mercoledì 30 dicembre 2015

5 parole "contro" il 2016

Timori vecchi per l'anno nuovo
(di Felice Celato)
"Invecchiamo, eh!"
Così (anzi, anche un po’ più crudamente) mi beffeggiava, ieri, un amico lettore delle mie 5 parole per il 2016. "Dove abbiamo messo le salaci sferzate alla mentalità dei tempi e le legnate alle opinioni correnti? Le hai portate in parrocchia e in cambio ti sei portato a casa perdono, verità e carità con spruzzate di fatica e di vigilanza tanto per darti un tono gagliardo?"
Confesso che le rimostranze dell'amico, non mi hanno scalfito più di tanto (un certo invecchiamento, solo anagrafico, beninteso, non l’ho mai negato); un conto, infatti, sono gli auguri (anche vecchi), per natura speranzosi e positivi; un conto, tutt'affatto diverso, sono i timori, le cose che si potrebbero paventare se proprio si fosse pessimisti. Un conto ancora diverso sono le concrete aspettative, che probabilmente stanno in mezzo, fra le speranze e i timori.
Andiamo con ordine e partiamo dallo scenario più pessimista: anche qui 5 parole contro il 2016 si possono mettere facilmente insieme, come una specie di esorcismo. La prima parola è fatuità: è l'aspetto negativo della leggerezza (che potrebbe anche essere una virtù, almeno in letteratura, come insegnava Calvino), è, forse, l’epitome di quelli che sono diventati, da qualche tempo a questa parte, i “vizi” tipicamente italiani, come la frivolezza, l’insignificanza, l’inconcludenza sul piano pratico. Essa si nutre spesso di irragionevolezza – la seconda parola contro il 2016 – che vuol dire, di solito, risoluto rifiuto di applicazione della faticosa ragione, opposizione alle più elementari esigenze di misura (per esempio, dei tanto odiati numeri) in nome di preconcette rappresentazioni della realtà, spesso amate più della realtà stessa. Se mettete insieme fatuità e irragionevolezza, arrivate facilmente alle altre due parole – fra di loro connesse secondo un grado di diversa gravità – che ne costituiscono, per così dire, lo sviluppo naturale: così da un popolare pressappochismo, negatore di ogni medio rigore del ragionamento, si può arrivare fino alla cialtroneria, la tanto diffusa trasandatezza totale delle opinioni e delle parole che le esprimono; una trasandatezza che può arrivare fino alla negazione di ogni significato della competenza, spesso coscientemente sostituita da un malinteso senso di concretezza (che, secondo i cialtroni, sfuggirebbe ai competenti) e da una emozionata (e spesso emozionante) rappresentazione della realtà. Quando poi questo sragionare diffuso si traduce in giudizi che vorrebbero essere “etici” si arriva alla quinta parola: il condannismo, ovvero la preconcetta formulazione di giudizi negativi sull’altrui comportamento, quand’anche solo conosciuto per sentito dire o addirittura solo presunto sulla base di preclusivi “sentimenti” di natura “nasale”, cioè situati nell’organo deputato a semplicemente discernere gli odori dalle puzze.
Ecco, se queste cinque parole domineranno (o meglio: continueranno a dominare) i nostri atteggiamenti nell’anno che viene, beh, allora…sarà un anno acido, come lo sono stati alcuni dei più recenti.
Questa è la prospettiva pessimistica che, forse, il mio amico si aspettava di sentirmi enunciare per non bollarmi di…”invecchiamento”. Ma, checché se ne creda, non voglio essere un pessimista, almeno in queste giornate così limpide (meteorologicamente parlando). Beh, allora, in conclusione, quali sono, diranno i miei lettori, le tue aspettative “realistiche” per il 2016? Quali credi che prevarranno, nel 2016, fra le 5 parole per e le 5 parole contro?
Facciamo una cosa: lasciamo le aspettative realistiche per il 2016 a ciascuno di noi, giovane o “invecchiato” che sia nell’animo. L’unica funzione di questo post di fine d’anno è quella di lasciare tranquilli sul fatto che non ho dimenticato affatto i rischi che abbiamo difronte (non a caso, fra le 5 parole per il 2016, avevo menzionato proprio la necessaria vigilanza!); e che, d’altra parte, le speranze migliori non mi sono preconcettamente estranee.

Roma 30 dicembre 2015

domenica 27 dicembre 2015

5 parole per il 2016

Auguri vecchi per l’anno nuovo
(di Felice Celato)
Cari amici lettori, questo è il quinto passaggio d’anno che trascorriamo “insieme”, sia pure intermediati da questo blog che fa anche da complemento ai ben più cari (e per me preziosi) rapporti personali che ho con molti di voi, alcuni antichi, altri nati in tempi più recenti all’insegna dell’affetto e della stima. Cinque anni valgono forse la breve fatica di uno sguardo indietro: che cosa ci siamo detti, in fondo in fondo, in questi cinque anni in cui abbiamo parlato di tante cose?  Da parte mia, credo, nella sostanza, al netto di sempre possibili fesserie, solo parole desuete (o forse fuori contesto) che tante volte hanno trovato, nei vostri commenti in gran parte diretti, spesso parole di consenso, talora di dissenso, talaltra di affettuosa ironia. Ma io, testone come molti marchigiani, a molte di esse sono rimasto affezionato, anche se qualche volta ho dovuto prendere atto di vostre emendazioni; perciò oggi, sfogliando alcuni vecchi post di questi cinque anni, come mio testardo augurio per l’anno che viene, ve ne ripropongo alcune, quelle che mi paiono le migliori, e che (almeno queste!) non hanno suscitato espliciti dissensi.
La prima parola è perdono, non (solo) come atteggiamento morale ma come virtù civica: abbiamo tutti bisogno di reciproco perdono, come semplici individui, come individui raggruppati da convinzioni politiche che, con vece assidua, hanno commesso tanti errori, come collettività che ha sprecato tanto di se stessa, come generazione tanto poco sollecita di quelle che verranno. Senza il perdono reciproco avremo solo tristi rancori con cui alimentare il nostro dialogo sordo e i nostri sguardi ciechi.
La seconda parola è verità (ne abbiamo già parlato negli auguri di Natale, come strada della luce, ma la verità non si invoca mai abbastanza): quante volte l’abbiamo oscurata la verità, quante volte – in questo confuso Paese – ce la siamo nascosta perché scomoda, perché povera di consensi, perché faticosa, perché deserta o poco frequentata! Eppure solo da essa, solo dalla verità, può nascere un autentico recupero delle nostre virtù, personali e civiche. Sarà faticoso, lo so, ma non impossibile; e forse sarà anche doloroso per chi non ama fare i conti con se stesso, ma sarà sicuramente benefico, per tutti.
La terza parola, infine, è la più grande (e anche la più desueta), che, in modo mirabile, si collega con il perdono e con la verità (perché di questa si compiace, 1 Cor. 13,6):  carità, sì, carità, non (solo) come virtù teologale, ma come compagna dei nostri giudizi, delle nostre parole e delle nostre azioni, come regola delle nostre decisioni, come modo di misurare le nostre e le altrui insufficienze; sia che si creda nella Verità, sia che, laicamente, solo si ami la verità.
Potrebbero bastare queste tre vecchie parole per un augurio forte, se non fosse che esse, per diventare benignamente concrete, esigono qualcosa di più di un atteggiamento dell’animo e della mente; esigono infatti, un duro lavoro quotidiano su noi stessi e sul campo. E dunque ecco le ultime due parole che, spero, abbiano trasparentemente innervato, nel fondo, le nostre riflessioni.
Così, la quarta parola è vigilanza: troppe parole ci scorrono davanti senza che chi le pronunzia abbia sufficientemente vigilato sul loro senso e sulle loro conseguenze; troppe parole hanno perso il loro significato per diventare vuoti significanti del nulla. Chi voglia conservare un cervello funzionante deve vigilare attentamente sull’altrui e sul proprio linguaggio, portati come siamo ad assorbire senza accorgercene le parole del tempo.
La quinta parola – fatica – è la meno gradevole perché evocatrice del biblico sudore (con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, Gn.3,19); ma la associo alle altre nell’augurio per 2016 perché credo fermamente che senza fatica, senza la fatica delle cose difficili, non si costruisce né si ricostruisce nulla. E noi, di ricostruirci abbiamo bisogno. E non esistono soluzioni facili per problemi difficili.
Ecco, ora provate ad immaginare che il 2016 sia pieno di ciò che queste vecchie parole significano: perdono, verità, carità, e anche vigilanza e fatica. Ben difficilmente un nuovo anno potrebbe risultare migliore, per ciascuno di noi e per la nostra società, se tutte queste parole torneranno a circolare tutte insieme nei nostri pensieri e, soprattutto, ad ispirare le nostre azioni.
Dunque, buona vigilanza e fatica a tutti, nel perdono, nella verità e nella carità!

Roma, 27 dicembre 2015

mercoledì 23 dicembre 2015

Auguri di Natale


Luce e verità
(di Felice Celato)
Eccoci dunque, ringraziando Iddio, ad un nuovo Natale, alle speranze, alle promesse, alle attese, agli auguri, che ogni Natale porta con sé.
Per i Cristiani, il Natale è una festa di luce, annunziata nella luce: il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata (Is. 9,1); ci visiterà un sole che sorge dall’alto per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte (Lc.1, 78-79); la gloria del Signore li avvolse di luce (Lc. 2,8). Non a caso – credo di ricordare da letture di tanti anni fa – la tradizione cristiana ha fissato la nascita del Salvatore all’inizio di un nuovo ciclo della luce dal solstizio d’inverno verso l’espansione del ciclo annuale del sole; non diversamente da come gli ebrei celebrano la loro Festa delle Luci (Channukkah) nello stesso periodo o da come facevano gli antichi romani con la celebrazione del Sol invictus che con l’inverno riprendeva, appunto invitto dalle tenebre, il suo cammino verso il massimo del fulgore. Del resto, anche per i non credenti – che pure vivono nella storia di una civiltà che da quel Natale conta il tempo – il Natale è forse una svolta comunque luminosa, fra l’anno che si chiude e quello nuovo che si annuncia; anche a loro il Natale porta, forse, una vaga speranza di palingenesi, come fosse un frutto dell’attesa di primavera.
Bene, a questa luce (o Luce) del Natale va il mio pensiero augurale per noi tutti.
Ciascuno di noi vive immerso nelle esperienze della sua vita nel suo tempo esistenziale e cerca per sé, nel suo tempo, la sua luce come antitesi del buio in cui tanto spesso ci capita di sentire e vita e tempo. E dunque tutti, credo, possiamo augurarci che il Natale porti a tutti tanta luce: luce sulla nostra rotta  di ogni giorno, nel nostro viaggio sul mare della storia, spesso oscuro ed in burrasca (come scriveva Benedetto XVI); luce sul cammino incerto e confuso del nostro Paese che vaga alla ricerca del pozzo buono da cui attingere per ritrovare il se stesso che si è perduto; luce sul nostro mondo, che avrà pure conosciuto tanti periodi più bui dei presenti, ma che a noi, oggi, hic et nunc, ci pare comunque sufficientemente oscuro da farci intensamente invocare un po’ di luce.
La strada verso la luce è fare la verità, come dice il Vangelo secondo Giovanni (3,21); e dunque auguriamoci che l’anno di luce che invochiamo per noi tutti sia anche un anno di verità.
Ci manca tanto, mi pare, anche la verità, compagna della luce e nemica del rumore!
Dunque il Natale porti a noi tutti luce e verità!
Non è poco quello che chiediamo per tutti con quest’augurio; ma è senz’altro qualcosa che  è alla portata di un vero Natale, se solo ne fossimo tutti profondamente toccati!

Roma, 23 12 2015

venerdì 18 dicembre 2015

Stupi-diario degli animali

La rana ed il bue
(di Felice Celato)
Fin dai tempi dell’antica Grecia, gli uomini si sono divertiti a veder tratteggiati in alcuni animali i propri difetti, anzi sempre illudendosi che quelli incarnati dai vari lupi, leoni, buoi, rane, capre, pecore, asini, etc. fossero – in realtà – i difetti degli altri, dei quali si poteva ridere con saggio compiacimento. E da Esopo (VI sec. a.C.) fino ad Orwell (XX sec.) , passando per Fedro (I sec. d.C.), La Fontaine (XVII secolo), e anche per Trilussa (XX secolo), molti scrittori sono passati alla storia della letteratura per le loro favole, talora forse sentenziose, ma sempre divertenti e molto spesso sagge.
Direi che queste curiose analogie seguitano tuttora ad avere successo, talora largo: si pensi alla personificazione del gufo come emblema del menagramo, divenuta nei tempi recentissimi tanto popolare da comparire persino, con insistita frequenza, nei discorsi del nostro Presidente del Consiglio e, di converso, in quelli dei poco fantasiosi suoi oppositori.
Ce n’è uno, però, fra questi animali, che, forse, di tanto in tanto, vale la pena di “rivisitare”: si tratta della rana, da sempre simbolo un po’ goffo di rumorosa vacuità, spesso fessa o vagamente stolida.
Almeno qui da noi, in Italia, dove abbiamo tante cose che “tutto il mondo ci invidia”, la rana mi pare un po’ passata di moda; forse perché da noi di fessi ce n’è pochi, anzi, si sa, siamo famosi per la nostra intelligenza! E difatti la vedo veramente poco citata, non ostante che col suo noioso gracidare, immersa in uno stagno nemmeno tanto pulito, ben si attaglierebbe a simboleggiare tanti dei modi con cui ci auto-rappresentiamo.
Eccola qua, per esempio, in una deliziosa favoletta di Fedro (credo):

Una volta una rana vide un bue in un prato.
Presa dall’invidia per quell’imponenza prese a gonfiare la sua pelle rugosa.
Chiese poi ai suoi piccoli se era diventata più grande del bue.
Essi risposero di no.
Subito riprese a gonfiarsi con maggiore sforzo e di nuovo chiese chi fosse più grande.
Quelli risposero: “Il bue”.
Sdegnata, volendo gonfiarsi sempre più, scoppiò e morì.
Quando gli uomini piccoli vogliono imitare i grandi, finiscono male.

Diranno i miei pochi lettori: ma come ti viene in mente ‘sta rana, in mezzo ai tanti problemi che abbiamo?
Beh, sapete che non me lo ricordo? Non so, forse leggendo i giornali di stamane…..
Roma 18 dicembre 2015


mercoledì 16 dicembre 2015

Letture

Infedeli
(di Felice Celato)
Sono reduce dalla lettura di un lungo saggio di Andrew Wheatcroft intitolato Infedeli e sottotitolato come segue: 638-2003: il lungo conflitto fra cristianesimo e islam. Il libro è stato scritto nel 2003, successivamente aggiornato nel 2004 e tradotto in Italia per Editori Laterza nel 2004 sulla base del testo aggiornato dall’autore nello stesso anno (data la materia, queste precisazioni non sono inutili).
Non è propriamente un libro di storia come lo avevo immaginato quando l’ho comprato; ma, piuttosto, una lunga tesi (oltre 500 pagine comprese le note per circa 100) sulla natura, l’origine e lo sviluppo nel tempo dei rispettivi miti negativi che attraversano la storia dei rapporti fra mondo cristiano e mondo islamico, e che, anzi, in molti casi la determinano o almeno ne determinano la lettura. Un libro non facile dunque (lunghezza a parte) nonostante lo sforzo di chiarezza dell’autore; anzitutto perché la conoscenza della storia vi è spesso presupposta (e, nel mio caso, talora infondatamente! Un esempio? Della storia dei vicini paesi Balcanici so – ho scoperto – veramente poco!); e poi perché la genesi dei miti (negativi) si alimenta, sì, di parole d’odio (i maledicta, come li chiama l’autore) e di rappresentazioni semplificate dalla tradizione (orale o scritta), ma anche di esperienze vere; e queste, a loro volta, sono spesso anche il frutto di quelle (dei maledicta e delle rappresentazioni), in un groviglio che è assai difficile dipanare. Il tutto, poi, nella fattispecie concreta, all’interno di diversi ritmi di evoluzione delle rispettive società (assai significativo, per esempio, quello relativo alla diffusione della stampa), come pure all’interno di quella condizione di semplificata reciprocità che ha portato, nel tempo, alla contrapposizione fra asserite rispettive condizioni di “infedeltà” (gli infedeli mussulmani per i cristiani vs. gli infedeli cristiani per i mussulmani ).
Dunque, se è vero che l’uomo ha sempre “giocato” con la storia per alimentare i propri miti, via via riesumandoli – se può servire alla bisogna del momento – anche quando sono seppelliti dal tempo, è anche vero che il linguaggio della storia è anch’esso storia; sicché, l’autore commenta, è anche vero “che le parole e le immagini contano, perché è nelle produzioni spontanee ed effimere che si esprime spesso la verità non censurata”.
Se si potesse trarre – sulla lettura del presente – un sintetico messaggio di questo libro (ripeto: tutt’altro che facile e, aggiungo, tutt’altro che definitivo nelle conclusioni), direi che è la straordinaria potenza evocativa del linguaggio a porci inquietanti interrogativi sulla effettiva consistenza del reale attuale, proprio mentre si riaffacciano, in situazioni nuove e con parole antiche, i fantasmi di una storica, lunga contrapposizione. Di qui l’esigenza (molto modestamente ne abbiamo parlato tanti mesi fa in questo blog) della attenta sorveglianza del linguaggio (degli altri e proprio) come esercizio di ecologia della convivenza.
Il libro si conclude con una rapida carrellata sulla retorica della tensione e con una buffa vignetta esemplificativa che ritrae G. W. Bush che in televisione, nel 2003, parlando di chi pensava di poter attaccare l’America e i suoi valori, proclama rabbioso “Bring ‘em on!” (si facciano avanti!), mentre alle sue spalle Theodor Roosevelt si copre gli occhi pensando al suo motto “Speak softly and carry a big stick”(parla con dolcezza e prepara un grosso bastone).
In definitiva, senz’altro un libro intelligente (nel senso etimologico della parola, cioè che cerca di capire); non saprei però dire se, nonostante questo, sia anche un libro utile alla costruzione di una sintesi storico-politica per dipanare i grovigli del presente. Forse no, volutamente (in fondo l’autore è uno storico inglese, non certo un uomo di stato) e necessariamente (il libro ha ormai più di 10 anni ed è stato scritto nel bel mezzo della II guerra del Golfo).
Roma 16 dicembre 2015