lunedì 28 maggio 2018

Spigolature dei giorni tristi

(di Felice Celato)
Dalle cronache un po’ sgomente di questi giorni, estraggo due parole “correnti”:

Sovranità
Da bocche sudate ed ansimanti, è uscita più volte una parola nuova ed antica; nuova nei sensi che oggi le si attribuiscono, antica nel suo storico significato: sovranità. E più volte, nei commenti a caldo sull’imprevista caduta del tentativo di governo, la si è invocata e rimpianta nella domanda: ma l’Italia è un paese a sovranità limitata?
La mia risposta è semplice: sì, per fortuna.
Perché sì: perché l’Italia si è data nel tempo dei limiti alla sovranità, cioè alla sua capacità di autoregolamentarsi. E questi limiti sono interni ed esterni: quelli interni sono stabiliti dalla Costituzione che, solo per fare un esempio banale, vieta leggi discriminatorie (art 3); perciò, sempre per fare un esempio, l’Italia non potrebbe stabilire che gli uomini “valgono” (giuridicamente) più delle donne, o viceversa. Si dirà: ma la Costituzione può essere cambiata! Verissimo, con le procedure che sono proprie per questi cambiamenti e quindi esplicitamente e non surrettiziamente; e nemmeno tutta, la Costituzione, può essere cambiata (s’intende: pacificamente) perché, ad esempio, l’art 139 della stessa nostra Legge fondamentale prevede che la forma repubblicana non può essere soggetta a revisione. Poi ci sono i limiti esterni, che il popolo Italiano ha accettato di far suoi (art 11 della Costituzione: L'Italia..... consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad uno ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.); ad esempio, i Trattati  dell’Unione Europea che - beninteso - possono essere denunciati e rinunciati (come sta facendo l’UK con la famosa Brexit) sempreché questo avvenga con le procedure che sono proprie per questi cambiamenti e quindi esplicitamente e non surrettiziamente. E fra questi trattati ci sono quelli sugli impegni di bilancio e sulla sovranità monetaria (cioè il diritto di “battere moneta”), la quale ultima l’Italia ha deciso di trasferire all’ Unione, che la esercita tramite la BCE al cui vertice, fra l’altro, siede ora un Italiano e, per di più, una persona di sicuro valore.
E dunque l’Italia - come molti altri, fra cui la Germania (che ha addirittura esplicitato costituzionalmente il progetto di un Europa unita e delle correlate cessioni di sovranità) - è un paese a sovranità limitata.
E, dicevo, questa è una fortunata circostanza, per molti motivi fra i quali vale la pena di soffermarsi su uno, quello correlato alla sovranità monetaria e finanziaria che l’Italia ha esercitato in proprio finché vigeva la lira italiana. Basti pensare che nei suoi 54 anni di vita post-bellica (1947-2001) la lira ha perso mediamente il 7% all’anno del proprio potere d’acquisto e, nello stesso periodo, il rapporto fra Debito Pubblico e PIL è passato dal 28 al 104%! 
Si dirà: vuoi forse dire che siamo incapaci di governarci, magari facendo il verso a Mussolini che diceva “governare gli Italiani non è difficile, è inutile”? No, non direi tanto, ma il fatto è che ascoltando molte delle promesse elettorali mi sono convito che sia proprio bene che non abbiamo noi la  mano libera sul rubinetto, su certe materie.

Spread
Non posso nascondere lo sdegno che mi suscita l’affettata ignoranza sul “famoso spread”; affettata perché in fondo è un concetto talmente semplice che non può non essere alla portata anche dei cervelli meno attrezzati culturalmente, quand’anche fingano di ignorarlo: lo spread (nell’accezione che qui interessa) è il sovrapprezzo che si paga sui denari presi a prestito per compensare il maggior rischio che un investimento comporta rispetto ad analoghi investimenti disponibili sul mercato. Non è accettabile che eletti o giornalisti fiancheggiatori di questa o quella fazione facciano sussiegosa mostra di voler ignorare questo concetto, in un paese che ha 2.300 miliardi di debito (una crescita di 100 punti dello spread solo sulle emissioni di un anno varrebbe più o meno 3 miliardi all’anno di maggiori interessi da pagare); e in un paese i cui cittadini ed i cui imprenditori hanno mutui ed altri debiti regolati a tassi che in qualche modo (sarebbe lungo qui spiegare in che modo) riflettono tale sovrapprezzo. Sarebbe come se un cronista di calcio snobbasse il concetto di fuori giuoco, solo perché gli appare un po’ complicato da spiegare (più assai del concetto di spread per la verità).
Roma  28 maggio 2018 ( sempre en attendant Godot, la Terza Repubblica, quando ogni lacrima sarà asciugata)

sabato 26 maggio 2018

Ricordi scolastici

Marco Calpurnio Bibulo
(di Felice Celato)
Raccontano, le storie della Roma antica, che Marco Calpurnio Bibulo, che condivideva con Giulio Cesare la diarchia consolare in uno degli ultimi decenni della repubblica Romana, non riuscendo a sopportare lo strabordante ( e prevaricante) carisma del suo “socio” nella gestione della res publica, ad un certo punto abbandonò volontariamente l’esercizio del potere, ritirandosi nella sua villa per dedicarsi alla sua amata lettura dei segni celesti.
Sappiamo tutti come andò a finire: Giulio Cesare divenne console unico (ma i romani, beffardi anche allora, dicevano che i consoli erano sempre due, Giulio e Cesare) e poi dittatore; finché, nelle idi di marzo dell’anno 44 a.C., in un estremo tentativo di salvare la repubblica, Decimo Bruto e Pubblio Servilio Casca (ed altri congiurati) dovettero ucciderlo a colpi di pugnale, ai piedi della statua di Pompeo, in quella che oggi a Roma è la Piazza di Torre Argentina.
Come sia emersa dalla mia memoria questa vicenda sepolta nei ricordi del liceo, non saprei dire; forse – butto là un’ipotesi – è solo perché i giornali che raccontano in questi tristi giorni d’Italia le vicende della nostra politica nelle doglie del parto della Terza Repubblica, spesso hanno preso a chiamare diarchi gli onorevoli Salvini e Di Maio, in ragione – credo – della loro (pacifica, per carità, per quanto verbalmente aggressiva) occupazione della scena politica, nella totale assenza di ogni opposizione e forse anche di ogni costituzionale resistenza.
Allora fu dunque un problema di differente peso carismatico e, forse, di diversa avidità di potere, che a Cesare non mancò mai, durante tutte le sue scorribande politiche. E certamente non sarebbe nemmeno appropriato, anche solo scherzosamente, avanzare paralleli, fra l’altro anche poco benauguranti, sia per chi aspirasse ad essere il Giulio Cesare della situazione, sia per chi dovesse finire per fare la parte di Marco Calpurnio Bibulo; ma – a pensarci bene – nemmeno per la nostra bene amata repubblica. E poi – bisogna pure ricordarlo – quegli eventi del I secolo a.C. accadevano in una Roma militarmente, politicamente, culturalmente ed economicamente quasi all’apice del suo splendore; e, diciamo la verità, questo è ben lungi dal verificarsi per l’Italia di oggi, confusa nei suoi riferimenti internazionali, culturalmente devastata ed economicamente depressa sotto il peso del suo indebitamento e della sua scarsa efficienza.
Dunque, cari lettori di questo blog (che magari avete appena accettato le nuove inutili norme sulla privacy sottopostevi dal gestore del sito), considerate questa breve citazione di memorie liceali come una pura associazione di idee, senza intenti allusivi né tampoco analogici: mi è venuta in mente e come tale ve l’ho girata, sicuro che nessuno di voi si cimenterà nell’ozioso esercizio di preconizzare il ruolo di un tremolante Marco Calpurnio Bibulo per questo o per quell’altro dei nostri attuali cosiddetti diarchi: in Italia, vivaddio!, c’è ancora una Costituzione che, non sarà la più bella del mondo come andava fatuamente ripetendo la dimenticata Laura Boldrini, ma di  diarchie non ne prevede alcuna. Di regole sì, ovviamente; ma queste – credo – nessuno si sogna di violarle con la stessa sicumera del pur simpatico Giulio Cesare; non foss’altro perché potrebbe portargli male.
Roma  25 maggio 2018

giovedì 24 maggio 2018

Divagazioni festose

24 maggio
(di Felice Celato)
Il 24 maggio, si sa, è un giorno al quale tutti – magari per diversi motivi –  siamo in qualche modo affezionati: non solo perché, per quanto mi riguarda, se fosse ancora viva, la mia compianta mamma compirebbe oggi 90 anni; non solo perché è la festa religiosa di Santa Maria Ausiliatrice (del cui benevolo sguardo  abbiamo tanto bisogno, oggi più che mai); non solo perché, noi tanto affezionati ai pp. Gesuiti, celebriamo, il 24 maggio, la festa di Santa Maria della strada, la sacra immagine cui fu dedicata la prima chiesa gesuita a Roma (poi divenuta la Chiesa del Gesù); non solo perché il 24 maggio 1915 l’Italia entrò nella I guerra Mondiale che, accanto ad infiniti  lutti, portò al nostro (allora) giovane Paese la prima (e forse l’ultima) quasi gloriosa vittoria bellica. Come si vede,  ci sarebbero molti spunti festosi; ma non bastano: da oggi c’è un’altra ricorrenza da celebrare il 24 maggio: forse (il forse è d’obbligo, data la materia), è nata la Terza Repubblica, la Repubblica della palingenesi nazionale, senza più il “teatrino della politica” ma con il fulgido premier incorporeo ("il premier è il contratto", dice il capo politico del partito di maggioranza relativa) che –  nella sua ipostasi corporea (il Presidente del Consiglio incaricato) –  dopo una lunga gestazione (nel corso delle repubbliche precedenti si sarebbe detto un lungo inciucio fra partiti fino a poche settimane fa fieramente avversi), vede, finalmente, un tecnico non eletto affidatario del compito di eseguire quanto gli Eletti hanno convenuto per trasformare l’Italia.
E dunque, nel clima festoso che ci pervade (oggi è anche la prima vera giornata di primavera romana), per celebrare degnamente questa festività (almeno quella civile), mi sono esercitato nell’esplorare la famosa Canzone del Piave (che si canta, appunto, il 24 maggio e che, addirittura, Bossi voleva far diventare l’inno Italiano); per cercarvi – se ce n’è – le tracce dei famosi, vichiani, corsi e ricorsi della storia. E dunque, ecco il risultato: ce ne sono, e molte. Sicuramente c’è, anche oggi, nell’aria un presagio dolce e lunsinghiero; sicuramente s’ode, intanto dalle amate sponde, sommesso e lieve, il tripudiar dell’onde; è vero, i fanti non passano muti come allora, ma “tacere bisognava e andare avanti”, rimane pur sempre un’esigenza, ancorché oggi non sempre ben percepita; però una cosa è certa: dal fondo del nostro cuore, come allora dal Piave, erompe il grido “non passa lo straniero!”, perché, rosso del sangue del nemico altero, il Piave comandò: “Indietro, va’, straniero!” Ohibò! 
Vedo anche il presagio di vittoria e la profezia messianica: E la Vittoria sciolse le ali al vento! Fu sacro il patto antico: tra le schiere furon visti risorgere Oberdan, Sauro a Battisti. Infranse, alfin, l’ italico valore le forche e l’armi dell’ Impiccatore. Sicure l’Alpi… Libere le sponde…E tacque il Piave: si placaron le onde, sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi, la Pace non trovò né oppressi, né stranieri! Ohibò!
Magari speriamo che questi corsi e ricorsi si fermino al maggio del 1915, perché, in fondo, il 28 ottobre del 1922 arrivò solo 7 anni dopo; e, se, invece, come tutti speriamo, anche questa nuova solennità (la festa della Terza Repubblica) si aggiungerà degnamente al palmarès del 24 maggio, sarà il caso di valutare se farne una festa nazionale, altro che il 25 aprile!
Roma 24 maggio 2018


domenica 20 maggio 2018

Pentecoste del 2018

L’ascolto del vento
(di Felice Celato)
Poche parole, forse, sono così evocative come il vento. Nel Libro della Parola (la Bibbia) il vento esprime una ricchezza di sensi che si rifanno, tutti, al vocabolo onomatopeico del lessico ebraico ruah, che significa, ad un tempo, alito, respiro, aria, spazio ma anche vento e spirito; sensi tutti in qualche modo implicanti movimento, impalpabilità e persino imprevedibilità (il vento soffia dove vuole e ne senti la voce ma non sai da dove viene e dove va, Gv. 3,8), forza vitale ( Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente , Gn. 2,7) e distruzione (Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa ed essa cadde e la sua rovina fu grande, Mt 7,27), vanità (Voi pretendete di confutare le mie ragioni e buttate al vento i detti di un disperato, Gb, 6,26) e dazione di salvezza (da Es. 14,21: Mosè stese la sua mano sopra il mare e il Signore sospinse il mare con un forte vento dell’est tutta la notte e mise a secco il mare e il mare si divise; fino al brano dell’odierna liturgia: Venne all’improvviso  dal cielo un fragore, come un vento che si abbatte impetuoso. E riempì tutta la casa dove stavano [gli Apostoli], Atti, 2,2).
Ascoltarlo, il vento, capirne la natura e l’origine, può essere difficile, come ebbe a sperimentare il profeta Elia (1 Re, 19, 11-13: ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto col mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco venne a lui una voce che gli diceva….); ma è anche decisivo per non confondere il rumore con la parola, il rombo fragoroso con il senso di essa, l’aria che si muove con la voce che ti parla, il messaggio col suo veicolo.
Nel giorno di Pentecoste (in fondo la festa del vento che trasforma il mondo e spazza ogni nube dal cielo di coloro che credono lo Spirito Santo) mi piace ricordare l’esercizio di discernimento di Elia che, stanco e fuggitivo, del vento, seppe distinguere l’impeto dal senso, il fragore dalla voce; e, avendo intuito per mezzo di quale brezza Dio stava per parlargli, si coprì il volto col suo mantello, quasi a ripararsi dalla vista accecante del mistero: Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: «Che cosa fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita».
E’ tempo, il nostro (e non solo nelle vigorose narrazioni politiche di cui siamo destinatari ma spesso anche nelle voci di chi è tenuto a rispettare il peso delle parole), è tempo, dicevo, di parole menate al vento purché  questo le porti lontano dal loro significato, di fragori e roboazioni affinché chi li ascolta senta l’impeto suggestivo del vento senza coglierne il senso.
Il dono della Pentecoste (Quando, segnal de’popoli,/ ti collocò sul monte/ e ne’ tuoi labbri il fonte/ della Parola aprì) ci conservi il dono dell’intelligenza in mezzo al rumore.
Roma 20 maggio 2018 (Pentecoste 2018)

mercoledì 16 maggio 2018

I confini della notte

La notte degli imbrogli
(di Felice Celato)
Come ben sanno i cultori de I Promessi sposi, al capitolo VIII dellimmortale romanzo è stato dato, nel tempo, il titolo non testuale de La notte degli imbrogli perché, in esso, diversi personaggi della vicenda in diverso modo si ingegnano a porre in atto una serie di sotterfugi (di imbrogli, appunto) per tentare, anche goffamente, di sottrarre i protagonisti al destino che li aspetta nella storia narrata. Ma, si sa, il destino degli uomini raramente si muta coi sotterfugi .specie nei romanzi, quando i sotterfugi stessi fanno parte della trama. E così fu, naturalmente, del tentativo di nozze a sorpresa fra Renzo e Lucia, nella canonica di Don Abbondio, in quella notte agitata del 1628.
Questo scorcio di romanzo mi veniva in mente laltra sera mentre scorrevano in televisione i brevi discorsi che, dopo notti di ingegno, annunciano secondo la prosa un po' pomposa di qualcuno– se non la nascita almeno il travaglio della terza repubblica; quando ogni lacrima sarà asciugata” e non ci saranno piùnon ne avremo più bisogno! i vecchi politici adusi ai vecchi riti ma solo esecutori delle soluzioni da dare agli italiani, decise col voto istantaneo sulla base di un contratto di governo o, più propriamente, di una bozza di contratto di governo, messa a punto per ora nelloscurità della notte e al riparo da ogni streaming– solo per consentire la sovrana consultazione dei due popoli che si aggregano sotto le opposte bandiere, provvisoriamente abbracciati in una bozza di contratto, suppongo molto dettagliata come ogni contratto che si rispetti,  da porre in esecuzione, una volta approvata, nei cinque anni della legislatura appena cominciata. Un tempo felice, dunque, per la vera democrazia dal basso, un tempo non ancora avvenuto ma in corso di operosa preparazione; alla nostra portata, temo.
Ma, forse, qui la notte (che avvolge tutto nel buio) non è solo quella dei nostri tempi che scorrono lenti per definire un accordo diametrale (come dicevamo laltro giorno, fra Nord e Sud, fra meno tasse e più spesa, fra lavoro e pensioni); un accordo che poi darà luogo alla fiammata ordalica della verifica (gazebica o retale) sulle infuocate basi di riferimento.
Temo invece che, al di là del contingente, siano più larghi i confini della notte, secondo il lucido sintagma (linganno consapevole delle pubbliche opinioni) usato qualche giorno fa dal nostro Presidente della Repubblica, al convegno Fiesolano  sullo stato dellUnione Europea, con caustico riferimento allandazzo dellofferta politica corrente in diversi paesi europei ma da noi soprattutto. Non saràun leader trascinante, ma Mattarella, vivaddio!, quando parla sceglie con cura le parole che usa; e questo colpisce, specie in un tempo di tanto libere interlocuzioni (come dicevano i socialisti di quasi due repubbliche fa). E certamente non è consolante per i titolari di questa offerta vedersi intestato questo giudizio (linganno consapevole delle pubbliche opinioni), che mi pare va ben oltre i confini delle singole aggregazioni politiche, per coinvolgere lintero costume democratico dei nostri tempi iper-comunicativi, nei quali la confezione finisce per contare assai più del prodotto; anzi, tanto da diventare essa stessa il prodotto. Rifacendo il verso a Marshall McLuhan potremmo dire lincarto è il prodotto.
Ma, ed è qui il senso di questa riflessione, mi pare anche che non ci sarebbe inganno consapevole che tenga se la pubblica opinione (la destinataria dellingannevole offerta politica) coltivasse il gusto di una sua dignitosa riflessione realista; se cioè le nostre pubbliche opinioni fossero in grado di sviluppare un pensiero critico e sanamente scettico (la democrazia critica, direbbe Zagrebelsky), quale era una volta, forse, quello che nasceva da una comunicazione meno ansiosa di servaggio e più conscia del suo servizio alla ragione.
Insomma: linganno consapevole delle pubbliche opinioni richiede un ingannatore ed un ingannato; sarebbe tragico se entrambi volessero essere fino in fondo consapevoli del loro ruolo (un ingannatore consapevole di voler ingannare e un ingannato consapevole e contento di esserlo). La notte degli imbrogli non finirebbe mai; e i suoi inutili esiti non muterebbero il destino che ci attende.
Roma 16 maggio 2018 (di prima mattina, senza previa lettura dei giornali)




venerdì 11 maggio 2018

Nuovi metodi

Studiare con fede
(di Felice Celato)
Studiare con dubbio e agire con fede: così una volta (altri tempi, per carità!) si insegnava agli uomini d’azione (politici o manager che fossero). Credo che la frase fosse di Adriano Olivetti (e quindi forse pensata per i manager); ma, in fondo, essa riecheggia il celebre ammonimento di Luigi Einaudi ai politici: conoscere (con tutte le fatiche e i dubbi che il conoscere comporta) per deliberare (con tutta la necessaria determinazione attuativa). Del resto l’azione (sia essa del politico che non voglia restare un cialtrone, o del manager che voglia guadagnarsi quello per cui è pagato) è la sintesi attiva di un percorso che  parte da un’infinita serie di dubbi sul da farsi; dubbi che vanno coltivati (dubium initium sapientae, diceva, mi pare, Cartesio) e affrontati, uno per uno, per discernere (direbbe sant’Ignazio), setacciare, vagliare e anche isolare ciò che può impedirci di fare scelte responsabili. Certo – sarà capitato a molti di noi – si può rimanere nei dubbi (non liquet, dicevano i Romani) e quindi, in coscienza, non prendere alcuna determinazione all’azione: se l’azione è procrastinabile; in fondo la formula delibero di non deliberare l’abbiamo inventata noi, magari, talora, come supporto all’inerzia! Ma spesso, malauguratamente, l’azione, procrastinabile non lo è; e l’uomo d’azione deve riconoscere che l’urgenza del fare gli impone un rischio aggiuntivo, da gestire (ovviamente) con tutte le prudenze del caso e secondo le tecniche appropriate.
Così, come dicevamo all’inizio, in altri tempi.
Oggi ha campo l’esortazione opposta: studiare con fede ed agire con dubbio.
Che vuol dire? Vuol dire prendere una serie di assunti, i propri saldi pre-giudizi (o gli altrui diffusi pre-giudizi, se politicamente paganti), e poi cercare di cacciare la realtà, a forza, all’interno di essi. Del resto la recente campagna elettorale (in sé destinata a  presentare ai cittadini ciò che si è studiato, progettato per la società e il Paese) trasudava di fede: nelle analisi, nelle prospettive, nelle azioni promesse. Poiché però non sempre la realtà si presta ad entrare, alla fine, nella forma prestabilita (quella che si vuol dare studiando con fede), allora ci si tiene la possibilità di, poi, agire con dubbio! Per bilanciare “praticamente” lo studio “sforzato”, s’intende; perché quelli che studiano con fede detestano le asperità della realtà, preferiscono gli slogan e si affezionano tanto ad essi che, semmai, si riservano di, poi, aggiustarsi lungo il percorso, piegando l’azione alle più acrobatiche giravolte (tanto, diceva qualcuno, col passare del tempo nessuno si ricorderà per che aveva votato e, chi è stato votato, a che diavolo pensava quando aveva promesso); del resto per queste acrobazie c’è pronto un titolo nobile: sano pragmatismo, per la verità non disprezzabile principio di politica. 
E allora eccoci arrivati ai possibili papocchi, dove occorrerà riuscire a mettere in un unico canestro fedi antitetiche, la riduzione delle tasse con l’aumento delle spese, il Nord con il Sud, la “tolleranza” per l’euro con l’intolleranza per le regole che presuppone, il sovranismo con la faticosa professione di europeismo, etc. 
“Conforta”, peraltro, leggere, come forse voleva dire Cerasa su Il Foglio di ieri, che a livello di sottostanti “emozioni” dei rispettivi elettorati, esiste – ripeto: forse – una vasta coincidenza di magmatici sentire, di appassionate verbigerazioni su molti temi (Europa, mercati internazionali, immigrazione, conti pubblici, giustizia, stato di diritto, apparentamenti internazionali, etc), come è facile che accada quando c’è – questa sì – coincidenza di metodo nella promozione e nel dragaggio del consenso. 
D’altra parte, queste coincidenze (nei sentire e nel metodo) sembrerebbero promessa di coesione e stabilità, cose non inutili (come sempre abbiamo proclamato); ovviamente finché il conseguente agire con dubbio riesca a tenere insieme l’azione dei partiti che si apprestano a diametralmente (Nord-Sud, tasse-spese, lavoro-pensioni) associarsi nel governo del paese.
Ci piace o non ci piace questa prospettiva? Credo che sia abbastanza irrilevante: forse è meglio del votismo. E soprattutto del votismo in costume da bagno.
Majora premunt, dicevano i Latini per dire che cose più importanti si affacciano a distoglierci da ciò che stiamo facendo o pensando; e fra queste majora ce ne sono di decisive per il futuro della baracca. Per quanto, magari, alcune di esse siano state studiate con fede, non ci resta che sperare che l’agire con dubbio, poi, ci protegga dal peggio. Di meglio, per sperare, non vedo. I tempi sono senz’altro interessanti, come direbbero i cinesi.
Roma 11 maggio 2018


martedì 8 maggio 2018

Stupi-diario del votismo

Il popolo nuovo al voto
(di Felice Celato)
Dottò, arivotàmo? Ma si arivotàmo, arivotàmo come votassimo! O no? Lei che dice, dottò?” mi fa – non senza buonsenso – il solito tassista romano (N.B. per i non romani: votassimo, in romanesco, non è l’imperfetto del congiuntivo – del resto, qui da noi, caduto in totale disuso –  bensì la prima persona plurale del passato remoto, ma spesso anche – per brevità – del passato prossimo, del verbo votare; esempio: ier sera ce magnassimo ‘na pizza, ovvero: ieri sera abbiamo mangiato una pizza).
Da questa saggia domanda, durante tutto il percorso è nata una serie di divagazioni mentali sul nostro presente. Anzitutto non è detto che da qui al prossimo luglio non vengano fuori altre argomentazioni per attrarre nuove porzioni di  popolo nuovo che aspira al potere “redistribuito dal basso”; per esempio potrebbe venir fuori la promessa, politicamente articolata con dovizia di argomentazioni, di rendere meno calde le estati italiane ridistribuendo il calore durante tutto l’anno; in fondo il popolo nuovo ha fatto sapere, in rete, che a luglio si boccheggia; e poi col calore redistribuito si genererebbero forti economie nelle spese di riscaldamento; e col “tesoretto” (immancabile!) generato da queste economie si potrebbe finanziare il buy-back (perché non si dica che il popolo nuovo non conosce l’inglese!) di parte del debito pubblico, anche per sfatare la diceria elitaria che al popolo nuovo del debito pubblico non interessa un fico secco. E questo impiego del tesoretto dissiperebbe anche il luogo comune  (sempre diffuso dalle élites) che al popolo nuovo nulla importa nemmeno dei vincoli europei (comunque, sia chiaro, da sottoporre a referendum, magari in autunno).
Poi, la scelta bizzarra di votare col solleone potrebbe essere supportata da una serie di buone ragioni: si risparmierebbero diversi giorni di chiusura delle scuole, anche qui sfatando il mito delle élites secondo il quale della cultura, al popolo nuovo, pure non interessa alcunché. Inoltre, per rendere più gradevoli (ed invitanti) le operazioni di voto, combattendo così l’assenteismo, si potrebbero organizzare dei seggi di spiaggia, magari incentivando i nostri produttori di ombrelloni (una risorsa produttiva che tutto il mondo ci invidia!) a mettere sul mercato appositi ombrelloni-seggio; e non v’ha chi non veda come questi incentivi potrebbero sostenere una vigorosa ripresa del PIL (l'idea di utilizzare le cabine adibite al cambio-costume è stata, invece,  scartata per motivi di decenza). Poi potrebbe essere consentito il voto in bikini (o in shorts per gli uomini, o meglio, per coloro che liberamente dichiarino di voler essere classificati come tali); ma con una limitazione (il popolo nuovo, quando ci vuole, sa anche essere severo!): niente creme solari! Perché ungono e potrebbero imprimere impronte digitali sulla scheda, mettendo a rischio la segretezza del voto (però, secondo altri, potrebbero anche consentire l’utile riscontro fra voti e intenzioni di voto dichiarate sulla rete; su questo punto delle creme solari – capirete bene – da qui a metà luglio ci sarà tempo per dibattere, magari studiando attentamente come disciplina la materia, in Russia, l’amico Putin; a proposito: auguri per il nuovo mandato!).
Alla luce di tutte queste considerazioni, mi sono sentito di rassicurare il tassista saggio: eh! Vedrà quante cose nuove verranno fuori da qui a luglio!
E lui: Ah dottò! Che me vò pijà in giro?(l’espressione è stata però più colorita, NdR) Seconno me ce vònno levà pure le ferie!

Dovere di rettifica
Con riferimento al post Ammonizione ed apologia del 28 aprile u.s., sento il dovere di rettificare un’asserzione ivi contenuta, risultata – ad una più aggiornata verifica – quanto meno carente. Laddove affermavo, infatti, che ormai solo quattro argomenti mi scaldano la mente o anche il cuore (le percezioni infondate e le opinioni scontate; il politically correct; il degrado antropologico del nostro paese, e la insopportabile banalizzazione del religioso) e, pomposamente, affermavo  Basta: il resto non mi scalda più, avrei dovuto aggiungere, pro veritate, una quinta fonte di sdegno: l’antisemitismo nelle sue varie espressioni, ivi compreso l’antisionismo.
Mi scuso coi lettori per l’involontaria omissione, fortunatamente accertata nel week-end. Se i motivi di sdegno dovessero nel prosieguo del tempo aumentare, autorizzo fin d’ora a chiamare la neuro: cinque ricorrenti motivi di sdegno sono già abbastanza per una persona sana di mente.
Roma 8 maggio 2018


domenica 6 maggio 2018

Tempo di inventari?

Tira giò la clèr
(di Felice Celato)
Tira giò la clèr”, pare si dica a Milano per dire “chiudi bottega”.
Mi pare che questo – in tragica metafora – si intenda fare in Italia: il “garante” del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo,  ha rilasciato l’altro giorno a Putsch (un mensile  francese, ampiamente citato da Il sole 24 ore ma, curiosamente, non dal Corriere della sera) un’intervista nella quale riprende il tema dell’Euro (o della “zona Euro”): Ho proposto un referendum per la zona Euro. Voglio che il popolo italiano si esprima. Il popolo è d’accordo? C’è un piano B? Bisogna uscire o no dall’Europa?...In seno al Movimento 5 stelle abbiamo riflettuto su 7 punti come il Patto di bilancio europeo, l’eurobond, l’euro-obbligazione o la condivisione del debito. Se siamo un’unione di paesi, dobbiamo condividere. Perché ci sono due economie, quella del Nord e quella del Sud. E noi, gli Italiani, siamo nel Sud….
Continuo ad attingere da Il sole 24 ore (edizione on line del 4 maggio) le tesi del “garante” (“uno spirito libero” commenta Di Maio, che è uomo d’onore, come direbbe il Marc’Antonio di Shakespeare): Noi non vogliamo governare, noi vogliamo dare alle persone gli strumenti per rappresentarsi da sole…Con la nostra “Rousseau” si fa un referendum ogni settimana senza dover raggiungere un quorum. Vuoi fare un ponte, un asilo, una pista ciclabile? Sì o no? Vuoi eleggere questo qui? Sì o no? Se ci danno i mezzi per farlo, non abbiamo bisogno del potere. Il potere deve essere redistribuito dal basso. Questo è il Movimento 5 Stelle.
Se questa è l’aria che tira nel nostro Paese (come è lecito dedurre dall’innegabile successo elettorale del partito di cui Grillo è il “garante” e non ostanti le diverse rassicurazioni elargite dal “candidato Premier” Di Maio durante queste 9 settimane e mezza di chiacchiere), facciamo come dicono i Lombardi, tiriamo giù la serranda e prendiamoci una vacanza….finché è lecito.
Oppure – forse è meglio e anche meno triste – facciamo come i commercianti romani che la clèr (forse dal francese claire, per dire griglia) la tirano giù a metà, quando fanno gli inventari: i clienti non entrano e gli addetti alle vendite sì, passando sotto la saracinesca, per lavorare a fare l’inventario delle merci a fine stagione. Facciamo l’inventario anche noi, come i commercianti a fine stagione, passando sotto la seracinesca: cosa ci resta per riprendere le nostre attività? Cosa dobbiamo radiare come magazzino invenduto o invendibile, perché passato di moda o rovinato dal tempo, da collocare a bassissimo prezzo, solo per sbarazzarcene (per “svenderlo” come direbbe un sindacalista un po' fesso)? Sarà poco quello che ci resta, bisognerà pure rifare magazzino, ma – porcaccia la miseria! – ci sarà pure qualcosa per la quale vale la pena riaprire a tutta luce la clèr! O no? Sì o no?, direbbe il popolo di Grillo (senza dover raggiungere un quorum)? Se no, vabbè, tiram giò la clèr e buonanotte al secchio!
Roma, 6 maggio 2018




sabato 5 maggio 2018

Letture

…..nostalgiche
(di Felice Celato)
I lettori di questo blog sanno bene del culto di chi scrive per Alessandro Manzoni; e dunque non si meraviglieranno se oggi, 5 maggio, mi è tornata in mente una poesia sepolta nei ricordi di liceo e forse lì trascurata (magari per la sua metrica troppo scorrevole) o non appieno compresa, come solo con l’età – e pure tarda – si può fare. Il cinque maggio, come tutti sanno, è un’ode che Manzoni dedica alla morte di Napoleone; o meglio: alla gloria e alla morte di Napoleone, l’imperiale oppressore sconfitto che… i dì nell’ozio chiuse in sì breve sponda, a sua volta oppresso dall’onda dei drammatici e gloriosi ricordi (dei dì che furono l’assalse il sovvenir! e ripensò le mobili  tende, e i percossi valli, e il lampo dei manipoli,  e l’onda dei cavalli, e il concitato imperio,  e il celere ubbidir.).
In qualche modo come negli Inni sacri, Manzoni recupera un fatto della storia umana o religiosa (lì il Natale, la Resurrezione, la Passione, la Pentecoste, qui la morte di Napoleone,) per una meditazione di natura poetica sulle vicende umane (la procellosa e trepida gioia d’un gran disegno, l’ansia d’un cuor che indocile  serve pensando al regno;  e il giunge; e tiene  un premio ch’era follia sperar; tutto ei provò: la gloria  maggior dopo il periglio,  la fuga e la vittoria,  la reggia e il tristo esiglio: due volte nella polvere, due volte sull’altar), sulla loro ambiguità (Fu vera gloria?) e sulla precarietà della loro consistenza che la fede (bella immortal, benefica fede ai trionfi avvezza!) sfuma pietosa (…valida venne una man dal cielo, e in più spirabil aere  pietosa il trasportò)  e dolcemente cancella  (e l’avviò, pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al premio  che i desideri avanza, dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò.).
In questi tempi di piccole imprese e di accesi rancori, il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola guardi con pietà alle vicende di questo mondo afflitto da tanti nani travestiti da Napoleone.
…..e polemiche
(pertanto, sempre di Felice Celato)
Lo dico subito prima che si innalzino, potenti, gli sdegni dei miei lettori più…. benpensanti ed ortodossi: il breve libro (un centinaio di pagine) che mi appresto a segnalare contiene qualche semplificazione di troppo e anche qualche banalizzazione non necessaria (e magari irritante). Ma, Nati per la libertà – L’inutile tentativo di sopprimere lo spirito umano di Louis E. Carabini (IBL libri, 2018, ebook) è una vera miniera di argomenti utili per confondere (se mai fosse necessario) gli statalisti, regolamentazionisti, iper-dirigisti che sognano (sotto ogni latitudine ma da noi diffusamente) di poter spremere benessere dalle regole e dalle intrusioni. C’è evidentemente una componente vagamente provocatoria in alcune delle argomentazioni di Carabini; ma, vivaddio!, nello stagno del politically correct statalista e noioso, un agitatore di acque morte ogni tanto non fa male.
Per questo mi sento di segnalare questa lettura che ha anche (per i più digiuni di economia) il pregio di semplificare (talora ostentatamente ma sempre efficacemente) la percezione delle dinamiche economiche che governano il mondo e le nostre società.
Aggiungo: si tratta di una lettura estremamente piacevole; ha qualche anno (è stato pubblicato dal Ludwig von Mises Institute nel 2008 e solo recentemente tradotto in Italiano) ma lo dimostra solo in qualche statistica datata, del resto facilmente aggiornabile.
Per dare un’idea dell’aria che tira in queste cento paginette (e della loro straordinaria attualità per i flosci italiani) mi limiterò a tre brevissime citazioni: (1) La ricchezza è sempre limitata da quello che si produce e la prosperità di una comunità è limitata dalla somma della produzione di ciascun componente. (2) Le regolamentazioni possono costituire un ostacolo alla libertà e alla prosperità maggiore della tassazione. (3) Molti credono che lo Stato possa miracolosamente fornire prosperità a tutti semplicemente creando e distribuendo ricchezza. La gente considera lo Stato come la fonte di “pasti gratis”: la manna dal cielo…. Nel mondo reale, qualcuno deve lavorare per fornire e pagare tutti i benefici gratuiti che gli altri ricevono: e quel qualcuno non è lo Stato.
Già da queste poche righe si sarà capito il perché della segnalazione.
Roma 5 maggio 2018 (duecentesimo anniversario della nascita di Carlo Marx)









giovedì 3 maggio 2018

Conversazioni asincrone

Alfie Evans e altro
(di Felice Celato)
Abbiamo tutti, chi più chi meno, seguito, con passione e pietà, la triste vicenda del bambino inglese, Alfie Evans, appunto, gravemente malato, sottratto, purtroppo dalla morte, alle incerte cure e anche all’infelice ruolo di simbolo di una specie di contesa ideologica fra diritti dei genitori (alla speranza contro ogni speranza) e pretesa dello stato (alla ragione della incuranda incurabilità).
Così delicata (e penosa) è la vicenda che mi era parso bene nemmeno entrare in argomento, viste le ampie polemiche (non sempre commendevoli, per la verità) che ha suscitato, anche in ambito strettamente cattolico. C’è però uno spunto del tutto autonomo (ancorché correlato) che, in questi tempi di preoccupazione per il futuro della liberal democracy, mi pare giusto considerare sotto il profilo del mero principio: il rapporto fra il diritto di un individuo e l’interesse dello stato, in un contesto che si vorrebbe (almeno da me) quanto più liberale possibile. 
Lo spunto, non giuridico-costituzionalistico ma semplicemente politico-culturale, è venuto fuori da un’osservazione estremamente acuta sollevata da uno dei miei abituali sparring partnersrivendicheresti -mi domanda l’amico - con lo stesso slancio  il diritto alla libera determinazione dei genitori nei confronti dello stato se la materia non fosse la cura di un probabile inguaribile ma, invece, il rifiuto – per motivi religiosi – di autorizzare la trasfusione di sangue su un figlio non altrimenti guaribile? 
In principio, così posto il tema, mi verrebbe naturale essere estremamente restrittivo: lo stato non deve ingerirsi nelle determinazioni dell’individuo (per sé o per un suo figlio) quando esse non ledono diritti individuali di altri, essendo primario (se non esclusivo) dovere dello stato garantire la libertà di tutti (cittadini, umani, attuali e futuri); e quando non ledono interessi collettivi selettivamente ritenuti degni di superiore tutela.
E poi, più radicalmente, (ed è forse questo il problema nel caso dei genitori di Alfie), esiste un diritto alla speranza? E se sì, lo si può (anzi lo si deve) tutelare sempre o solo finché non confligga con uno specifico interesse collettivo (per esempio: quello a non “sprecare” risorse per perseguire disperate speranze)?
Di diritto alla speranza, non ho mai sentito parlare nemmeno ai tempi dei miei lontanissimi studi universitari (anche se, credo, se ne sia discusso a proposito della pena dell’ergastolo); ma la speranza mi pare così coessenziale al vivere umano che ben difficilmente la vita dell’uomo potrebbe pensarsi prescindendo da essa. La  Chiesa, eterna maestra di umanità, ha individuato chiaramente (prima ancora di occuparsi della Speranza come virtù teologale e co-essenza della fede) questa dimensione essenziale dell’umana esistenza: Ogni agire serio e retto dell'uomo è speranza in atto (cfr. Spe salvi, 35).E dunque non dovrebbe essere difficile riconoscere che ogni uomo reca in sé (per natura, direbbero i contestati giusnaturalisti) il diritto di sperare (che, quindi, lo stato avrebbe il dovere di tutelare). Ma anche quando la speranza confliggesse con la ragione? 
Sì, mi verrebbe di rispondere, perché non è lo stato che può tutelare la ragione, nel senso che si poterebbe paradossalmente immaginare anche il diritto all’irragionevolezza; purché ovviamente esso non confligga con altrui diritti; e purché non sacrifichi altri interessi collettivi selettivamente ritenuti degni di superiore tutela, come sarebbe – nell’ approccio dello stato inglese sulla vicenda Alfie – l’interesse collettivo alla corretta allocazione delle risorse (per definizione scarse) della comunità. L’ interesse collettivo, d’altronde, non entrerebbe nemmeno in gioco se  le cure disperate fossero sostenute da altri rispetto allo stato stesso, come ad un certo punto si era prospettato, più o meno confusamente, per Alfie.
E dunque, amico mio, alla luce di queste considerazioni mi sentirei di confermare lo slancio col quale, quando ne abbiamo parlato, mi era parso di poter invocare il diritto alla libera determinazione dei genitori (nel caso di specie) nei confronti di uno stato che volesse sovrapporre ad esso le sue ragioni, a questo punto (se fosse venuta meno anche quella della tutela della corretta allocazione delle risorse) meramente ideologiche.
Il caso delle trasfusioni che tu acutamente sollevi è diverso, nemmeno troppo sottilmente, però: qui c’è un diritto individuale dei genitori alla libera formazione (anche religiosa) dei propri figli, diritto da tutelare, secondo noi (veri) liberali; però, finché non confligge con la tutela del diritto individuale alla vita del figlio minore, che non è – ovviamente – nella disponibilità dei genitori stessi. E non c’è dubbio che se fra i due diritti individuali si determinasse un conflitto, lo stato avrebbe il dovere di tutelare quello maggiore (il diritto alla vita, ovviamente), imponendo la trasfusione.
Roma 3 maggio 2018