venerdì 7 settembre 2018

Un utile anniversario

8 settembre 1943
(di Felice Celato)
75 anni fa  – appunto l’8 settembre del ’43 – l’Italia abbandonava lo scellerato alleato tedesco, col quale - plaudente - si era schierata poco più di tre anni prima, otteneva un armistizio generale con gli “odiati” recenti nemici e avviava - forse incosciente delle conseguenze - uno dei periodi più confusi della storia Italiana, con tutte le caratteristiche socio-politiche e militari della guerra civile.
Non è il caso di rievocare qui quella triste pagina della nostra poco gloriosa storia né tornare a soppesare - come del resto hanno fatto molti storici assai più provveduti di noi - il senso e le implicazioni di quegli atti convulsi e confusi che alcuni hanno chiamato “la morte della patria” (Galli della Loggia, riprendendo Salvatore Satta).
Mi pare molto più utile fermarci un momento ad esplorare - se c’è - il senso permanente di quello che chiamerei il “fantasma dell’8 settembre”: i conti con la realtà (riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria...; questo premetteva il Generale Badoglio all’ambiguo proclama che lesse alla radio in quel fatidico giorno). 
Fare i conti con la realtà è sempre un’operazione dolorosa per gli individui e le comunità, quando la realtà è stata a lungo condita di sottovalutazioni delle difficoltà e di sopravvalutazioni delle risorse (lasciatemi dire: quando la realtà è stata a lungo condita di quello che il filosofo inglese Roger Scruton - cfr post del 21 marzo 2012 - chiama “l’ottimismo senza scrupoli”, ahinoi assai più accattivante del “pessimismo assennato”). Si potrebbe obbiettare  che fare i conti con la realtà è un esercizio necessario ma spesso futile: necessario perché il reale è comunque più forte del fittizio; futile perché il fittizio è di solito più piacevole del reale e, dunque, la bolla dell’”ottimismo senza scrupoli” tende inevitabilmente a riprodursi. Ma questa considerazione sarebbe venata di un pessimismo che va oltre l’assennatezza e che si pone in contrasto con la storia, nemmeno tanto remota, del nostro paese: a chi volesse convincersene basterebbe sfogliare il libro di Giuseppe De Rita Rasoterra e dappertutto (cfr post del 10 dicembre 2017) che raccoglie le sintesi dei Rapporti sulla situazione sociale del paese, per 50 anni elaborati dal Censis: l’Italia (la società Italiana) è stata, a lungo, assai migliore di come oggi ci appare.
Per procedere nel nostro discorso, permettetemi una auto-citazione: pochi, fra i miei pochi lettori, ricorderanno che ad inizio dell’anno (era il 25 gennaio) avevo scritto uno Stupi-diario ipocondriaco nel quale “giocavo” con una parola (allora) per me nuova, della quale mi ero prontamente innamorato: l’oicofobia, intesa come l’avversione impaurita – scrivevo – per quello che la nostra casa (qui l’Italia) sembra covare nel suo seno in questi nostri tempi (rancori, illusioni mal gestite, propensione alle fole, autopercezioni sbagliate, irragionevolezze, isolazionismi fuori del tempo, ingestibili complessi di Peter Pan, illusori sovranismi, xenofobie più o meno esotiche, emotività pendolare, futilità scambiate per valori, etc. etc.).
Bene: se mi metto a considerare un momento le paure che allora mi venne istintivo allineare, constato che esse, tutte, riportano a due “matrici” comuni: da un lato l’incattivimento degli animi e, dall’altro, la sconoscenza  (e quindi l’incuranza) della realtà; entrambe le “matrici” rimandano, nel tempo, inevitabilmente ad un redde rationem: nessuna convivenza si regge a lungo (e pacificamente) sulla reciproca, rancorosa ostilità e nessuna comunità si governa con l’ignoranza di sé. [Non è certo un caso che, a Gabaon, Salomone seppe (in sogno) del dono che Dio gli faceva come fondamento dello splendore del suo regno: Ti concedo un cuore (ad un tempo) saggio e intelligente, I Re, 3,11-12 ]
Forse “il fantasma dell’8 settembre” questo ancora può insegnarcelo: riconciliamoci (con noi stessi e) con la realtà prima che la realtà ci imponga di prendere atto dei suoi conti. Allora, tragicamente, gli Italiani lo fecero troppo tardi e la presa d’atto fu estremamente dolorosa. Noi, per nostra fortuna, viviamo in una condizione assai lontana da quegli scenari; ma certamente abbiamo perso per strada (e non è un fatto recente!) il reciproco rispetto (l’articolato senso della nostra compagine umana e civica) e la passione per la verità: abbiamo persino “inventato” un paradigma di percezioni delle quali ci siamo fatti prigionieri. 
E’ necessariamente, questa, una insuperabile condizione di torpore morale e mentale? Non credo; non è “ottimismo senza scrupoli” immaginare che si possano ancora riscoprire sentimenti, pensieri ed azioni che ci hanno a lungo resi forti e vitali; prima che sia la “realtà” a chiamare quel “tutti a casa”che, l’8 settembre del ’43, pose fine alla breve carriera militare del mio compianto genitore.
Roma 7 settembre 2018 




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