Infedeli
(di
Felice Celato)
Sono
reduce dalla lettura di un lungo saggio di Andrew Wheatcroft intitolato Infedeli e sottotitolato come segue: 638-2003: il lungo conflitto fra
cristianesimo e islam. Il libro è stato scritto nel 2003, successivamente
aggiornato nel 2004 e tradotto in Italia per Editori Laterza nel 2004 sulla base del testo aggiornato dall’autore
nello stesso anno (data la materia, queste precisazioni non sono inutili).
Non
è propriamente un libro di storia come lo avevo immaginato quando l’ho
comprato; ma, piuttosto, una lunga tesi (oltre 500 pagine comprese le note per
circa 100) sulla natura, l’origine e lo sviluppo nel tempo dei rispettivi miti negativi
che attraversano la storia dei rapporti fra mondo cristiano e mondo islamico, e
che, anzi, in molti casi la determinano o almeno ne determinano la lettura. Un
libro non facile dunque (lunghezza a parte) nonostante lo sforzo di chiarezza
dell’autore; anzitutto perché la conoscenza della storia vi è spesso
presupposta (e, nel mio caso, talora infondatamente! Un esempio? Della storia
dei vicini paesi Balcanici so – ho scoperto – veramente poco!); e poi perché la
genesi dei miti (negativi) si alimenta, sì, di parole d’odio (i maledicta, come li chiama l’autore) e di
rappresentazioni semplificate dalla tradizione (orale o scritta), ma anche di
esperienze vere; e queste, a loro volta, sono spesso anche il frutto di quelle (dei maledicta e delle rappresentazioni), in
un groviglio che è assai difficile dipanare. Il tutto, poi, nella fattispecie
concreta, all’interno di diversi ritmi di evoluzione delle rispettive società
(assai significativo, per esempio, quello relativo alla diffusione della
stampa), come pure all’interno di quella condizione di semplificata reciprocità
che ha portato, nel tempo, alla contrapposizione fra asserite rispettive
condizioni di “infedeltà” (gli infedeli mussulmani per i cristiani vs. gli
infedeli cristiani per i mussulmani ).
Dunque,
se è vero che l’uomo ha sempre “giocato” con la storia per alimentare i propri
miti, via via riesumandoli – se può servire alla bisogna del momento – anche
quando sono seppelliti dal tempo, è anche vero che il linguaggio della storia è
anch’esso storia; sicché, l’autore commenta, è anche vero “che le parole e le immagini contano, perché è nelle produzioni
spontanee ed effimere che si esprime spesso la verità non censurata”.
Se
si potesse trarre – sulla lettura del presente – un sintetico messaggio di
questo libro (ripeto: tutt’altro che facile e, aggiungo, tutt’altro che
definitivo nelle conclusioni), direi che è la straordinaria potenza evocativa del
linguaggio a porci inquietanti interrogativi sulla effettiva consistenza del
reale attuale, proprio mentre si riaffacciano, in situazioni nuove e con parole
antiche, i fantasmi di una storica, lunga contrapposizione. Di qui l’esigenza
(molto modestamente ne abbiamo parlato tanti mesi fa in questo blog) della attenta sorveglianza del
linguaggio (degli altri e proprio) come esercizio di ecologia della convivenza.
Il
libro si conclude con una rapida carrellata sulla retorica della tensione e con
una buffa vignetta esemplificativa che ritrae G. W. Bush che in televisione,
nel 2003, parlando di chi pensava di poter attaccare l’America e i suoi valori,
proclama rabbioso “Bring ‘em on!” (si
facciano avanti!), mentre alle sue spalle Theodor Roosevelt si copre gli occhi
pensando al suo motto “Speak softly and
carry a big stick”(parla con dolcezza e prepara un grosso bastone).
In
definitiva, senz’altro un libro intelligente (nel senso etimologico della
parola, cioè che cerca di capire); non saprei però dire se, nonostante questo,
sia anche un libro utile alla costruzione di una sintesi storico-politica per dipanare i grovigli del presente. Forse no, volutamente (in fondo
l’autore è uno storico inglese, non certo un uomo di stato) e necessariamente
(il libro ha ormai più di 10 anni ed è stato scritto nel bel mezzo della II
guerra del Golfo).
Roma
16 dicembre 2015
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