venerdì 28 settembre 2018

Cronaca (quasi) sportiva

Ryder cup
(di Felice Celato)
Non l’abbiamo mai fatto, su questo blog: ma, per una volta, facciamo un’eccezione, occupiamoci di sport.
E’ appena cominciata, a Parigi, la Ryder Cup. [Per i non addetti “ai lavori”: la Ryder Cup è una competizione di golf, che si svolge ogni 2 anni, alternativamente una volta negli USA e una volta in Europa. Stavolta a Parigi, nel 2022 a Roma, anzi a Guidonia, in un campo che – manco a dirlo – “tutto il mondo ci invidia”, anche, se per ora, i necessari lavori di adeguamento delle strutture – more solito– non sono ancora cominciati. Essa consiste nella sfida fra due squadre, composte dai migliori giocatori Statunitensi ed Europei, 12 per ogni squadra, che si affrontano in sfide individuali o a coppie, secondo le complicate formule di gioco del golf. L’Italia, quest’anno, è rappresentata dal suo miglior giocatore, Francesco Molinari. Per intenderci: si tratta, credo, del terzo evento mondiale per importanza dei diritti televisivi (dopo i campionati del mondo di calcio e la Formula 1); il che significa che la Ryder è seguita, in diretta, in America e in Europa (ma  anche in Cina, India, Giappone, etc.), da diverse centinaia di milioni di appassionati e non appassionati. Sul campo di gioco, lungo le 18 buche regolamentari, sono presenti, nei 3 giorni di gara, circa 300.000  persone.]
Bene: perché la Rider Cup mi interessa e mi appassiona? Non solo perché sono uno scarso giocatore di golf, che sogna di avere lo swing di Tiger Woods o di Sergio Garcia; ma anche perché è l’unica competizione sportiva di risonanza mondiale dove l’Europa è rappresentata, unitariamente, come squadra, sotto la bandiera stellata che riunisce questa folla di stati e staterelli Europei, nel frattempo avviati a non più riconoscersi in quella bandiera (o per lo meno a non più amarla e rispettarla come ha meritato e tuttora merita).
La seguo – la Ryder – dal divano di fronte alla TV, quest’anno munito di un piccolo carillon (che mi è stato regalato recentemente e che aziono ad ogni punto segnato dalla nostra squadra) dal quale risuonano le note dell’Inno alla Gioia di Beethoven, notoriamente (vero?) l’Inno dell’Unione Europea.
Confesso che la fruizione della diretta televisiva, quest’anno, ha anche il terapeutico effetto di occupare lo spazio temporale di solito destinato alla lettura dei giornali, con grande vantaggio per la mia serenità umorale, gravemente compromessa dalla cronaca del nostro presente.
Il pronostico sportivo è sempre difficile, particolarmente nel golf, sport complicato e spesso sorprendente; e – se proprio ci si volesse avventurare nel pronosticare il vincitore – dovrei dire che la squadra USA ha, forse, maggiori probabilità di vittoria; ma non importa! Ciò che mi “fa sognare” è l’idea di una squadra Europea riunita sotto un'unica bandiera, l’unica, credo, che nella sua storia non ha guerre civili, anzi ha solo memorie di pace interna ed esterna; la bandiera che riunisce popoli diversi, che parlano lingue diverse, che possono rivendicare anche antichi lignaggi culturali ma che si sono riconosciuti in un’idea di comunità unificata non solo dalla vicinanza geografica e dalla comune sazietà di discordie ma anche dalla comune volontà di abbattere ogni frontiera interna; di omogeneizzare le differenze che per secoli li hanno trascinati in guerre fratricide; di fondare un territorio comune ove persone, idee, merci, servizi, capitali, possano circolare liberamente e di regolare i loro scambi attraverso una moneta comune; di farsi governare da organismi comuni che armonizzino progressivamente anche le (declinanti) discipline nazionali. Un posto, l’Europa, dove ogni persona di buon senso desidererebbe di vivere e di convivere, anche migliorando continuamente, con temperanza ed intelligenza, i modi attraverso i quali la convivenza si può fare più fruttuosa.
W la squadra Europea di Ryder Cup, dunque, a dispetto di chi, dall’una e dall’altra sponda dell’Atlantico, lavora quotidianamente perché essa non abbia più ragione di riconoscersi in un'unica bandiera e in un unico inno.
Roma 28 settembre 2018


martedì 25 settembre 2018

Upupe e ragionieri

Mr.Q
(di Felice Celato)
Ci sarebbe poco da scherzare, ma, per una volta, lo faccio lo stesso, come esercizio di forzato buonumore (perché non si dica che sono sempre cupo).
Dunque, partiamo dai sommi poeti. Ugo Foscolo, poeta triste ed inquieto, ha contribuito non poco a creare, dell’upupa, un’immagine lugubre: e uscir del teschio, ove fuggia la luna,/ l’upupa, e svolazzar su per le croci / sparse per la funerea campagna / e l’immonda accusar col luttuoso / singulto i rai di che son pie le stelle / delle obbliate sepolture…etc (Dei sepolcri, v. 81 e sg).
Ci volle la penna leggera eppure scabra di Eugenio Montale (in Ossi di seppia) per risarcire solennemente  l’upupa (gaio uccello dalle bellissime piume, certamente lontano dallo stereotipo funereo di Foscolo) dell’ingiusta fama costruitale attorno dal poeta dei Sepolcri (e da qualche suo illustre emulo): Upupa, ilare uccello calunniato/ dai poeti, che roti la tua cresta / sopra l’aereo stollo del pollaio / e come un finto gallo giri al vento; nunzio primaverile, upupa, come/ per te il tempo s’arresta…etc
Bene. Questa storica calunnia nata e dissipata dalla penna dei poeti, mi è tornata in mente in questi giorni leggendo delle furiose polemiche attorno ai “ragionieri”, intesi per tali quegli alti burocrati che, come fossero il piombo sulle ali leggere di una politica d’alte vedute, si affannano a tirare le somme di tanti fascinosi programmi di diffuso benessere finanziato dai soldi degli altri.
Non entro nel merito delle questioni che occupano tante pagine dei sepolcrali quotidiani di questi giorni (ove, per fare ancora il verso a Foscolo, l’uomo e le sue tombe / e le estreme sembianze e le reliquie / della terra e del ciel traveste il tempo). Piuttosto, avendo in tanti anni di lavoro incontrato tanti ragionieri, mi preme – come fece Montale con l’upupa – di “sciogliere un inno” alla loro negletta funzione, spesso tanto scomoda a chi ha in odio l’aritmetica.
Certo, di loro non si può dire che siano gli aligeri folletti di cui parla Montale (sempre a proposito delle upupe). Nel loro stereotipo c’è una certa grigezza di vedute e, spesso, di carattere; taluno dice grettezza di pignoli, o aridità pervicace (un mio amico molto colto, che particolarmente li soffriva, li definì una volta aritsmofagi, alludendo grecamente a chi si nutre solo di numeri). Per esempio, chi gioca a golf spesso accusa l’avversario prudente e misurato nei tiri (per evitare i rischi connessi al troppo osare o al troppo chiedere a sé stessi) di "giocare da ragioniere". Ma, appunto, di uno stereotipo spesso si tratta, dimentico, fra l’altro, della somma cultura umana e professionale di alcuni grandi maestri italiani della materia (ora chiamata, più modernamente, Economia d’azienda), da Gino Zappa, a Pietro Onida, fino a Pellegrino Capaldo. Se penso – come dicevo – ai ragionieri della mia vita professionale, non posso non andare con la memoria in particolare ad uno di essi (chiamiamolo Mr.Q, alla James Bond), forse grigio nell’aspetto (ma non nell’animo e nella mente), misuratissimo nel linguaggio e anche nei toni, ma sempre straordinariamente lucido nelle analisi e conscio dei limiti insiti nella sua materia: “fin qui posso arrivare - sembrava dire ogni volta Mr.Q – facendo,  bene,  le somme e le addizioni, allocando dove è giusto i rischi e le opportunità, senza nulla tacere di ciò che i numeri ( e la mia esperienza) mi dicono ed io sono tenuto a dirti; se tu puoi fare di più o diversamente, dimmelo ed io ti dirò semplicemente quanto fa”. Io credo che Mr.Q, vedendo e dicendo sempre quanto fa,abbia fatto assai più bene alla sua azienda di quanto potessero fare i mille fantasisti che la popolavano.
Certo che, se per “riabilitare” l’upupa c’è voluto un premio Nobel (Montale), per “riabilitare” i ragionieri ci vuole altro che il buon Mr.Q, del resto ormai da tempo in pensione (che Dio lo benedica!). Ma, in fondo, credo, nemmeno ne sentano il bisogno: il loro stile non comporta piume colorate, non amano essere “nunzi primaverili” e, “ilari”, poi, di solito non hanno proprio voglia di esserlo (specie quando c’è poco da ridere); e, soprattutto, non amano portare creste da muovere al vento né fingersi galli. Per fortuna nemmeno i loro denigratori (che, invece, spesso si sentono galli) hanno il peso di Ugo Foscolo!
Roma 25 settembre 2018

domenica 23 settembre 2018

Equinozio d'autunno

Scotofobie
(di Felice Celato)
Da oggi, anzi da stamane alle 3,54, la luce (il pennello di Dio, l’abbiamo chiamata in un post dell’11 giugno 2016) comincia a cedere al buio la sua quotidiana dominanza: il sole – dicono gli astronomi – è allo zenit dell’equatore, e da lì, comincia per un po' ad inclinare i suoi raggi, fino a riprendere la sua ascesa col solstizio di inverno, poco prima del Natale, quando l’eterno rincorrersi del tempo ritrascina la luce verso il dominio della giornata.
Come ogni anno – ma tanto più quest’anno – il passaggio della stagione (dell’anno o della vita?) mi rende un po' triste, forse per quella innata meteoropatia che, per me, si manifesta in un acuto desiderio della luce diurna, anzi, direi, in un’autentica paura del buio; per amore del giuoco con parole nuove (ed antiche), mi direi infatti affetto da scotofobia.
Certo, anche l’autunno, con le sue ombre, ha un suo innegabile, romantico fascino estetico; ma inevitabilmente finisce per richiamarmi alla mente la sua metafora esistenziale e culturale: noi uomini vediamo meglio quando il sole illumina noi e la realtà che ci circonda, quando le cose ci appaiono chiare, con l’evidenza dei loro contorni, con la chiarezza della loro natura, con le loro misure quando sono cose misurabili coi nostri pur poveri mezzi. L’ ombra – sia essa della realtà o dell’intelletto – ci pare sempre foriera di sfuggenti angoli del reale, come fosse portatrice di non misurabili minacce, di angosce per ciò che non riusciamo più a vedere nitidamente, vicino o lontano che sia, e che, perciò, abbiamo ragione di temere (El sueño de la razón produce monstruos, diceva per immagini Francisco Goya).
Non capita anche a voi, miei lettori ed amici, di temere l’ombra che avvolge la realtà e, spesso, le menti? Non vi succede – specie in questi rumorosi tempi confusi – di sentire un desiderio intenso di verità (cioè di luce) mentre scorrete le notizie del buio che avanza in ogni giornata e nei nostri pensieri?
A me succede, spesso; tanto più in questi anni in cui i sensi del giudizio sul reale sembrano aver virato verso il consenso come metro che misura il giusto, verso l’apparenza come realtà operabile, o addirittura verso il percepito come misura del vero; in altre parole verso il buio come ingannevole alternativa alla luce.
I malati di psicologia possono pure astenersi dal sottopormi ad indagine: la mia scotofobia non ha radici psichiatriche, credo; ma solo intellettuali e forse culturali. Anche se – lo ammetto – non amo chiudere gli occhi nel buio assoluto (c’è sempre una lucetta tenuissima nella mia camera), il buio che mi terrorizza è quello della ragione, che è anche, per conseguenza, cecità dell’azione.
A conclusione di questa mesta “celebrazione” dell’equinozio d’autunno – che via via, per strani percorsi del divagare, si è fatta un “inno” alla ragione (cioè alla luce) – mi piace ricordare una frase che credo di aver citato altre volte, estratta dal famoso discorso di Ratisbona del papa Benedetto XVI, grande ed insospettabile sostenitore delle “ragioni della ragione”: Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio.
Roma,  23 settembre 2018






martedì 18 settembre 2018

L'opzione Benedetto


L’importanza del “nel”
(di Felice Celato)
Eccomi qua, a lettura ultimata, a darvi sommario conto del libro fugacemente segnalato qualche giorno fa: di Rod Dreher, L’opzione Benedetto (edizioni sanPaolo, 2018).
L’interesse mediatico suscitato da questo corposo volume (350 pagine) mi ha spinto ad una lettura accelerata, tanto mi sembravano in linea con mie riflessioni (e miei disagi) le idee esposte dall’autore nell’affollata presentazione che, del libro, ha organizzato Il Foglio, qualche giorno fa, a Roma.
Dico subito che il libro è interessante ed incisivo: esso propone una strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano, una strategia modellata, mutatis mutandis ratione temporis, sull’opzione monastica promossa e perseguita da San Benedetto da Norcia… solo 1.500 anni fa. Parlando del santo Umbro e del movimento cui ha dato vita nella prima parte del VI secolo, Benedetto XVI  (Incontro con il mondo della cultura, al College des Bernardins, il 12 settembre di 10 anni fa) disse che l’obbiettivo dei monaci Benedettini non era (non ostante il grande ruolo che essi ebbero di fatto nella storia della cultura occidentale moderna) quello di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era: quaerere Deum, cercare Dio. E il libro di Dreher sviluppa anzitutto un’analisi accurata (e interessante) della regola di vita che impregnava l’azione monastica di san Benedetto e oggi impregna quella dei suoi successori; e della sua funzione di ri-porre Dio e la Sua parola al centro della vita; appunto: quaerere Deum
Quello che – per dirla brutalmente – mi lascia perplesso è l’idea di una diffusa trasposizione  del modello della spiritualità benedettina al centro del contesto vitale in cui è immerso l’uomo del terzo millennio, sia pure attraverso tutte le modificazioni (delle quali Dreher si mostra abbastanza consapevole) che la natura dei tempi suggerisce negli ambiti esistenziali in cui viviamo: la politica dell’Opzione Benedetto – scrive Dreher – comincia col riconoscimento che la società occidentale si può definire post-cristiana e che, salvo un miracolo, non vi è speranza di rovesciare tale condizione nel futuro pronosticabile… La risposta è, allora, creare e sostenere “strutture parallele” in cui la verità possa vivere comunitariamente.
Credo che ciò basti per far capire in nuce il senso del libro che, comunque, merita di essere letto anche per l’articolazione, di tale "filosofia", che viene sviluppando in molte pagine, talora con paradossate sensibilità, direi di sapore Chassidico.
In verità, come accennavo, la suggestione principale che il testo ha esercitato su di me non sta tanto nella “cura” quanto nella “diagnosi” della posizione del cristianesimo (io direi del cattolicesimo) nel mondo moderno; una diagnosi, però, non nuova: anche senza riesumare la famosa “profezia” che l’allora giovane sacerdote Ratzinger pronunciò (1969) dai microfoni della Hessian Rudfunk, per rendersi conto della crisi dei tempi terreni che aleggiano sulla Chiesa basterà rileggere la sua (più recente) meditazione sul Sabato Santo che conteneva l’accorata preghiera: La chiesa, la fede, non assomigliano ad una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente?...Quando la tempesta sarà passata ci accorgeremo di quanta stoltezza fosse carica la nostra poca fede. E tuttavia o Signore non possiamo fare a meno di scuotere Te, Dio che stai in silenzio e dormi, e gridarti: Svégliati, non vedi che affondiamo? Dèstati, non lasciare durare in eterno l’oscurità del Sabato Santo, lascia cadere un raggio di Pasqua, anche sui nostri giorni, accompàgnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus, perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza.
Certo: portae inferi non praevalebunt, ha promesso alla Chiesa il suo Fondatore Fedele; che, pure, a noi suoi seguaci, ha lasciato la Sua “regola”: nel mondo ma non del mondo. Io credo che questa sia, tuttora, la “formula” del Cristiano nei tempi e nel mondo che viviamo. Il difficile equilibrio che essa prescrive, si persegue ogni giorno, sì,sì, no,no, senza concessioni allo Zeitgeist, senza preoccuparci se la Parola che ci è stata affidata possa piacere o dispiacere al mondo (o a questo o a quell’ altro opinion leader). Pur essendo stato a lungo turbato dalla Enciclica Humanae vitae, non posso dimenticare il tormento del papa (Paolo VI, che la emanò nel 1968) nel dover dire ciò che al mondo di certo non sarebbe piaciuto: non abbiamo mai sentito come in questa congiuntura il peso del nostro ufficio, commentò Paolo VI la sua fatica (G. Labella: L’umanesimo di Paolo VI, Rubettino 2015, pg 215)
Allora, forse, ci tornerà utile ripensare al nostro ruolo di cristiani nel mondo, rileggendo alcune righe  della Lettera a Diogneto (II sec.): I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale...Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera... Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi… Dio li ha messi in un posto che ad essi non è lecito abbandonare. Appunto: nel mondo ma non del mondo.
Roma 18 settembre 2018

P.S. Chiedo scusa delle 140 parole in più del solito, ma l’argomento mi appassiona.

sabato 15 settembre 2018

Pensieri scuri

I segni tristi e la speranza
(di Felice Celato)
Fra i pochi oggetti di religiosa devozione che conservo, ce n’è uno cui sono particolarmente affezionato. Si tratta di una piccola statuetta di legno (credo d’ulivo) che raffigura il Cristo che porta la Croce sulle spalle, evidentemente nel cammino verso il Calvario. Me la regalò un amico, al suo ritorno da un viaggio in Terra Santa; voleva essere, in un periodo in cui mi sentivo soverchiato da gravosissime responsabilità professionali, una memoria delle piccole o grandi croci che siamo chiamati a portare nella vita, ad imitazione – per chi crede – della Croce del Suo supplizio gravata sulle spalle di Gesù. Anche per questo la tengo su una piccola libreria che sta di fronte al tavolo al quale mi applico quotidianamente, per guardarla più volte al giorno, ogni volta che mi siedo a leggere o a scrivere.
Il Cristo è raffigurato nel suo passo triste e la Croce (anch’essa di legno) è appoggiata sulle sue spalle, restando tuttavia mobile, sicché talora (magari in conseguenza di qualche domestica incombenza) scivola di lato, trattenuta dalle Sue mani ma non più appoggiata sulle Sue spalle. Quando lo noto, qualsiasi cosa stia facendo, mi alzo e la ripongo sulle spalle di Chi, unico, la porta come segno del Suo amore per l’uomo.
In questo tempo tanto buio per noi, raddrizzare la Croce sulle spalle di Cristo mi pare, oltreché un gesto devoto al quale non saprei rinunciare, un esercizio di speranza, la certezza di una spalla più forte delle nostre: senza il Suo aiuto il peso delle piccole (o grandi) croci che i tempi ci impongono mi sarebbe assai difficile da sopportare; la drammatica latens deitas della scena che la statuetta ritrae, il Gesù uomo soverchiato dal peso del suo destino prima della morte e della Pasqua di Resurrezione, mi conforta – oltreché per quanto di personale mi senta di affidare a Lui – per tutto il resto che, del mondo, mi affanna forse più del dovuto.
Dicevo, forse più del dovuto: in fondo, come mi ricorda ogni tanto qualche amico, il nostro mondo ne ha viste tante e in qualche modo ne è sempre uscito. Ma questa considerazione, che sembra storicamente inespugnabile, direi quasi saggia, è lungi dall’esserlo, almeno dal punto di vista umano: intanto la nostra vita è una frazione infinitesimale della storia e ci importa assai  più di quello che avviene in questo nostro spazio temporale che non di quanto è avvenuto nel passato e anche, molto spesso, di quanto potrà avvenire nel futuro; e poi, con siffatto modo di ragionare, per esempio, nel 1939 ci si sarebbe dovuti consolare dell’imminenza della guerra pensando che, vabbè, in fondo era successo anche 25 anni prima e il mondo, poi, è andato avanti lo stesso.
Il fatto è che dove volgo lo sguardo mi pare di scorgere i segni di uno sgretolamento che va al di là della mia volontà di scorgere un nuovo equilibrio, almeno all’interno di quei cerchi concentrici dove, da sempre, abbiamo piantato le nostre esistenze, le nostre convinzioni, i nostri valori: il paese fuori di sé  che, pure, vuole chiudersi in sé, abbaiando a tutti contro ogni suo interesse; l’Europa che fatica oltre ogni misura a conservare anche un briciolo del suo fascino, non ostanti gli anni di pace e di crescita che ha regalato ai suoi cittadini immemori; persino la Chiesa terrena mi pare talora rincorrere le sue greggi sui prati più accessibili piuttosto che guidarle sugli alpeggi più in alto.
Non voglio negare che, in questa mia vena triste (anche la mia penna si è appesantita, l’avranno notato i lettori più assidui), ci possa essere una componente esistenziale: è vero, gli anni cominciano a farsi sentire; ma, l’età, con la stanchezza fisica e la minore pazienza, spesso arreca – purtroppo – anche una visione più chiara della realtà. E infatti – malauguratamente – mi pare proprio di vedere chiaro dove possiamo finire. Certo, c’è l’Opzione Benedetto, di cui parla Rod Dreher nel libro che ha destato qualche attenzione mediatica in questi giorni e che sto leggendo (ne parleremo fra qualche giorno); ma confesso fin d’ora che – al di là del loro significato morale – le soluzioni fuori del tempo mi lasciano sempre dubbioso.
Per fortuna c’è la statuetta di fronte a me; e la Croce è ben salda sulle Sue spalle (Fac me Tibi semper magis credere, in Te spem habere, Te diligere, diceva san Tommaso). Lui la porta guardando avanti, sapendo, con certezza di Figlio, che il Padre perdona anche quelli che non sanno quello che fanno.
Roma, 15 settembre 2018

venerdì 7 settembre 2018

Un utile anniversario

8 settembre 1943
(di Felice Celato)
75 anni fa  – appunto l’8 settembre del ’43 – l’Italia abbandonava lo scellerato alleato tedesco, col quale - plaudente - si era schierata poco più di tre anni prima, otteneva un armistizio generale con gli “odiati” recenti nemici e avviava - forse incosciente delle conseguenze - uno dei periodi più confusi della storia Italiana, con tutte le caratteristiche socio-politiche e militari della guerra civile.
Non è il caso di rievocare qui quella triste pagina della nostra poco gloriosa storia né tornare a soppesare - come del resto hanno fatto molti storici assai più provveduti di noi - il senso e le implicazioni di quegli atti convulsi e confusi che alcuni hanno chiamato “la morte della patria” (Galli della Loggia, riprendendo Salvatore Satta).
Mi pare molto più utile fermarci un momento ad esplorare - se c’è - il senso permanente di quello che chiamerei il “fantasma dell’8 settembre”: i conti con la realtà (riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria...; questo premetteva il Generale Badoglio all’ambiguo proclama che lesse alla radio in quel fatidico giorno). 
Fare i conti con la realtà è sempre un’operazione dolorosa per gli individui e le comunità, quando la realtà è stata a lungo condita di sottovalutazioni delle difficoltà e di sopravvalutazioni delle risorse (lasciatemi dire: quando la realtà è stata a lungo condita di quello che il filosofo inglese Roger Scruton - cfr post del 21 marzo 2012 - chiama “l’ottimismo senza scrupoli”, ahinoi assai più accattivante del “pessimismo assennato”). Si potrebbe obbiettare  che fare i conti con la realtà è un esercizio necessario ma spesso futile: necessario perché il reale è comunque più forte del fittizio; futile perché il fittizio è di solito più piacevole del reale e, dunque, la bolla dell’”ottimismo senza scrupoli” tende inevitabilmente a riprodursi. Ma questa considerazione sarebbe venata di un pessimismo che va oltre l’assennatezza e che si pone in contrasto con la storia, nemmeno tanto remota, del nostro paese: a chi volesse convincersene basterebbe sfogliare il libro di Giuseppe De Rita Rasoterra e dappertutto (cfr post del 10 dicembre 2017) che raccoglie le sintesi dei Rapporti sulla situazione sociale del paese, per 50 anni elaborati dal Censis: l’Italia (la società Italiana) è stata, a lungo, assai migliore di come oggi ci appare.
Per procedere nel nostro discorso, permettetemi una auto-citazione: pochi, fra i miei pochi lettori, ricorderanno che ad inizio dell’anno (era il 25 gennaio) avevo scritto uno Stupi-diario ipocondriaco nel quale “giocavo” con una parola (allora) per me nuova, della quale mi ero prontamente innamorato: l’oicofobia, intesa come l’avversione impaurita – scrivevo – per quello che la nostra casa (qui l’Italia) sembra covare nel suo seno in questi nostri tempi (rancori, illusioni mal gestite, propensione alle fole, autopercezioni sbagliate, irragionevolezze, isolazionismi fuori del tempo, ingestibili complessi di Peter Pan, illusori sovranismi, xenofobie più o meno esotiche, emotività pendolare, futilità scambiate per valori, etc. etc.).
Bene: se mi metto a considerare un momento le paure che allora mi venne istintivo allineare, constato che esse, tutte, riportano a due “matrici” comuni: da un lato l’incattivimento degli animi e, dall’altro, la sconoscenza  (e quindi l’incuranza) della realtà; entrambe le “matrici” rimandano, nel tempo, inevitabilmente ad un redde rationem: nessuna convivenza si regge a lungo (e pacificamente) sulla reciproca, rancorosa ostilità e nessuna comunità si governa con l’ignoranza di sé. [Non è certo un caso che, a Gabaon, Salomone seppe (in sogno) del dono che Dio gli faceva come fondamento dello splendore del suo regno: Ti concedo un cuore (ad un tempo) saggio e intelligente, I Re, 3,11-12 ]
Forse “il fantasma dell’8 settembre” questo ancora può insegnarcelo: riconciliamoci (con noi stessi e) con la realtà prima che la realtà ci imponga di prendere atto dei suoi conti. Allora, tragicamente, gli Italiani lo fecero troppo tardi e la presa d’atto fu estremamente dolorosa. Noi, per nostra fortuna, viviamo in una condizione assai lontana da quegli scenari; ma certamente abbiamo perso per strada (e non è un fatto recente!) il reciproco rispetto (l’articolato senso della nostra compagine umana e civica) e la passione per la verità: abbiamo persino “inventato” un paradigma di percezioni delle quali ci siamo fatti prigionieri. 
E’ necessariamente, questa, una insuperabile condizione di torpore morale e mentale? Non credo; non è “ottimismo senza scrupoli” immaginare che si possano ancora riscoprire sentimenti, pensieri ed azioni che ci hanno a lungo resi forti e vitali; prima che sia la “realtà” a chiamare quel “tutti a casa”che, l’8 settembre del ’43, pose fine alla breve carriera militare del mio compianto genitore.
Roma 7 settembre 2018 




giovedì 6 settembre 2018

La "ripresa" del C.U.R.

Poche novità
(di Felice Celato)
Con la ripresa delle attività (più o meno) “produttive” sono ricominciate anche le mie camminate urbane, sempre inseguendo i 10.000 passi quotidiani, prescritti dall’OMS; e, inevitabilmente (per la mia curiosità) sono ripresi i brevi contatti mattutini con alcuni degli emarginati che incontro per strada, più o meno gli stessi di prima delle ferie. 
Poche le “novità”: il mendicante sardo che – viste le concorrenti attività netturbiniche offerte dai nigeriani lungo viale Trastevere, in cambio di qualche spiccio – si è messo anche lui a spazzare furiosamente il marciapiede della Chiesa davanti alla quale staziona da mesi (potenza della concorrenza!); il rumeno che – con l’assistenza della moglie - ”marcava” contemporaneamente due marciapiedi lungo via Arenula (un servizio “alla clientela” studiato per evitare “l’attrition commerciale”), è ritornato al servizio monolaterale a causa di problemi alla schiena della moglie (ma se vai sul marciapiede già della moglie, dall’altro lui ti chiama e ti saluta, per farti sentire in colpa dello scantonamento); uno dei nigeriani “netturbinici” annuncia la sua imminente partenza per Malta, per ragioni di lavoro (e, suppongo, di lingua, vista la sua difficoltà ad esprimersi in Italiano); l’assenza della ragazza nigeriana che da tanto tempo presidiava via Guido d’Arezzo è invece restata senza spiegazioni (fra l’altro la via nel suo complesso non è più presidiata da alcun mendicante, forse a vantaggio del nuovo “mercato” di via Salvini (Tommaso, si intende, attore drammatico, anche lui lombardo ma vissuto fra il 1829 e il 1915); pure scomparso è il vecchietto della pomata di Piazza Argentina (cfr post La pomata del C.U.R. del 14 marzo), sostituito da un mendicante di colore, veramente malmesso, che dorme fra cartoni proprio sopra il luogo dove fu pugnalato Giulio Cesare. Anche il pittore-poeta che dipinge suggestive figure e scrive, con gessetti colorati, poetiche considerazioni sul marciapiede antistante il Teatro, ancora non ha ripreso le sue attività. Invece il Gesù è ora piantonato dai Rumeni anche nei giorni feriali.
Unica vera, sorprendente novità è il “ritorno” dell’anziana russa che presidiava via del Tritone (abbandonata dal marito italiano e senza pensione alcuna); mi fermo a parlottare con lei, per chiedere come mai sia di nuovo per strada dopo tanto tempo che era scomparsa e – da buona russa ex-comunista – la butta in politica: gli Italiani spendono i soldi per gli immigrati  che affollano le strade col loro mendicare, mentre si dimenticano dei cittadini. Però, ora, pare alla sovietica che la politica stia cambiando e così lei non è proprio disperata come prima, perché lei si sente Italiana (iure matrimonii, si intende). Il bisogno estremo è anche egoista, talvolta, senza colpa alcuna di chi non può permettersi il lusso dell’altruismo.
Che Dio li aiuti tutti, povere pietre miliari dei nostri percorsi mattutini, memorie continue dell’affanno del vivere per tanti derelitti e della nostra indifferenza; le loro storie, raccontate confusamente, danno la quotidiana misura dei privilegi delle nostre esistenze: talora, quando hai finito gli spicci, li conforta un po' anche il nostro solo ascoltarle, come cercano di dirti anche sorridendoti. Che Dio li aiuti, dicevo; e che noi si voglia essere il Suo strumento.
Roma 5 agosto 2018, festa di Santa Teresa di Calcutta

domenica 2 settembre 2018

Retrotopia

Una difficile lettura
(di Felice Celato)
Una cosa è certa (almeno per me): i libri di Zygmunt Bauman sono di difficile lettura. Di solito vi pullulano riferimenti ad opinioni delle quali talora fatico a collocare, anche solo culturalmente, l’autore; il linguaggio è denso di bagliori, anche lessicali; la cultura che vi confluisce è smisurata e spesso… incontrollata (nel senso che sottovaluta la difficoltà di digestione del lettore); gli stessi concetti sono di latitudine vasta spesso espressa con immagini.
Ma, detto questo, direi anche che la lettura di Retrotopìa (Laterza, 2018), l’ultimo libro di Bauman, scomparso qualche mese fa, vale la fatica che richiede. Il senso del libro poi, non ostante quanto appena detto, si lascia cogliere con chiarezza: stiamo guardando indietro, verso un luogo che non esiste (una retrotopia, appunto), distogliendo lo sguardo dal futuro (immaginato, previsto e temuto prima ancora che accada) verso il paradiso del passato (un passato probabilmente solo raffigurato a posteriori, dopo averlo perduto e visto andare in rovina)… Fedele allo spirito dell’utopia, la retrotopia è spronata dalla speranza di riconciliare finalmente la sicurezza con la libertà: impresa mai tentata – e in ogni caso mai realizzata…. Il cammino a ritroso, verso il passato, si trasforma...in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente.
Questa vera e propria epidemia della nostalgia si articola in alcuni sviluppi che Bauman descrive col suo linguaggio iper-colto: nel tramonto di un Leviatano – il gigantesco mostro immaginario che doma, nella filosofia di Hobbes, l’innata crudeltà degli esseri umani, dando così all’uomo la possibilità di vivere in compagnia di altri uomini una vita che altrimenti sarebbe “misera, ostile, animalesca e breve” – nel tramonto di un Leviatano, dicevo, che sia in grado di operare nella scala sovranazionale in cui, oggi, si disperde il potere deterritorializzato, scivoliamo gradatamente indietro verso il mondo di Hobbes (bellum omnium contra omnes), attratti da un ancestrale ritorno alle tribù, innescato da un nuovo flusso migratorio [che] ha invertito direzione: da centrifugo si è fatto centripeto rispetto all’Europa. Anzi, di più: rinasce, in forme nuove (anche generate dalla solitudine dell’iperconnessione) un anelito a “tornare nel grembo materno”, versione individualizzata – per solitari – della nostalgia del Paradiso irrimediabilmente e irreparabilmente perduto che ossessiona i discendenti di Adamo e di Eva.
Questa dinamica retrotopica si esaspera per il disagio di chi soffre…per lo scarto tra quantità o intensità delle sofferenze che è costretto a sopportare e la distribuzione implicitamente ritenuta “normale” (dunque legittima) delle sofferenze tra i diversi settori della società. [Nel capitolo dedicato alla diseguaglianza, Bauman svolge considerazioni sul cosiddetto UBI (Universal Basic Income) che mi sono parse molto interessanti ma che qui non mi pare il caso di aggiungere alla faticosa sintesi che sto tentando; ma sulle quali forse torneremo presto].
Bene: in questo quadro in cui può accadere di tutto – ma non si può mettere mano a nulla – o quasi – con la fiducia e la certezza di portare a termine l’impresa; in questa incongruità….tra la nostra indubbia condizione cosmopolita (d’interdipendenza, interazione e interscambio su scala universale, planetaria) in cui siamo ormai stati scaraventati e l’assenza di una consapevolezza (per non parlare di una coscienza) cosmopolitica che al momento non ha ancora superato la fase delle doglie; in questa età di crisi permanente degli strumenti per risolvere i problemi, l’appello di Bauman prende un largo respiro umanistico [nel testo c’è anche un’ampia citazione di papa Francesco sul dialogo come strumento della coabitazione e della solidarietà, dal discorso tenuto in occasione del conferimento al papa del Premio Carlo Magno, 2016]: per arginare le correnti del “ritorno a” [per sottrarci ad una sterile retrotopia]… non ci sono scorciatoie che portino a risultati diretti, rapidi e facili….Noi – abitanti umani della Terra – siamo come non mai prima d’ora, in una situazione di aut aut: possiamo scegliere se prenderci per mano o finire in una fossa comune.
Fine del libro, assai difficile da sintetizzare, come avrete notato. Ripeto: nella asperità della lettura, un testo memorabile, per certi aspetti direi profetico.
Roma 2 settembre 2018.