lunedì 2 luglio 2018

Letture

Una teologia dell’impresa?
(di Felice Celato)
Ho sempre pensato che il patriarca Noè sia, anche, l’archetipo dell’imprenditore: un’ispirazione (magari suggerita da Dio) , un progetto e un rischioso investimento (l’arca), la costituzione di scorte (le provviste alimentari per la lunga attesa nell’arca), la speculazione nelle attese, del diluvio, prima, e, poi, dal monte Ararat, che le acque si fossero ritirate (speculare = osservare, scrutare da un luogo elevato, scrutare col pensiero, indagare; dal Vocabolario Treccani), la lunga navigazione in acque tempestose, il premio per il successo (Esci dall’arca tu e tua moglie, i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli…etc, Gn 8,16).
E, tuttavia, il titolo del breve libro di cui voglio parlarvi oggi (di Michael Novak: Verso una teologia dell’impresa, Il Foglio, 2018) mi lasciava perplesso: non sono amante degli accostamenti fra la più alta delle attività umane (la teologia, la riflessione su Dio; per noi cristiani: sulla Sua Rivelazione) e le attività strumentali dell’uomo, utili o necessarie – nel caso di specie – per assicurarne la sopravvivenza e fondarne la libertà dai bisogni materiali; e ciò, quand’anche non mi sfuggano i potenziali profili etici di molti dei comportamenti dell’imprenditore e dei suoi collaboratori nell’espletamento dell’attività imprenditoriale; profili, peraltro, sempre riferibili all’agente umano nel suo concreto operare e non allo strumento (sia esso l’impresa, la finanza, il mercato, etc.).
Se volete, questa appena descritta è una perplessità eccessiva, forse un po' snobistica, come lo fu quella con cui qui annunciai che non avrei letto un certo libro di analoga materia che pure segnalavo (cfr: Non letture, del 10 novembre 2017). E difatti il breve libro di Novak, filosofo cattolico americano, scomparso l’anno scorso, mi ha comunque molto interessato, sia per i contenuti (di cui dirò subito, in breve) sia per il taglio concreto ed intelligente (in senso etimologico). 
Dunque, Michael Novak muove da una breve analisi dei fraintendimenti che, a suo giudizio (da me largamente condiviso), spiegano perché alcuni teologi contemporanei considerano le imprese come potenze malvagie, e il capitalismo democratico nel suo insieme qualcosa incompatibile con il cristianesimo. Si tratta di fraintendimenti in larga misura basati sulla circostanza che in realtà non sempre coloro che[..] rilasciano [dichiarazioni in materia] sono preparati come credono sull’argomento; ma sembra possibile rintracciare almeno sei particolari tipi di ideologia che si ripetono spesso senza alcuna particolare spiegazione o giustificazione. Ne riporto qui solo gli enunciati, rinviando, per i brevi e chiari dettagli, alla lettura del libro (un’ottantina di pagine; direi, meglio,  che si tratta di un lungo saggio pubblicato in veste di piccolo libro): (1) l’uso ideologico della povertà; (2) una visione del mondo basata sulle società tradizionali; (3) una certa naiveté circa la redistribuzione della ricchezza; (4) un pregiudizio anticapitalista tipico di molti intellettuali; (5) una certa propensione alla fabbricazione di colpe; (6) una tentazione costantiniana, intesa per tale una forte nostalgia per una società magari pianificata ma fortemente influenzata da convinzioni religiose. Il tutto, spesso e spiacevolmente condito con rilevanti deformazioni delle percezioni di quadro fattuale (e talora anche delle sottostanti dinamiche economiche o delle tecniche operate).
L’autore del libro è chiaramente un liberale e per questo facilmente lo seguo nelle considerazioni, fra le altre, relative ai rischi di derive statalistiche, magari dettate solo dall’intento di imporre ad un ‘impresa finalità diverse da quelle sue proprie (produrre ricchezza; s’intende: nella legalità). Per le ragioni dette all’inizio però mi viene meno naturale seguirlo nel suo tentativo di fondare – comunque al riparo dai fraintendimenti di cui s’è detto e nell’ambito di una visone liberale e capitalista – una teologia dell’impresa, basata su quelli che Novak chiama i segni della Grazia, persino metaforicamente impressi nell’attività dell’impresa  (creatività, libertà, nascita e morte, connotazioni sociali, libertà e responsabilità delle scelte, etc).
In conclusione, mi verrebbe da dire che – a mio parere – il saggio di Novak non è (né vuole essere) un libro di verità ma un libro di riflessione e di ricerca, utile, se non per pervenire ad una teologia dell’impresa, almeno per ricapitolare gli argomenti che fanno dell’impresa privata con finalità economiche l’invenzione sociale più originale del capitalismo democratico e, al tempo stesso, un presidio della umana libertà. E, come tale, per chi ha una visione religiosa dell’esistenza individuale e collettiva, strumento della Grazia divina.
Roma 2 luglio 2018







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