Un esercizio comunque salutare
(di
Felice Celato)
Fermarsi ed ascoltare. Questo è – diceva
oggi il p. De Bertolis nell’omelia domenicale al Gesù – il messaggio centrale
dell’Avvento. Messaggio tanto più difficile quanto più è rumoroso il nostro
mondo e quanto più ci siamo accomodati a quella paradossale sconnessione che l’invasione della cronaca genera in un
mondo che pur si sente più “connesso” che mai, iniettandovi a piene mani il virus della disarticolazione delle
strutture e dei pensieri (cito qui il Rapporto Censis di cui parlavamo
giusto l’altro ieri). Ho provato a rifletterci sopra, sia nella prospettiva
religiosa che in quella più concretamente quotidiana del nostro agire politico.
Fermarsi ed ascoltare è anzitutto un salutare
esercizio spirituale che aiuta a riconnettere la fede con la storia; questo,
secondo me, è il vero problema della fede, oggi come ai tempi del profeta
Baruch che, durante gli anni dolorosi dell'esilio di Babilonia (*),“vedeva” la resurrezione di Gerusalemme (“Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivestiti
dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre….perchè Dio ha
deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni”) . Del resto – come scriveva tanti anni fa
Henri-Irénée Marrou (Teologia della
Storia, Jaca Book 1979) – “il
tempo,….attributo della creazione, nato con essa ed inseparabilmente legato ad
essa,… è stato scelto da Dio come vettore di salvezza, come modo di realizzare
la sua oikonomia”; e dall’essere immerso nel tempo, l’uomo deriva, ad un
tempo, libera responsabilità e tensione che, insieme, suggeriscono, nei tempi,
sosta ed ascolto.
Ma fermarsi ed ascoltare, quando si esce
dalle grandi dinamiche della storia per avventurarsi su quelle del governo del
presente, è anche un esercizio che si è fatto estremamente ingrato, talora
inane, nel vortice vuoto dell’inerzia
collettiva che si consuma su se stessa (Censis): anzi, la generalizzata
fatuità del dibattito socio-politico [fatuo,
dal Devoto-Oli: superficiale,
spiritualmente insignificante, frivolo, inconcludente sul piano pratico] e
l’insostenibile leggerezza degli enunciati politici rendono l’esercizio dell’ascolto
spesso irritante; soprattutto quando si confrontano le proposizioni con la
complessità dei problemi che ci incombono e con le responsabilità di quelli che
dovrebbero gestirli e porvi rimedio.
Eppure
fermarsi ed ascoltare rimane, in
entrambe le prospettive, un esercizio salutare, sia che serva (per coloro che
credono) ad ascoltare l’annuncio della promessa realizzata con l’irruzione di
Dio nella storia e la verità della Sua ultima signoria su di essa; sia che –
assai più modestamente – serva (anche per i laici) a misurare, con l’ascolto vigile in uno spazio
“fermo” dal fluire della cronaca, le inadeguatezze culturali ed etiche dell'agire politico. Forse è giusto domandarsi, in termini brutali:
è eticamente accettabile – prima di esserlo in termini culturali – spacciare
delle banalità come “verità” politiche? O, da un lato o dall’altro degli
schieramenti politici, propagare slogan
per diluire la percezione dei “veri” nodi del nostro presente?
Roma,
6 dicembre 2015
(*)
La
questione esegetica sulla effettiva data di redazione del libro di Baruch è
irrilevante nel quadro del discorso di teologia
della storia che è sotteso al nostro discorso, investendo –semmai – quella
sulla natura autenticamente “profetica” del testo, che qui non ci interessa.
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