L’importanza del “nel”
(di Felice Celato)
Eccomi qua, a lettura ultimata, a darvi sommario conto del libro fugacemente segnalato qualche giorno fa: di Rod Dreher, L’opzione Benedetto (edizioni sanPaolo, 2018).
L’interesse mediatico suscitato da questo corposo volume (350 pagine) mi ha spinto ad una lettura accelerata, tanto mi sembravano in linea con mie riflessioni (e miei disagi) le idee esposte dall’autore nell’affollata presentazione che, del libro, ha organizzato Il Foglio, qualche giorno fa, a Roma.
Dico subito che il libro è interessante ed incisivo: esso propone una strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano, una strategia modellata, mutatis mutandis ratione temporis, sull’opzione monastica promossa e perseguita da San Benedetto da Norcia… solo 1.500 anni fa. Parlando del santo Umbro e del movimento cui ha dato vita nella prima parte del VI secolo, Benedetto XVI (Incontro con il mondo della cultura, al College des Bernardins, il 12 settembre di 10 anni fa) disse che l’obbiettivo dei monaci Benedettini non era (non ostante il grande ruolo che essi ebbero di fatto nella storia della cultura occidentale moderna) quello di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era: quaerere Deum, cercare Dio. E il libro di Dreher sviluppa anzitutto un’analisi accurata (e interessante) della regola di vita che impregnava l’azione monastica di san Benedetto e oggi impregna quella dei suoi successori; e della sua funzione di ri-porre Dio e la Sua parola al centro della vita; appunto: quaerere Deum.
Quello che – per dirla brutalmente – mi lascia perplesso è l’idea di una diffusa trasposizione del modello della spiritualità benedettina al centro del contesto vitale in cui è immerso l’uomo del terzo millennio, sia pure attraverso tutte le modificazioni (delle quali Dreher si mostra abbastanza consapevole) che la natura dei tempi suggerisce negli ambiti esistenziali in cui viviamo: la politica dell’Opzione Benedetto – scrive Dreher – comincia col riconoscimento che la società occidentale si può definire post-cristiana e che, salvo un miracolo, non vi è speranza di rovesciare tale condizione nel futuro pronosticabile… La risposta è, allora, creare e sostenere “strutture parallele” in cui la verità possa vivere comunitariamente.
Credo che ciò basti per far capire in nuce il senso del libro che, comunque, merita di essere letto anche per l’articolazione, di tale "filosofia", che viene sviluppando in molte pagine, talora con paradossate sensibilità, direi di sapore Chassidico.
In verità, come accennavo, la suggestione principale che il testo ha esercitato su di me non sta tanto nella “cura” quanto nella “diagnosi” della posizione del cristianesimo (io direi del cattolicesimo) nel mondo moderno; una diagnosi, però, non nuova: anche senza riesumare la famosa “profezia” che l’allora giovane sacerdote Ratzinger pronunciò (1969) dai microfoni della Hessian Rudfunk, per rendersi conto della crisi dei tempi terreni che aleggiano sulla Chiesa basterà rileggere la sua (più recente) meditazione sul Sabato Santo che conteneva l’accorata preghiera: La chiesa, la fede, non assomigliano ad una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente?...Quando la tempesta sarà passata ci accorgeremo di quanta stoltezza fosse carica la nostra poca fede. E tuttavia o Signore non possiamo fare a meno di scuotere Te, Dio che stai in silenzio e dormi, e gridarti: Svégliati, non vedi che affondiamo? Dèstati, non lasciare durare in eterno l’oscurità del Sabato Santo, lascia cadere un raggio di Pasqua, anche sui nostri giorni, accompàgnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus, perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza.
Certo: portae inferi non praevalebunt, ha promesso alla Chiesa il suo Fondatore Fedele; che, pure, a noi suoi seguaci, ha lasciato la Sua “regola”: nel mondo ma non del mondo. Io credo che questa sia, tuttora, la “formula” del Cristiano nei tempi e nel mondo che viviamo. Il difficile equilibrio che essa prescrive, si persegue ogni giorno, sì,sì, no,no, senza concessioni allo Zeitgeist, senza preoccuparci se la Parola che ci è stata affidata possa piacere o dispiacere al mondo (o a questo o a quell’ altro opinion leader). Pur essendo stato a lungo turbato dalla Enciclica Humanae vitae, non posso dimenticare il tormento del papa (Paolo VI, che la emanò nel 1968) nel dover dire ciò che al mondo di certo non sarebbe piaciuto: non abbiamo mai sentito come in questa congiuntura il peso del nostro ufficio, commentò Paolo VI la sua fatica (G. Labella: L’umanesimo di Paolo VI, Rubettino 2015, pg 215)
Allora, forse, ci tornerà utile ripensare al nostro ruolo di cristiani nel mondo, rileggendo alcune righe della Lettera a Diogneto (II sec.): I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale...Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera... Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi… Dio li ha messi in un posto che ad essi non è lecito abbandonare. Appunto: nel mondo ma non del mondo.
Roma 18 settembre 2018
P.S. Chiedo scusa delle 140 parole in più del solito, ma l’argomento mi appassiona.
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