lunedì 28 maggio 2018

Spigolature dei giorni tristi

(di Felice Celato)
Dalle cronache un po’ sgomente di questi giorni, estraggo due parole “correnti”:

Sovranità
Da bocche sudate ed ansimanti, è uscita più volte una parola nuova ed antica; nuova nei sensi che oggi le si attribuiscono, antica nel suo storico significato: sovranità. E più volte, nei commenti a caldo sull’imprevista caduta del tentativo di governo, la si è invocata e rimpianta nella domanda: ma l’Italia è un paese a sovranità limitata?
La mia risposta è semplice: sì, per fortuna.
Perché sì: perché l’Italia si è data nel tempo dei limiti alla sovranità, cioè alla sua capacità di autoregolamentarsi. E questi limiti sono interni ed esterni: quelli interni sono stabiliti dalla Costituzione che, solo per fare un esempio banale, vieta leggi discriminatorie (art 3); perciò, sempre per fare un esempio, l’Italia non potrebbe stabilire che gli uomini “valgono” (giuridicamente) più delle donne, o viceversa. Si dirà: ma la Costituzione può essere cambiata! Verissimo, con le procedure che sono proprie per questi cambiamenti e quindi esplicitamente e non surrettiziamente; e nemmeno tutta, la Costituzione, può essere cambiata (s’intende: pacificamente) perché, ad esempio, l’art 139 della stessa nostra Legge fondamentale prevede che la forma repubblicana non può essere soggetta a revisione. Poi ci sono i limiti esterni, che il popolo Italiano ha accettato di far suoi (art 11 della Costituzione: L'Italia..... consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad uno ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.); ad esempio, i Trattati  dell’Unione Europea che - beninteso - possono essere denunciati e rinunciati (come sta facendo l’UK con la famosa Brexit) sempreché questo avvenga con le procedure che sono proprie per questi cambiamenti e quindi esplicitamente e non surrettiziamente. E fra questi trattati ci sono quelli sugli impegni di bilancio e sulla sovranità monetaria (cioè il diritto di “battere moneta”), la quale ultima l’Italia ha deciso di trasferire all’ Unione, che la esercita tramite la BCE al cui vertice, fra l’altro, siede ora un Italiano e, per di più, una persona di sicuro valore.
E dunque l’Italia - come molti altri, fra cui la Germania (che ha addirittura esplicitato costituzionalmente il progetto di un Europa unita e delle correlate cessioni di sovranità) - è un paese a sovranità limitata.
E, dicevo, questa è una fortunata circostanza, per molti motivi fra i quali vale la pena di soffermarsi su uno, quello correlato alla sovranità monetaria e finanziaria che l’Italia ha esercitato in proprio finché vigeva la lira italiana. Basti pensare che nei suoi 54 anni di vita post-bellica (1947-2001) la lira ha perso mediamente il 7% all’anno del proprio potere d’acquisto e, nello stesso periodo, il rapporto fra Debito Pubblico e PIL è passato dal 28 al 104%! 
Si dirà: vuoi forse dire che siamo incapaci di governarci, magari facendo il verso a Mussolini che diceva “governare gli Italiani non è difficile, è inutile”? No, non direi tanto, ma il fatto è che ascoltando molte delle promesse elettorali mi sono convito che sia proprio bene che non abbiamo noi la  mano libera sul rubinetto, su certe materie.

Spread
Non posso nascondere lo sdegno che mi suscita l’affettata ignoranza sul “famoso spread”; affettata perché in fondo è un concetto talmente semplice che non può non essere alla portata anche dei cervelli meno attrezzati culturalmente, quand’anche fingano di ignorarlo: lo spread (nell’accezione che qui interessa) è il sovrapprezzo che si paga sui denari presi a prestito per compensare il maggior rischio che un investimento comporta rispetto ad analoghi investimenti disponibili sul mercato. Non è accettabile che eletti o giornalisti fiancheggiatori di questa o quella fazione facciano sussiegosa mostra di voler ignorare questo concetto, in un paese che ha 2.300 miliardi di debito (una crescita di 100 punti dello spread solo sulle emissioni di un anno varrebbe più o meno 3 miliardi all’anno di maggiori interessi da pagare); e in un paese i cui cittadini ed i cui imprenditori hanno mutui ed altri debiti regolati a tassi che in qualche modo (sarebbe lungo qui spiegare in che modo) riflettono tale sovrapprezzo. Sarebbe come se un cronista di calcio snobbasse il concetto di fuori giuoco, solo perché gli appare un po’ complicato da spiegare (più assai del concetto di spread per la verità).
Roma  28 maggio 2018 ( sempre en attendant Godot, la Terza Repubblica, quando ogni lacrima sarà asciugata)

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