto a terra, fra l’indifferenza degli astanti; una foto agghiacciante!); un male antico, dicevo, anche molto più antico del pogrom di Leopoli, ma sempre pronto a riemergere con forza, come tutti sappiamo (e – in molti? – temiamo).
Anzi, secondo alcuni osservatori americani, il tema razziale sarà, in modi diversi e per diverse vie, il tema di fondo delle prossime tenzoni politiche statunitensi. Un autorevole “fondista” del NYT (David Leonhardt, certamente non accusabile di simpatie Trumpiane) fa notare che esiste un rischio di una racialised politics dei Democratici alle prossime elezioni, sulla base del fatto che i bianchi non ispanici, negli Usa, rappresentano (ancora) ben il 68 % degli aventi diritto al voto e, per di più, fra di essi, vi è una propensione al voto maggiore degli altri gruppi etnici. [Non senza ragione, notava amaramente Benedetto XVI nell’enciclica Spe salviNon ci è dato forse di constatare, …proprio di fronte alla storia attuale, che nessuna positiva strutturazione del mondo può riuscire là dove le anime inselvatichiscono?].
D’altra parte, twitta l’ economista americano Jed Kolko (ora pure gli economisti twittano!?) negli Usa, a giugno 2018, l’età più comune fra gli statunitensi è di 58 anni per i bianchi, di 28 per gli asiatici, di 27 per gli afro-americani e di 11 per gli ispanici. Se non stesse twittando, l’economista – a me sconosciuto – forse avrebbe precisato se con l’uso del termine età più comune intenda riferirsi al concetto statistico di moda – il valore rilevato con maggior frequenza – o, più probabilmente, al concetto statistico di mediana – il valore che divide a metà il mondo dei dati rilevati; ma, come che sia, il dato twittato è impressionante e ci dà la sensazione delle mutazioni demografiche che aspettano il nostro mondo. In aggiunta a ciò, sempre in USA (dato Vox.com)  pare che in ben 22 stati (su 50) il numero dei bianchi morti supera oggi quello dei bianchi nati; lo stesso dato era di 17 nel 2014 e di 4 nel 2004! Mi piacerebbe avere lo stesso dato per le varie regioni italiane, magari distinguendo gli italiani d.o.c. (concetto tanto caro ai parmigianisti di casa nostra) dagli italiani “d’imitazione” (ammesso che ci sia qualcosa da imitare).
Poi, sempre portato dal canto delle cicale, ma forse ispirato dalla confusione del nostro mondo, mi è venuto in mente di rileggere il passo del Genesi (Gn. 11, 1-9) dove si parla, appunto, di Babele (dove il Signore confuse la lingua di tutta la terra). Stratificato in mente avevo il concetto della torre che spiacque a Dio per la sua altezzosità (“Venite, facciamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”). Ma rileggendo il passo dell’Antico Testamento mi è venuto in mente che forse al Signore spiacque, più che la torre, l’intento di fare una città per non disperder[si]  su tutta la terra, una città chiusa in sé dal nome di quelli che l’avevano fondata: i babelisti d.o.c. li si sarebbe detti.
Roma 31 luglio 2018, Festa di sant’Ignazio.


domenica 29 luglio 2018

Una lettura rinfrescante

La democrazia come martello
(di Felice Celato)
Se il caldo vi spinge a desiderare anche una lettura rinfrescante, eccovi una segnalazione utile. Preceduto da una prefazione di un “grande vecchio” della dottrina dello stato (Sabino Cassese) ed accompagnato da un breve saggio di un apprezzato politologo accademico (Raffaele De Mucci), la Luiss University Press ha tradotto e pubblicato un testo dal titolo (e dal metodo) intelligentemente provocatorio: Contro la democrazia (2018), di Jason Brennan, un giovane filosofo americano, scrittore lucido, chiarissimo ed argomentativo, che esprime opinioni urticanti, ma lo fa rendendosene pienamente conto ed anzi volendolo; per dimostrarci che si possono avere idee non convenzionali, magari non integralmente condivisibili (questa è l’opinione di Cassese) o dense di interrogativi (De Mucci) ma sicuramente utili a scuotere le incrostazioni del nostro pensiero; aiutandoci così a relativizzare le certezze in cui siamo stati – appunto: convenzionalmente – abituati a guardare ai nostri “adorati” principi democratici; ed anche a meglio valutare le inquietudini che ci pervadono quando ci affacciamo a considerare quel che vediamo dattorno, in Italia ma non solo.
La tesi di Brennan è che la democrazia, così come siamo abituati a considerarla (una procedura decisionale di per sé giusta), va ricondotta al suo valore strumentale (la sola ragione per preferire la democrazia a qualsiasi altro sistema politico è che è più efficiente nel produrre risultati giusti, secondo standard di giustizia che sono indipendenti dalla procedureLa democrazia non è diversa da un martello – cioè è uno strumento, un mezzo per un fine, non un fine in sè. Se riuscissimo a trovare un martello migliore dovremmo usarlo.)
E qual è lo strumento migliore, secondo Brennan? L’epistocrazia cioè un regime in cui il potere politico è formalmente distribuito secondo le competenze, la capacità e la buona fede di agire sulla base di quelle capacità. E alle esigenze di selezione che anche siffatto regime imporrebbe, si può provvedere, secondo Brennan, in forme adeguate, dal suffragio ristretto, al voto plurimo e persino al suffragio per sorteggio a condizione che i sorteggiati si sottopongano poi ad esercitazioni per l’acquisizione di competenze.
Si può (banalmente) sorridere sulla praticabilità di tali strumenti (del resto proposti con qualche sottile ironia); oppure, come fa Cassese, si può ritenere che l’epistocrazia possa operare come correzione della democrazia, come un suo limite, non al posto di essa, salvo tornare al suffragio limitato per livello di istruzione; e che in fondo i poteri pubblici non sono tutti egualmente democratici, perché non tutto il potere è affidato ad istituzioni democratico-elettive (non a caso, Sabino Cassese è da tempo un aspro contestatore del cosiddetto spoil system che potrebbe consentire anche una permeazione di tali istituzioni da parte di istanze a-tecnicamente democratiche). Eppure non si può non riconoscere, come fanno lo stesso Cassese e anche più esplicitamente De Mucci, che non possiamo non dirci d’accordo sulle critiche [di Brennan] al funzionamento delle attuali democrazie. Ed è perfino difficile dissentire dall’idea portante delle sue argomentazione che la democrazia non sia una forma di “intelligenza o saggezza collettiva”, come sostiene una lunga serie di autori sulla scorta di Aristotele. Primo, perché questi attributi possono essere predicati di individui e non di masse indifferenziate di elettori, fra i quali sono davvero pochi coloro che si impegnano e sono un minimo informati per concorrere consapevolmente alla formazione di scelte collettive. Secondo perché, proprio per questo, la democrazia “aritmetica”, nella quale i voti si contano, non coincide con la democrazia “epistemica”, nella quale i voti pesano
Direi che del volume di Brennan è proprio l’analisi critica delle condizioni in cui opera la democrazia ai giorni nostri la parte più convincente ed anche la più appassionante. L’epistocrazia è forse destinata a restare una saggia aspirazione; ma è anche vero, come nota Brennan, che per giustificare la democrazia abbiamo bisogno di spiegare perché è legittimo imporre su persone innocenti decisioni prese in modo incompetente.
Orbetello, 29 luglio 2018





giovedì 26 luglio 2018

Ex ante

Sic transit gloria mundi
(di Felice Celato)
Sic transit gloria mundi, si potrebbe dire se si guardasse con occhi meta-storici alla vicenda umana e professionale del dott. Marchionne, che tanta impronta di sé ha lasciato, invece, nella storia dell’acciaccata industria da noi “percepita” nostrana quando già da un pezzo doveva operare su un mercato globale.
Senonché il paese, così denso di umanità decaduta e di intelligenze spente, ci ha offerto anche un campione di codardi oltraggi e di borborigmi, accanto – bisogna riconoscerlo – ad entusiasti (e magari affrettati) “coccodrilli. Non è certo il caso di diffonderci, qui, aggiungendo la nostra alle tante giudicanti opinioni che sono fiorite sulla stampa, anche – per fortuna – per opera di penne esperte e di menti lucide che hanno saputo leggere la dimensione storica delle scelte del dott. Marchionne, per l’azienda che gli era stata affidata dagli azionisti, ma non solo per essa.
Vorrei invece cogliere la occasione per una considerazione laterale e non consueta fra i nostri (tanti) “opinionisti” istantanei e nemmeno “popolare” fra quelli (pochi) più riflessivi ma pur sempre pronti alla pratica del saccente giudizio ex-post, di solito decontestualizzato.
Purtroppo chi – in qualunque ambito, aziendale o non; su qualunque scala, locale o globale; in qualunque tempo, quieto o movimentato – è pagato per operare ha, per definizione, una visuale corta ed incerta; l’ex-ante è il canone dominante del necessario suo operare. Certo, si può essere naturalmente più o meno lungimiranti, più o meno acuti nel valutare scenari futuri, evoluzioni e tendenze; ma il futuro, chiaro, lo vede solo Iddio; sempre, ma soprattutto in un mondo che cambia così in fretta. Alcuni possono intuirlo (e se hanno fortuna sono ricordati come lucidi visionari); altri possono mancarlo, magari vistosamente (e se hanno questa sfortuna diventano, nel facile opinionismo quotidiano, visionari scriteriati). Ciò che si deve giudicare ex-ante, in azienda, in politica, in ogni attività umana, persino in agricoltura, non è certo un puro guessing, un indovinello privo di punti di riferimento (diversi dalla curva di Gauss) che sono la guida del ben decidere. Ma i punti di riferimento si muovono anch’essi e – nel buio del futuro – la stella che pareva fissa spesso si muove nel cielo e disorienta il navigante (la storia, del resto, è piena di disruptive innovations che hanno sconvolto la prevedibile evoluzione del progresso; ma più semplicemente, in un mercato competitivo, anche gli altri – i concorrenti – si muovono e i loro movimenti possono non essere scontati).
E tuttavia, come dicevamo, l’arte di decidere ex-ante non  è un puro indovinare; è anch’essa una sintesi di diverse competenze tecniche (analitiche, proiettive, congetturali, etc) e di attitudini mentali adeguatamente aperte allo studio costante ed al confronto, attente alle vie di fuga e al rischio calcolato, preparate alle confutazioni in corso d’opera e ai conseguenti (eventuali) aggiustamenti di rotta; competenze ed attitudini che, tutte insieme, tentano di razionalizzare il futuro e di cogliervi un percorso possibile, alla luce delle (sempre limitate) variabili che si riescono a  considerare. Insomma: decidere è tutt’altro che facile… specie quando si decide sul futuro, e quindi ex-ante, come avrà senz’altro sperimentato per una vita intera il dott. Marchionne. Ex-post è tutto infinitamente più facile, direi alla portata di qualsiasi imbecille (beh! non esageriamo: almeno della maggioranza di essi); e sicuramente di qualsiasi sapiente commentatore postumo di altrui decisioni.
Il futuro – ovviamente – rimane sempre incerto nei mercati del mondo e può validare o sconfessare strategie come pure imporre nuovi aggiustamenti di rotta; ma lo scorcio di storia che è già trascorso ha dimostrato che il suo mestiere, il dott. Marchionne, lo fatto come pochi avrebbero saputo, in un contesto estremamente difficile nel quale – fra i mille frastuoni di coloro che sanno guardare solo al “come si è sempre fatto” – era arduo prendere decisioni straordinarie, appunto, di portata storica. Ex ante, naturalmente.
Roma, 26 luglio 2018


martedì 24 luglio 2018

Anniversari

24/25 luglio 1943
(di Felice Celato)
“Solo” 75 anni fa, nella notte fra il 24 e il 25 luglio del 1943, il fascismo cominciava la sua rapida e rovinosa caduta che, dalle piazze gremite di folla plaudente, rapidamente conduceva il regime (e l’Italia) a piazzale Loreto. Il regime autoritario, autarchico, bellicoso e razzista cominciava a ruzzolare, fra le rovine fumanti di una guerra dissennata, seminatrice di lutti, di divisioni e di distruzioni, e lo sgretolarsi del consenso delle folle oceaniche – di cui pure il fascismo godeva quando annunciava tonante le soluzioni necessarie... contro il problema ebraico (Piazza dell’Unità d’Italia, 18 settembre 1938) o le ore segnate dal destino (Piazza Venezia, 10 giugno 1940).
Complice – appunto – la sconfitta militare, con rapidità, in 21 mesi (dal 25 luglio 43 al 28 aprile 45), il consenso oceanico mutava negli oltraggi di piazzale Loreto i fasti di un regime durato più di vent’anni non senza aver goduto di un vasto consenso popolare, del resto rapidamente disperso.
Così va il mondo, da sempre; ogni volta che la vox populi viene scambiata per la vox Dei e magari si immagina che qualcuno la sappia interpretare in focosa solitudine; ma anche ogni volta che persino la democrazia presuma la definitività delle sue stesse decisioni, facendo sua l’assolutizzazione del potere popolare che presuppone o il dogma o la schepsi (G. Zagrebelsky, Il “crucifige” e la democrazia, Einaudi, 2007).
Dunque, il 25 luglio contiene per noi, ancora, a 75 anni di distanza, un messaggio di vigilanza critica: quand’anche largamente penetrato nelle mentalità di molti, o di quasi tutti (come avvenne del fascismo), persino il vigoroso e fors’anche – per certuni – affascinante messaggio di chi si riteneva ad un tempo vox populi vox historiae, ha potuto vacillare dinnanzi al coraggio di quelli che hanno saputo far proprie (anche in ritardo) le esigenze del realismo sulle condizioni del paese. Nel contesto delle nostre democrazie contemporanee non siamo, per nostra fortuna, richiesti di confrontarci con simili, soverchianti dominazioni politiche, in contesti tanto drammatici; ma rimane l’esigenza civile – rubo ancora le parole a Zagrebelsky (loc.cit.) – di una democrazia critica che non sarà mai un tronfio regime sicuro di sé, che rifiuta le autocritiche, guarda solo avanti, è sempre proiettato allo scopo e dimentico delle sue radici…ma un regime inquieto, circospetto, diffidente nei suoi stessi riguardi, sempre pronto a riconoscere i propri errori, a rimettersi in causa, a ricominciare da capo.
Roma 24 luglio 2018

martedì 17 luglio 2018

Defendit numerus / 22

Parliamoci chiaro
(di Felice Celato)

L’International Monetary Fund (IMF) ha appena pubblicato le ultime previsioni sulla crescita economica del mondo intero nel 2018 e nel 2019 , dei suoi singoli sub-aggregati (Economie avanzate, in sigla Adv.Ec, ed Economie dei paesi emergenti e delle economie in via di sviluppo, in sigla E.M.&D.E.) e, in particolare, di alcuni paesi. Chi vuole può trovarle in dettaglio su questo link:
Chi non ne ha voglia, può dare un’occhiata a questa super-sintesi, che ci dice già molto dei nostri problemi (al di là delle chiacchiere che ci piacciono tanto).

(Variazioni % sull’anno precedente)

2017 (stima)
2018 (prev.)
2019 (prev.)
Mondo int.
3,7
3,9
3,9
Adv.Ec.
2,4
2,4
2,2
di cui      USA
2,3
2,9
2,7
Area Euro
2,4
2,2
1,9
Germania
2,5
2,2
2,1
Francia
2,3
1,8
1,7
UK
1,7
1,4
1,5
Spagna
3.1
2,8
2,2
Italia
1,5
1,2
1,0
Giappone
1,7
1,0
0,9
Canada
3,0
2,1
2,0
Altre
2,7
2,8
2,7
E.M.&D.E.
4,7
4,9
5,1
di cui      Cina
6,9
6,6
6,4
India
6,7
7,3
7,5
E.M. Europei
5,9
4,3
3,6


L’Italia precede, nel biennio 2018-19, solo il Giappone (nonostante che questo abbia una sua moneta, dovrebbero riconoscere alcuni). E’ penultima nel G7 e ultima fra i maggiori paesi Europei; cresce la metà delle altre economie avanzate e meno di un terzo del mondo intero.
Roma, 17 luglio 2018

lunedì 16 luglio 2018

Dibattiti

Coincidenze... finali
(di Felice Celato)
Credo di poter dire che, nella non breve “storia” di queste conversazioni asincrone (cominciate nell’aprile di oltre sette anni fa), veramente pochi post hanno destato così tante cortesi (questo è lo stile della casa e dei lettori) perplessità come l’ultimo, Quid est bonitas?; che, del resto, non faceva altro che argomentare su un articolo di un filosofo contemporaneo, letto sul più importante quotidiano Italiano (il Corriere della sera). La sostanza di queste perplessità può riassumersi nell’enunciato (un po' anche figlio dei tempi): “la bontà non può essere un criterio di governo”.
Anche senza arrivare a proclamarmi un seguace di Machiavelli, non esito a riconoscere che l’enunciato mi trova sostanzialmente d’accordo: l’arte del governo di una comunità (locale, nazionale o plurinazionale che sia) postula assai più l’esercizio della ragione che non del sentimento (per banalizzare: del cuore). La cosa, del resto, non può nemmeno sorprendere un cattolico d’antan come il sottoscritto, cioè un cattolico sicuramente démodé; gli basterebbe rifarsi alla ben nota citazione di Benedetto XVI: “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio” (Regensburg, 12 sett. 2006).
E dunque ben volentieri riconosco che la bontà, in sé, non può costituire un indirizzo politico, allo stesso modo in cui il cosiddetto buonismo – di cui abbiamo parlato qualche post fa – non potrebbe certo essere un indirizzo partitico. Eppure…. Eppure, pur essendo l’arte del governare un esercizio di umane abilità (e competenze!) al servizio della ordinata convivenza, non mi sentirei di affermare che la bontà sia completamente fuori giuoco. Essa, nella mia sensibilità, vorrebbe essere il sostrato generoso del nostro comune sentire, la stoffa umana della nostra società, del resto incorporata persino nei Principi Fondamentali della nostra Costituzione (art 2: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale). Se volessimo essere ancora più formali, potremmo legittimamente auspicare di intravvedere nella bontà addirittura uno di quei (riconoscibili) valori fondamentali in mezzo ai quali sorgono il diritto e la politica (per usare le parole di una citazione già fatta qualche post fa) e nei quali è radicata, come abbiamo visto, la nostra Costituzione.
Con ciò, non voglio assolutamente affermare che il mio discorso dell’altro giorno potesse avere una diretta valenza politica; esso, invece, pretendeva di avere – come il testo dal quale prendevo lo spunto – una pura connotazione umanistica; nella convinzione però che questa potesse, in modo mediato dalla ragione, assumere nel tempo un indiretto significato politico.
Bene, fin qui le ragioni della perplessità suscitata dalle mie note (evidentemente non chiare a sufficienza).
Certo non mi illudo di finire qui la nostra piccola discussione; si potrebbe a lungo discettare (e questo sarebbe veramente un tema politico) su quali siano i criteri e quale la vista (corta o lunga) con cui la ragione effettua quella mediazione di cui parlavamo qualche riga fa. E qui, forse, ci troveremmo di fronte ad un bivio che consiglia di fermarci qui; ma che, per noi cattolici (d’antan, s’intende), porta ad una “pericolosa” coincidenza, fra il Logos (che significa, ad un tempo, ragione, senso e parola… Dio, che è Logos, assicura all’uomo…. la corrispondenza di Dio alla ragione e la corrispondenza della ragione a Dio, J.Ratzinger: Introduzione al Cristianesimo, LEV, 2005, pg 21) e la Caritas (Deus caritas est, Enciclica di Benedetto XVI, 25 dic.2005). Coincidenze non solo meta-fisiche.
Roma, 16 luglio 2018



giovedì 12 luglio 2018

Quid est bonitas?

La virtù vilipesa
(di Felice Celato)
Se un filosofo italiano (ma di cultura internazionale, Luciano Floridi, professore di Etica dell’informazione all’università di Oxford) ha sentito il bisogno di scrivere sul Corriere della sera dell’11 luglio un lungo articolo sul “Male di democrazia” (inteso come soffocante malanno cronico del nostro tempo civile, che richiede una terapia urgente), qualcosa deve esserci di giustificato nel disagio che proviamo ogni giorno guardandoci intorno o solo ascoltandoci. E se questo filosofo sente il bisogno di concludere le sue prescrizioni con quest’appello: Organizzare la buona volontà, l’intelligenza, e l’operosità per rimpiazzare le politiche della paura e dell’interesse con le politiche della speranza e della solidarietà. Non so se per aiutare i buoni ad aggregarsi e coordinarsi serva un nuovo «partito aperto», o basti riformare uno vecchio. Ma so che bisogna smettere di litigare, e che serve un‘interfaccia che accolga tutte le buone volontà e le tante competenze, per far interagire la società civile con la vita politica e la gestione dello Stato. La malattia è seria. La terapia è urgente. La cura non sarà né facile né rapida. Perciò prima i buoni iniziano a fare sul serio meglio è; beh! se è così, vuol dire che non siamo solo noi a rivendicare il diritto di aspirare ad essere buoni (cfr. Controcorrentepost del 21 giugno u.s.) e a sentire, anzi, il dovere di esserlo.
Allora, forse è meglio essere chiari su che cosa può voler dire essere buoni. Cominciamo – come è sempre saggio fare – mettendoci d’accordo (laicamente, per carità!) su che vuol dire la bontà. Eccoci dunque al Vocabolario on-line della Treccani, fermandoci, per brevità, ai primi e più importanti significati: bontà: 1.a. L’essere buono; carattere di chi è d’animo buono e gentile, e particolarmente di chi, sensibile alla sorte degli altri, cerca di procurare loro tutto il benessere possibile e di evitare tutto ciò che li può fare soffrire; b. Sentimento e dimostrazione di benevolenza; quindi anche cortesia, gentilezza e simili; c. In senso concreto, atto di benevolenza, di gentilezza, buona azione.
Se poi fosse consentito (ma coi tempi che corrono è legittimo dubitarne) spingersi fino ad una lettura del concetto nella chiave propria delle nostre radici giudaico-cristiane (alle quali io – ma non solo io – sono molto affezionato), potremmo agevolmente ricordare che la bontà è – come dicevamo qualche giorno fa – l’attributo essenziale di Dio, partendo dal Genesi, fino al Nuovo Testamento, passando per Esodo, Profeti, Salmi, etc. (mi verrebbe spontaneo citare una splendida omelia di Benedetto XVI sul Salmo 136 - per intenderci quello che comincia Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre – ma lasciamo perdere). Nella tradizione Cristiana, poi, la bontà si fonde col concetto di carità/amore. Non a caso, per tornare al mondo dei laici, sempre sul Vocabolario on-line della Treccani, se si cerca il termine carità, fra i primi significati, si trova: 1. L’amore che, secondo il concetto cristiano, unisce gli uomini con Dio, e tra loro attraverso Dio; 2.a: Più comunemente, amore attivo per il prossimo che si esplica soprattutto attraverso le opere di misericordia. b. Sentimento umano che dispone a soccorrere chi ha bisogno del nostro aiuto materiale. Se poi non si ha paura di capire meglio, basterà rileggere San Paolo, 1°Cor. 13,1-13.
Bene. Se ci siamo messi d’accordo sul senso del concetto di cui parliamo, non dovrebbe esserci dubbio che stiamo parlando di un’eccelsa virtù (anzi della somma virtù), che ogni uomo (laico o fedele) dovrebbe ardentemente desiderare di praticare, in sé stessa o come riflesso della bontà divina; e di farne la base della nostra convivenza sociale, oltreché della nostra personale edificazione.
Il prof. Floridi (di cui dicevamo all’inizio) ci invita a farlo subito e sul serio per arrestare il declino antropologico che supporta quello democratico. Certo non è à la page, sa di una specie di fesseria ad alto contenuto di ingenuità, di irresponsabile buonismo da mezzi uomini; nel caso migliore, di presbite lungimiranza (che vede lontano ma perde i dettagli più vicini). Pazienza, guardare lontano è sempre stato difficile, soprattutto per i miopi.
Roma 12 luglio 2018

P.S. Se a questo post ho dato un titolo che riecheggia l’eterna scettica domanda di Pilato (quid est veritas?) è solo perché mi pare che l’eclissi della bontà come virtù anche civica segua proprio la dinamica scolpita nelle parole dell’insegnamento di Benedetto XVI (Assisi, 17/6/07) con riferimento al ragionamento del Prefetto romano: essendo irriconoscibile la verità (ovvero la bontà), Pilato lascia intendere: facciamo secondo quanto è più pratico, ha più successo, e non cercando la verità (ovvero la bontà). Condanna poi Gesù a morte, perché segue il pragmatismo, il successo, la sua propria fortuna.




lunedì 9 luglio 2018

Una voce civile

….in un aspro contesto
(di Felice Celato)
Non ho difficoltà ad ammettere che il tema dei migranti non solo mi tocca profondamente dal punto di vista civile; ma anche mi commuove e mi agita. Perché mi commuove, è facile a dirsi: homo sum, humani nihil  a me alienum puto, diceva Terenzio. Perché mi agita, invece, è più spiacevole dirlo: perché lo vedo diventato un tema non solo moralmente usurante ma anche viralmente divisivo. Lo si può toccare con mano, ogni volta che se ne esplora la consistenza nelle opinioni di tanti coi quali, pure, in tante cose ci si trova d’accordo; con i quali, pure, si condividono metri di giudizio e giudizi su tante cose.
Alla radice di questa aporia c’è, almeno da noi (ma non solo) - questo l’abbiamo detto tante volte – anche una grave deformazione delle proporzioni del problema. Ma, forse, c’è anche qualcosa altro di più profondo; e su questo riflette da par suo Zygmunt Bauman, un maestro della sociologia moderna scomparso qualche mese fa, nel suo saggio Stranieri alle porte, del 2016, recentemente edito (anche in ebook) da Laterza.
I libri di Bauman non sono sempre di facile lettura; ma questo, pur nell’obbiettiva complessità dei molti riferimenti filosofici, mi è sembrato esemplarmente chiaro e, come al solito, estremamente acuto e profondo. Provo a sintetizzarne almeno il senso, usando la discutibile tecnica delle ampie citazioni di brani che mi sono sembrati la “chiave” del discorso del “nostro” (col rischio di “sconfinare” dalle canoniche 750 parole).
Dunque Bauman muove da una ricapitolazione del problema nelle sue prospettive epocali [per quanto ci affanneremo ad allontanare la sdraio dalla riva e ad inveire contro le onde, la marea non ci ascolterà, le acque non si ritireranno, scrive citando Robert Winder, storico dell’immigrazione in Gran Bretagna]; approda poi ai lidi della “securitizzazione” come ambiguo e pericoloso vessillo di diffuse narrazioni politiche [La “securitizzazione” è un ottimo stratagemma per dirottare l’ansia dai problemi che i governi non sanno (e non vogliono davvero) risolvere ad altri problemi, cui gli stessi governi possono quotidianamente, su migliaia di schermi, mostrarsi intenti a lavorare alacremente e (talvolta) con successo] e ne coglie le “ricadute” politiche, sia in ottica storica [le società in crisi che ripongono le speranze in un salvatore, in un uomo (o donna) della provvidenza, cercano qualcuno che propugni un nazionalismo massiccio, militante, bellicoso, promettendo di lasciar fuori il pianeta globalizzato, richiudendo le porte che da tempo hanno perso (o hanno visto infrangere) i loro cardini e sono ormai inservibili], sia in ottica “profetica” [non siamo ancora riusciti a innalzare la nostra consapevolezza, le nostre intenzioni e le nostre azioni alla dimensione globale già raggiunta (in modo quasi certamente irreversibile) dalla nostra interdipendenza di specie: a una situazione cioè in cui la scelta tra sopravvivenza ed estinzione dipende dalla nostra capacità di convivere fianco a fianco, in pace, solidarietà e collaborazione reciproca, con stranieri che possono avere (o non avere) opinioni e preferenze simili alle nostre]. Ed infine ne traccia le connotazioni morali [Ciò che ….è in linea di principio evitabile – e dunque, da un punto di vista etico, va respinto ed evitato con ogni mezzo – è la tendenza di tutte le società umane a…. circoscrivere il perimetro degli esseri umani verso cui si applicano le responsabilità morali, escludendo dalla sfera delle obbligazioni morali determinate categorie di (altri) esseri umani…..Per parlare chiaro e tondo: la tendenza a fermare e disconoscere la responsabilità morale per gli altri una volta raggiunto il confine tra “noi” e “loro” è totalmente e incondizionatamente estranea e contraria all’”essere morali”].
Da sociologo, infine, Bauman delinea una modernissima ipotesi interpretativa del quadro antropologico che sorregge questa deriva: ci siamo resi avvezzi a convivere con una duplice personalità: quella offline (dovespontaneamente o per costrizioni culturali, le mie pulsioni e le mie responsabilità sono sotto controllo) e quella on-line (dove sono io a stabilire l’agenda, a premiare chi obbedisce e punire i ribelli e a brandire l’arma temibile dell’ostracismo e dell’esclusione); e allora eccone la conseguenza, che facilita il virale contagio del disprezzo per l’altro e l’illusione del recinto: il mondo offline è irrimediabilmente eterogeneo, eteronomo e polivocale, richiede scelte continue; e non esiste praticamente scelta che non sia ambigua, che non rischi di essere “essenzialmente contestata”, che non comporti quasi certamente vaste conseguenze che eludono anche le più analitiche e meditate previsioni. A confronto l’alternativa online appare incantevolmente e piacevolmente semplice e priva di rischi, poiché consente di ridurre la complessità e di sfuggire alle controversie. Quanto più impenetrabile la complessità e irrisolvibili le controversie, tanto più allettante appare l’alternativa.
E la gestione morale e civile del problema migratorio è indubbiamente una questione complessa.
Roma 9 luglio 2018














lunedì 2 luglio 2018

Letture

Una teologia dell’impresa?
(di Felice Celato)
Ho sempre pensato che il patriarca Noè sia, anche, l’archetipo dell’imprenditore: un’ispirazione (magari suggerita da Dio) , un progetto e un rischioso investimento (l’arca), la costituzione di scorte (le provviste alimentari per la lunga attesa nell’arca), la speculazione nelle attese, del diluvio, prima, e, poi, dal monte Ararat, che le acque si fossero ritirate (speculare = osservare, scrutare da un luogo elevato, scrutare col pensiero, indagare; dal Vocabolario Treccani), la lunga navigazione in acque tempestose, il premio per il successo (Esci dall’arca tu e tua moglie, i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli…etc, Gn 8,16).
E, tuttavia, il titolo del breve libro di cui voglio parlarvi oggi (di Michael Novak: Verso una teologia dell’impresa, Il Foglio, 2018) mi lasciava perplesso: non sono amante degli accostamenti fra la più alta delle attività umane (la teologia, la riflessione su Dio; per noi cristiani: sulla Sua Rivelazione) e le attività strumentali dell’uomo, utili o necessarie – nel caso di specie – per assicurarne la sopravvivenza e fondarne la libertà dai bisogni materiali; e ciò, quand’anche non mi sfuggano i potenziali profili etici di molti dei comportamenti dell’imprenditore e dei suoi collaboratori nell’espletamento dell’attività imprenditoriale; profili, peraltro, sempre riferibili all’agente umano nel suo concreto operare e non allo strumento (sia esso l’impresa, la finanza, il mercato, etc.).
Se volete, questa appena descritta è una perplessità eccessiva, forse un po' snobistica, come lo fu quella con cui qui annunciai che non avrei letto un certo libro di analoga materia che pure segnalavo (cfr: Non letture, del 10 novembre 2017). E difatti il breve libro di Novak, filosofo cattolico americano, scomparso l’anno scorso, mi ha comunque molto interessato, sia per i contenuti (di cui dirò subito, in breve) sia per il taglio concreto ed intelligente (in senso etimologico). 
Dunque, Michael Novak muove da una breve analisi dei fraintendimenti che, a suo giudizio (da me largamente condiviso), spiegano perché alcuni teologi contemporanei considerano le imprese come potenze malvagie, e il capitalismo democratico nel suo insieme qualcosa incompatibile con il cristianesimo. Si tratta di fraintendimenti in larga misura basati sulla circostanza che in realtà non sempre coloro che[..] rilasciano [dichiarazioni in materia] sono preparati come credono sull’argomento; ma sembra possibile rintracciare almeno sei particolari tipi di ideologia che si ripetono spesso senza alcuna particolare spiegazione o giustificazione. Ne riporto qui solo gli enunciati, rinviando, per i brevi e chiari dettagli, alla lettura del libro (un’ottantina di pagine; direi, meglio,  che si tratta di un lungo saggio pubblicato in veste di piccolo libro): (1) l’uso ideologico della povertà; (2) una visione del mondo basata sulle società tradizionali; (3) una certa naiveté circa la redistribuzione della ricchezza; (4) un pregiudizio anticapitalista tipico di molti intellettuali; (5) una certa propensione alla fabbricazione di colpe; (6) una tentazione costantiniana, intesa per tale una forte nostalgia per una società magari pianificata ma fortemente influenzata da convinzioni religiose. Il tutto, spesso e spiacevolmente condito con rilevanti deformazioni delle percezioni di quadro fattuale (e talora anche delle sottostanti dinamiche economiche o delle tecniche operate).
L’autore del libro è chiaramente un liberale e per questo facilmente lo seguo nelle considerazioni, fra le altre, relative ai rischi di derive statalistiche, magari dettate solo dall’intento di imporre ad un ‘impresa finalità diverse da quelle sue proprie (produrre ricchezza; s’intende: nella legalità). Per le ragioni dette all’inizio però mi viene meno naturale seguirlo nel suo tentativo di fondare – comunque al riparo dai fraintendimenti di cui s’è detto e nell’ambito di una visone liberale e capitalista – una teologia dell’impresa, basata su quelli che Novak chiama i segni della Grazia, persino metaforicamente impressi nell’attività dell’impresa  (creatività, libertà, nascita e morte, connotazioni sociali, libertà e responsabilità delle scelte, etc).
In conclusione, mi verrebbe da dire che – a mio parere – il saggio di Novak non è (né vuole essere) un libro di verità ma un libro di riflessione e di ricerca, utile, se non per pervenire ad una teologia dell’impresa, almeno per ricapitolare gli argomenti che fanno dell’impresa privata con finalità economiche l’invenzione sociale più originale del capitalismo democratico e, al tempo stesso, un presidio della umana libertà. E, come tale, per chi ha una visione religiosa dell’esistenza individuale e collettiva, strumento della Grazia divina.
Roma 2 luglio 2018