Letterari conforti e sconforti
(di
Felice Celato)
Eccoci
qua, dopo qualche malanno di stagione (passaggi dell’anno o della vita?) e molti
antibiotici, torniamo alle nostre conversazioni asincrone. Le molte ore
trascorse a casa hanno inevitabilmente portato molte letture; ne citerò due,
assai diverse fra loro, che mi hanno tenuto lontano da quella dei giornali,
senza alcuna nostalgia.
la prima è un vasto romanzo di un giovane scrittore libanese Rabee Jaber, Come fili di seta (Feltrinelli) che
racconta, attraverso la (forse vera) storia di una magnifica donna (in qualche modo
un’ascendente dell’autore), l’epopea dell’immigrazione in USA di molti
libanesi–siriani nel corso di tutto il ‘900. Per certi versi il libro replica La signora di Ellis Island di Mimmo Gangemi,
un racconto bellissimo che abbiamo già segnalato su questo blog e dedicato, invece, alla migrazione italiana dello stesso
periodo.
Anche
qui, in Come fili di seta, la
narrazione è fluida e sicura, anche quando gioca con piani temporali diversi,
la scrittura duttile e capace di suscitare commozione ed ammirazione per la
tenacia di un popolo alla ricerca del suo proprio sogno Americano. Ne viene
fuori un ritratto vivo di molti personaggi forti (oltre a quello, bellissimo, della protagonista,
Marta), immersi in una serie di vicende umane difficili, nelle quali si
riconoscono i tratti di una solidale e generosa determinazione umana e di una
vigoria spirituale che apre il cuore e la mente al pensiero positivo.
Di
tutt’altra pasta è invece il bel libro di Clara Sereni Una storia chiusa (Rizzoli); confesso che, nello stato psicofisico
in cui l’ho letto, il romanzo della Sereni sarebbe stato da abbandonare, cosa
del resto che, come lettore, di solito non mi crea alcun imbarazzo
intellettuale, anche di fronte ad opere di scrittori di fama monumentale. La
storia (anzi: la tenue storia) narrata è inserita in un ambiente umano non
particolarmente confortante: una residenza per anziani nella quale si agitano,
come i veri protagonisti del racconto, le nevrosi, le manie, i malanni, le angustie, le relazioni forzate,
le emozioni elementari e le solitudini disperate dei diversi io narranti che ruotano
attorno ad una nuova arrivata, una ex magistrato in pensione che in realtà è
stata inserita nella malinconica comunità, sotto falso nome, solo per sottrarla
alle minacce di malviventi con cui è entrata in contatto nella sua attività.
Non
ostante il deprimente contesto (non ideale per uno stagionato lettore, non
lontano dall’età dei protagonisti, e per di più sotto antibiotici), il racconto
– anche qui tracciato con la mano sicura di una sperimentata e mai banale
narratrice – mi ha preso quando mi è parso di cogliere l’intento metaforico cui
accenna la quarta di copertina (di solito non presto alcuna attenzione a quanto
scritto nelle copertine da chi, come troppo spesso appare evidente, non ha
avuto il tempo di leggere il libro; ma stavolta, la chiave di lettura suggerita
mi è sembrata utile): se la residenza per anziani non è altro che una elegante
parafrasi del nostro vecchio e stanco Paese – come è più evidente nel finale, disperatamente e dolcemente retorico - la lettura si fa per molti versi più
interessante…. ma non per questo risulta meno deprimente!
Roma, 28 aprile 2012
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