Un discorso difficile
(di
Felice Celato)
Da
qualche tempo vado riflettendo tra me e me (con qualche rapida incursione nelle
opinioni dei pochi amici con cui si può parlare di queste cose) sul concetto di
”colpa (in senso atecnico) nel male” così come viene percepito nella
dinamica confusa ed approssimativa delle opinioni correnti (per tali intendendo
quelle, spesso acritiche, che vengono “formate” dai media).
C’è
da dire che la cronaca offre ampi campionari di queste opinioni correnti, dai
commenti sull’episodio Schettino (che è all’origine alle mie riflessioni) a
quelli sui casi Lusi o Belsito o su molti altri.
In
questo contesto riflessivo, si è inserito provvidenzialmente l’annuale
bellissimo ciclo di conferenze organizzato dai PP. Gesuiti, quest’anno sull’enigma
del male (l’anno scorso sulle cosiddette ragioni di Antigone), affrontato però
non tanto dal punto di vista filosofico ma soprattutto da quello antropologico
(il libro che compendia gran parte di queste conferenze è “L’arazzo rovesciato. L’enigma del male” di G Cucci e A. Monda, un
libro del quale raccomando vivamente la lettura).
Ebbene,
riflessioni e letture mi hanno condotto a queste (provvisorie) conclusioni.
In
realtà – seguo il libro appena citato, soprattutto ai capitoli 2,3 e 4 – mi
vado convincendo che il discrimine fra l’estremo male (nel libro individuato nei
crimini nazisti) e l’estremo bene (nel libro ricapitolato nella figura
dell’eroe) è psicologicamente e socialmente così sottile da necessitare di una
grande acutezza di valutazioni; non perché – sia chiaro – non siano evidenti le
differenze tra le opere del male e le opere del bene, ma perché quello che
accade sulla bilancia che, nei nostri atti, orienta l’ equilibrio dei suoi
piatti verso la banalità del male (cioè il fatto che il male anche estremo può
essere fatto da persone assolutamente ordinarie) o verso la banalità del bene
(cioè il fatto che il bene anche eroico può essere fatto da persone
assolutamente ordinarie), è spesso frutto di circostanze culturali e
relazionali estremamente delicate, affacciate nello spazio decisivo ed angusto
fra l’acquiescenza acritica a determinate pressioni sociali (si pensi
all’influenza nefasta dell’ideologia nazista sui comportamenti di persone che
in altro contesto potevano essere degli oscuri funzionari di stato e che,
invece, nel contesto esaltato del nazismo, sono diventati sadici persecutori) e
la vigilanza critica, la desta
consapevolezza (che ad esempio portò uomini oscuri come Perlasca a
divenire autentici eroi della giustizia).
Si
badi bene: tutto ciò non porta a negare o attenuare il concetto di
responsabilità individuale, che, anzi, viene esaltato proprio dalla
sottigliezza del discrimine, che esige una vigilanza continua ed attenta, direi
scrupolosa (ma che proprio per questo può non essere alla portata di tutti,
soprattutto in condizioni eccezionali).
Né ciò
porta, mi ripeto citando il libro, a negare la
differenza fra il bene e il male ma (solo) la presunta dicotomia fra l’uomo peccatore e l’uomo (che si crede)
giusto.
Ecco
dunque, da un lato, ancora una volta, la grandezza dell’antica verità biblica: non giudicare; dall’altro la miseria
dell’opinionismo mediatico: stracciarsi
le vesti di fronte al male compiuto dagli altri, chiedendo giustizia sommaria
del presunto colpevole, è un atteggiamento tanto spontaneo ed emotivo quanto
falso ed ipocrita perché, oltre a non conoscere la vicenda e la situazione del
colpevole, nell’atto di giudicare, come ricorda San Paolo, non si fa altro che
condannare se stessi. Gli autori del libro ricordano, al riguardo, il
bellissimo episodio di Davide e Natan, quando Davide, di fronte alla storia
raccontatagli da Natan esclama “Chi ha fatto questo è degno di morte!”; al che,
Natan, svelando la parabola, risponde: “Quell’uomo sei tu!”(2 Sam,12).
Bene,
fin qui le mie (provvisorie) conclusioni, devo dire, sapientemente guidate, così mi pare di poter dire, dal
libro del P. Cucci e del prof. Monda.
Ora
proviamo a riavvolgere i tanti sdegni che ci portano a demonizzare ora l’uno ora l’altro
protagonista delle nostre sovrabbondanti cronache e a riconsiderare le nostre
idee al riguardo alla luce di quel flebile iato che separa, magari in
condizioni eccezionali, l’acquiescente inconsapevolezza dalla desta
consapevolezza: sono sicuro che molte pietre cadranno di mano ai lapidatori e
che i più coscienti di essi riscopriranno la infinita saggezza del non giudicare.
Vengo
alle possibili obiezioni, che mi suggeriscono anche gli scambi di idee con
alcuni amici:
1: Ma, si potrebbe dire, come si fa a non giudicare? La
nostra vita individuale e collettiva, privata e sociale, è intessuta della
necessità di giudicare. Forse è vero, se il giudicare ci serve per decidere
(per esempio, per votare). Ma possiamo dire altrettanto del continuo
trasformare ogni giudizio in facile, immediata, pubblica, inappellabile,
sicura, beffarda e rumorosa condanna? Fa bene alla nostra convivenza (per
questo ho ripreso, nel titolo, il tema della "nostra" ecologia civile) alimentare
la nostra pubblica opinione solo di pietre per lapidare?
2: Se “prodighiamo” acribìa ai possibili facitori
di male, perché non prodigarla, come mi suggerisce un amico preoccupato di alcune mie durezze su certi politici, anche a coloro che fanno male – magari secondo
il nostro personalissimo giudizio – credendo di fare bene? Troppo giusto, anche
ad essi va riservato un "giudizio pietoso", soprattutto se sono veramente in
buona fede. Ma con una grandissima attenzione, soprattutto quando questi sono
politici, portatori di messaggi potenzialmente aggreganti (per esempio, di
ideologie, piccole o grandi). In fondo (torno a citare il libro) il condizionamento cognitivo, proprio
dell’ideologia e della propaganda politica è il frutto di una recezione passiva; e la natura di
questa recezione (se passiva o
critica) è proprio quella che può fare la differenza fra un oscuro personaggio
trasformato in belva (il comandante di Aushwitz, Hoss) e un oscuro personaggio
trasformato in eroe (Perlasca o Jagerstatter, il contadino austriaco che seppe
ribellarsi ad Hitler).
Roma,
5 aprile 2012, giovedì santo (il giorno della passione del Giusto, condannato
dal suo popolo)