lunedì 29 agosto 2016

L'invariabile post-terremoto

Vita normale
(di Felice Celato)
Riprende, nonostante tutto, la vita normale, almeno per noi che siamo lontani dall’epicentro. Dopo un inizio d'estate satanico (Nizza, e non solo) è arrivata anche la tragedia dell'alta valle del Tronto, i morti, le distruzioni, i soccorsi, e poi "i fascicoli", le prediche dei geologi, i "l'avevo detto, io!", i nuovi propositi e le vecchie polemiche, l’immancabile inno nazionale alla "flessibilità". Insomma: l'Italia e gli Italiani di sempre, con qualche fondato vanto per l'efficacia e l'umanità dei soccorsi ai terremotati ma anche qui, in fondo, con nulla di nuovo, nemmeno nel piccolo bene. Qualcuno intravvede in filigrana (o semplicemente spera), come esito della scossa emozionale, il nascere di un nuovo senso di solidarietà politica e si affretta a coglierne il significato in prospettiva futura o, magari, solo angustamente referendaria; qualche altro, però, getta acqua sul timido fuoco  e, insieme, benzina sulle fiammelle sempre accese delle divisioni, che da noi funzionano sempre a dovere.
Sui giornali, ormai a qualche giorno di distanza dal sisma, recuperano via via spazio i temi di sempre: Alesina e Giavazzi con qualche einaudiana “predica inutile”; Olimpiadi sì, Olimpiadi no; monnezza sì, monnezza no;  la legge di stabilità; i conti che non tornano perché le nostre previsioni di crescita ormai da vent’anni sono sempre superiori ai nostri consuntivi; il debito che non cala perché il PIL non cresce a sufficienza e perché c’è sempre un buon motivo per essere….come si dice? ah!  “flessibili”(non mi veniva la parola, mi pareva “furbi”); gli “appalti”, un antico contratto da noi trasformato in reato e fors’anche in peccato, comunque in un’infamia; la Juve favorita, la Ferrari sfortunata; la Procura di Milano a rischio di declino, “perché mancano i mezzi” (ci sono solo “interi”); i conservatòri (che, naturalmente, tutto il mondo ci invidia) al tramonto. Per fortuna c’è la festa dell’Unità (intesa per tale - paradossalmente - quella del giornale del PD) dove Orfini (Orfini, chi era costui? direbbe don Abbondio) attacca D’Alema che tutti invece ricordano chi era (anzi, chi è); e poi – pare – le piogge previste a settembre promettono funghi!
Sarà l'età, sarà il fastidio del ritorno ai ritmi consueti di vita, sarà il caldo perdurante, sarà la gran voglia di rigenerazione, sarà qualcosa di questo o un po’ di tutto, ma mi pervade un senso di noia, di dejá vu, di usurato, di soffocante. O forse è solo l’effetto della polvere che ancora è nell’aria lungo l’ancora instabile valle del Tronto, in fondo un luogo della mia giovinezza.
Mi viene in mente un altro terremoto, un terremoto che, quella volta, fu anche un grande annuncio: dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba. Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte. L’angelo disse alle donne: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocefisso. Non è qui. E’ risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: ‘E’ risorto dai morti, ed ecco vi precede in Galilea; là lo vedrete’. Ecco, io ve l’ho detto”. Mt. 28, 1-7.
Forse non è il terremoto che mi ha fatto tornare in mente questo passo; ma solo quello che annunciava, perché c’è tanta voglia di risurrezione. Oggi come sempre, del resto.

Roma 29 agosto 2016

venerdì 26 agosto 2016

Terremoto

L'alta valle del Tronto
(di Felice Celato)
Pur non avendone vissuto direttamente alcuno - per mia fortuna -  se non per manifestazioni periferiche di fenomeni lontani, sono portato a credere che il terremoto sia una delle esperienze più terrificanti che possa capitare di vivere.
Il fatto che la terra – da sempre il luogo solido che sta sotto i nostri piedi e, allo stesso tempo, la metafora del nostro radicamento nel mondo – possa, per invisibili moti interni e fra cupi boati che salgono dal profondo, oscillare fino a radere al suolo ogni traccia delle vicende umane e naturali che si svolgono sulla sua superficie, non può che lasciare sconvolti - credo - chi, per sua sventura, se ne trovi al centro e ne abbia dovuto assaporare fino in fondo il senso di impotenza che suscita. E lo sciame di polvere e di dolore che segue alle scosse più vigorose, da sempre, inquieta chi (come me) si ostina a credere che la nostra vita in qualche modo sia osservata da Chi è in grado di coglierla dall’alto e da dentro; e da Chi conosce anche le viscere della terra dalla quale ci ha estratto. Eppure, come sempre, il dolore innocente del bimbo travolto dalle macerie ci interroga sull’occhio di questo Osservatore non disinteressato: dove stava volgendo lo sguardo?
Non si sa (state contenti, umana gente, al ‘quia’, chè se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria. Dante, Pg. III,27). Nè si saprà mai perché, anche se Glielo abbiamo chiesto tante volte, immaginando e temendo una triste giustizia (…oppure quei diciotto, sui quali cadde la torre di Siloe e li uccise, credete che essi fossero più debitori di tutti gli uomini che abitano a Gerusalemme? No, vi dico…Lc 13, 4-5); ma il terremoto ci pare comunque un act of God, anche se è solo un banale assestamento del suolo, perché la scia di distruzione e di morte che porta con sé esprime plasticamente la piccolezza dell’uomo, la fragilità del suo destino e la precarietà del suo star ritto sulla terra.
Il giorno dopo, quando la televisione del dolore è già diventata quella delle accuse e l’act of God un “fascicolo” aperto in qualche procura, ci restano, negli occhi di questi ultimi giorni d'estate, le macerie, i pochi pianti, la mano adagiata sul collo del soccorritore dell’ultima bambina estratta (viva!) da sotto le pietre, la bellissima alta valle del Tronto diventata un cimitero, i volontari e i pompieri che scavano, i giornalisti che vagano fra le pietre.
Roma 26 agosto 2016


lunedì 22 agosto 2016

Letture estive

Sulla via del ritorno
(di Felice Celato)
Per re-integrarci definitivamente nell’affannoso clima che ci attende in questo residuo scorcio dell’anno, eccomi qua a rendervi conto di due letture estive di un certo impegno, “prescrittemi” da un amico, affettuosamente e seriamente preoccupato dalle mie “scandalose” derive anti-statolatriche, anzi, per abusare di parole inventate, decisamente stato-steniche.
La prima lettura è un lungo testo di Mariana Mazzuccato (Lo stato innovatore, Laterza editore, 2014) che muove da un’affermazione che è difficile non condividere: il ruolo determinante (per la crescita in ambiente competitivo) della ricerca e dell’innovazione. E sostiene, in estrema sintesi, che, per la natura dei rischi che l’investimento in innovazione comporta e per la tipologia di esigenze finanziarie che pone (i capitali pazienti), l’innovazione abbia bisogno dello stato, perché né la natura dei rischi né i tempi di ritorno sono compatibili con le aspettative di un imprenditore. E, infine, descrive una serie di interessanti esempi di come anche le più prestigiose e celebrate imprese private (Apple, per esempio) si siano avvantaggiate in maniera decisiva non solo del supporto dello stato in alcuni passaggi cruciali della loro storia ma anche di tecnologie direttamente sviluppate dallo stato, specie in ambiente militare.
La seconda lettura è un libro del Premio Nobel Paul Krugman (The return of depression economics and the crisis of 2008, Norton editore, 2009), secondo me di grande suggestione intellettuale, sebbene non nuove siano le tesi che vi espone (di suo avevo già letto: Fuori da questa crisi, adesso! e Lo stato non è un’ azienda): le depressioni, come le guerre, sono i veri nemici della stabilità capitalistica; le esperienze fatte in tutte il mondo (anche qui la rassegna è ampia)  in occasione di depressioni locali o generali evidenziano spesso gli errori dei governi in termini tempestività e di efficacia dei rimedi che vengono posti in atto. Nella situazione in cui scriveva l’autore (siamo nel 2009, poco lontani dell’esplosione della crisi finanziaria ) i problemi sono (erano): (1) l’insufficienza quantitativa e qualitativa del credito (per crisi di fiducia e scarsezza dei capitali delle istituzioni finanziarie); e, (2) la scarsa propensione a spendere. Di qui la ricetta tipicamente Keynesiana: più capitali dello stato (anzi degli stati, coordinati fra loro) per sostenere  il credito e rassicurare i mercati in ordine alla tenuta delle banche; più spesa pubblica per stimolare l’economia.
Dico subito che, per quanto a diverso titolo  interessanti, le due letture si sono rivelate inadatte allo scopo “terapeutico” perseguito dal mio amico soprattutto per un motivo: entrambe muovono da un approccio economico e…lì restano; anzi, prevalentemente si focalizzano su esperienze, situazioni e problemi statunitensi, ai quali si ispirano le soluzioni che suggeriscono. E, anche in questa ottica, nemmeno contraddicono il mio assunto sulla necessità di confinare lo stato alle mere funzioni in cui è (assolutamente) insostituibile, siano queste lo stimolo alla innovazione (nel testo della Mazzuccato) o il soccorso ai mercati finanziari devastati dalla crisi del 2008 o lo stimolo fiscale (Krugman). Non sono infatti un fanatico liberista che nutra una fiducia sconfinata nella capacità di autoregolarsi del mercato; né, tampoco, sono un anarchico radicale (qui mia moglie avrebbe certamente da ridire su certe mie presunte tendenze anarcoidi, ma lasciamo perdere: l'aggiunta dell'aggettivo "radicale"dovrebbe far contenta anche lei!). Anzi, credo che il mercato abbia la necessità di essere efficacemente regolamentato da uno stato che sappia fare il suo vero mestiere (e che abbia voglia di farlo!). In realtà il nucleo delle mie convinzioni (faccio rinvio a quel che venivo dicendo, da ultimo, il 4 luglio u.s. nel post Letture liberali/2) muove da un’ottica che è - prima ancora che economica - culturale e sociologica e, per di più, riferita al nostro paese: noi abbiamo disperato bisogno di una frustata alle nostre pigrizie statolatriche, nelle quali, in Italia, ci siamo crogiolati per anni coi risultati che vediamo. Non usciremo da nessuno dei cerchi concentrici delle nostre crisi (vedasi post del 29 giugno u.s) senza un radicale cambiamento di mentalità e continuando ad adorare una divinità, da noi,  vecchia e dispotica, alla quale ci siamo tuttavia abituati perché per anni ha diffuso l’illusione che essa era, sempre, tutto per tutti.

Roma 22 agosto 2016

PS: Mi è stato detto che, quando cito precedenti post, sarebbe utile aggiungere il link. In realtà, senza appesantirci di troppi link, chi volesse rileggere qualche vecchio post, può farlo agevolmente accedendo, qui a fianco, all'Archivio blog e aprendo il periodo di suo interesse semplicemente facendo click sulla freccetta accanto all'anno o al mese de quo.

giovedì 18 agosto 2016

Saldi d'estate

Frammenti di pensieri
(di Felice Celato)
Indugiamo ancora in questa gradevole astensione dal pensiero che, quest’anno, mi pare il frutto più succoso della pausa estiva; merito, anche, delle Olimpiadi, che, nonostante il fuso orario, seguo attentamente fino alle ore piccole (come sanno tutti i miei amici io sono uno straordinario sportivo da divano, interessato a tutte le specialità, dal sumo al golf, passando ovviamente per il calcio; beninteso: oltre ad essere un flessuoso golfista!).
Di un paio di letture impegnative vi saprò dire presto (argomento: la politica e l’economia).
E dunque, per fare due chiacchiere distensive non ci restano che brevi frammenti di pensieri:
  • al funerale di un mio straordinario capo di tanti anni fa, giunto, ormai novantacinquenne, ad un sereno capolinea (come al solito in queste meste occasioni: molte nostalgie, un po’ di commozione, memorie, vecchi colleghi che ci paiono “straordinariamente invecchiati”, etc.; e anche qualche meritato requiem aeternam), ho sentito leggere un pezzo del quarto capitolo della seconda lettera di san Paolo a Timoteo che mi ha molto sorpreso perché proprio non lo ricordavo. Tutti (o quasi) abbiamo presente il bellissimo passo – appunto da questa lettera paolina – che si legge in quasi tutti i funerali dei credenti (ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede…). Ma pochi – scommetto – ricordano i due versetti che lo precedono e che - ho immaginato, per come conosco il mio capo appena defunto – forse proprio lui ha voluto che si leggessero al suo funerale, perché in tanto riflettono il suo modo di guardare al mondo di oggi: Verrà un giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole (II Tim, 4, 3-4). Forse ci siamo, hic et nunc.
  • Bene…pur di udire qualcosa ho ascoltato – stavolta divertito – gli esercizi di incongruità di due eminenti politici, uno italiano e uno francese. Cominciamo dal secondo: Manuel Valls, primo ministro francese, opina che il famoso burkini (il costume da bagno delle donne mussulmane osservanti) sia “incompatibile coi valori della Francia e della Repubblica”. Mi è venuto in mente che, me ne dolgo sinceramente, tante volte senza volere ho offeso la repubblica Francese, tutte le volte in cui ho fatto due passi sulla spiaggia in pantaloni corti (e fin qui va bene, anche per la Francia) ma, ahimè!, in camicia (e – lo confesso solo a voi – anche con sotto un’arcaica canotta, sia pure, per fortuna, ampiamente scollata). Chissà se Voltaire, Diderot e d’Alembert si saranno rivoltati nella tomba! Ma, chiedo scusa, ero rimasto nella convinzione che, in spiaggia, almeno lì!, ognuno ci va vestito come cavolo vuole, una volta che abbia rispettato le norme di decenza e sicurezza che regolano i rapporti fra gli uomini; a meno che – ovviamente – non si voglia sostenere che l’essenza della ossessiva laicità francese stia nel bikini.
  • Fortunatamente è intervenuto l’ottimo nostro ministro degli Interni – sempre fermo e saggio – a riportare l’equilibrio delle opinioni: Le nostre risposte, seppur dure, non devono mai diventare una provocazione potenzialmente capace di attirare attentati. Dunque, secondo questo saggio principio, sì al burkini ma – eh! L’aveva avvertito che le nostre risposte possono essere dure! – basta con le moschee fai da te che spuntano nel garage!  Lievi parole per pensieri pesanti. O viceversa?
  • Anche mons. Galantino – eh! Come poteva mancare? – ha detto la sua in materia: confesso che è la prima volta che non mi sento di criticarlo; e questo – credetemi – è per me motivo di grande soddisfazione.

A presto con le cose più serie (non ne mancherà occasione, temo)!

Orbetello 18 agosto 2016

giovedì 11 agosto 2016

Sineddochi

L'Eco delle letture
(di Felice Celato)
Visto che – temo – fra qualche giorno ci riprenderà (se non la voglia) almeno il fastidio di occuparci di cose serie e di cose Italiane (notate la strutturale non-coincidenza dei due ambiti), cominciamo ad avviarci, magari con approccio autoironico, partendo dal commento di un breve saggio (il taglio è quello di un lungo articolo di una dozzina di pagine) di Umberto Eco che forse era noto ai più ma che a me, invece, era sfuggito. Ho avuto l’occasione di conoscerlo su segnalazione di un blog di lettori che seguo di tanto in tanto e, devo dire, mi ha molto interessato: si tratta del saggio intitolato Ur-fascism(*), scritto da Eco nel 1995 per The New Yorker review of books [chi vuole leggerlo direttamente troverà – sotto – il link] emi pare di aver capito – poi incluso, in Italiano, nella raccolta di saggi Cinque scritti morali pubblicata da Bompiani nel 1997 col titolo Il Fascismo eterno.
Bene. E che dice, in estrema e brutale sintesi, questo saggio (fra l’altro godibilissimo, come molti degli scritti di Eco)? Dice, in sostanza, che il corrente uso generico del termine “fascista” per una serie di fenomeni politici (del novecento ma anche di oggi) certamente non del tutto omogenei fra loro (e l’esemplificazione che di ciò fa Eco è pure storicamente interessante) è un caso palese di sineddoche (ripasso per gli antichi scolari: figura retorica basata sull’uso di parole dal significato più o meno ampio di quella propria, ma a questa riferibili per essere una parte per il tutto – esempio: come prora per dire nave – ovvero il contenente per il contenuto – esempio: bere un bicchiere d’acqua – ovvero, ancora, la materia per l’oggetto – esempio: il ferro per la spada. Così il Devoto-Oli); una sineddoche, dunque, basata su un qualcosa (il fascismo) che – nella sua versione originale e prescindendo dalle sue tragiche conseguenze – era più retorica che pensiero, più confusione che ideologia, forse più folklore che sostanza.
E che cosa ha assicurato il successo di questa sineddoche? Non  tanto la priorità storica del fascismo (in fondo la prima dittatura di destra ad essersi impadronita di un paese Europeo); quanto piuttosto una serie di ricorrenti caratteristiche – magari fra di loro contraddittorie – di per sé non organizzabili in un sistema di idee ma sufficienti, per loro natura ed in differenti realtà, a far sì che ciascuna di esse richiami il coagulo del fascismo attorno a sé.
Ovviamente Eco fa poi un’ampia sintesi di tali caratteristiche,  spesso profetica (il saggio è di oltre 20 anni fa), che non è il caso qui di riassumere (dal culto della tradizione alla paura della diversità; dal rigetto della modernità all’appello alle classi frustrate; dal disprezzo per il debole all’antiparlamentarismo, a quello che Eco chiama il populismo selettivo; etc.).
Dove sta, allora, l’approccio autoironico annunciato all’inizio e che servirebbe a stemperare – siamo in agosto!– la serietà dell’argomento? Beh, sta proprio nella riflessione sulla sineddoche: confesso che anch’io, in certe materie, soprattutto in quelle macro-politiche, sono portato all’abuso della sineddoche: così sono portato a definire comunisti tutti i semplici statolatri che magari comunisti non sono; o tutti gli anti-americani preconcetti che magari sono solo…sud-americani; o tutti i cultori del politically correct moralista e bacchettone, che magari sono invece solo noiosi.
Forse, lo riconosco, è un abuso, che mi è consentito dalla pazienza dei miei amici e al quale ricorro sempre con un po’ di sorriso.
Però, vabbè, insomma, diciamolo, con imbarazzo ma diciamolo: per me – nonostante tutto  e in certe materie che attivano la mia estreme diffidenza – se vedo una prora mi aspetto sempre una nave, per stare all’esempio del Devoto-Oli!
Roma 11 agosto 2016, Santa Chiara (auguri a tutte le Chiare!)

Link

(*) Credo di aver capito che il monosillabo Ur si riferisca alla città di Ur dei Caldei, intesa come – appunto – prototipo perenne di città, di comunità organizzata.


P.S. Traggo dal saggio di Eco una fulminante citazione di Ionesco: Le parole sono le uniche cose che contano; il resto sono chiacchiere.