lunedì 30 settembre 2019

Stupi-diario di fine estate

Coi primi freschi….
(di Felice Celato)
Coi primi freschi – si sa – si dorme meglio e – quando non si hanno pensieri angosciosi – si fanno anche sogni…rinfrescanti. Di solito, come in tutti i sogni, i riferimenti al reale si fanno confusi e ciò che arriva ogni giorno ai nostri cervelli (o ai nostri cuori) si mescola in un onirico pot-pourri di divagazioni dal reale che costituisce spesso l’impalpabile sostanza del sogno; ma che talora fa anche sorridere.
Quasi che l’autunno incombente volesse dimostrarmelo, stamane mi sono alzato con la sensazione di aver vissuto, per un’ora notturna, in una gradevole dimensione sospesa fra i tangibili stimoli del reale e le provocazioni della fantasia, quasi come fossi caduto dentro ad un libro di Murakami. 
Provo a raccontarvi qualcosa di quel che mi pare di aver sognato: dunque mi trovavo in una città ideale che tendeva a riprodurre, in una mirabile sintesi spaziale, tutte le dimensioni dei miei interessi: c’era una chiesa, una bella piazza con una bancarella di libri, un po’ di gente, tutto come nel dipinto di Ambrogio Lorenzetti. Mancava solo il campo da golf (che del resto manca anche negli allegorici affreschi del pittore senese).
Su un giardino posto in lieve pendenza, a fianco della chiesa, sotto alcuni grandi alberi ombrosi, sul fare del mezzogiorno, sedevano, su comode sedie di vimini, niente meno che quattro papi (l’attuale, Francesco, l’amatissimo Benedetto XVI, San Giovanni Paolo II e il papa della mia giovinezza, Paolo VI), tutti nella loro migliore forma fisica, come se il tempo e le età si fossero fusi in un solo momento. In mezzo a loro, concentrati nell’ascolto, sedeva Greta Thunberg che, come Gesù nella Sinagoga di Cafarnao, li ammaestrava con sapienza, come una che ha autorità e non come gli scribi, sulla bellezza della natura e sulla perversione del progresso. E i quattro Pontefici ascoltavano come incantati (solo Benedetto aveva nei chiari occhi un che di ironico), mentre una vaga melodia saliva da un cespuglio dietro al quale – mezzo nudo – Pan (l’eterno che su l’erme alture / a quell’ora e nei pian solingo va)  suonava il flauto. Sullo sfondo, una processione di diafane ninfe, ventilanti col lor bianco velo.
Dal giardino in lieve pendenza, come per naturale spinta dell’inclinazione, per la verità in cuor mio dispiaciuto di allontanarmi da una scena tanto idilliaca, scendevo giù verso la piccola piazza, dove un’animata fila di persone si attardava davanti ad una cabina di legno, come quelle che una volta si trovavano sulle spiagge dell’Adriatico (e in qualche film di Fellini), dipinte di blu con strisce bianche; però, incongruamente, sulla cabina troneggiava un cartello, traboccante della rozza sciatteria di tutto ciò che fa lo stato, col la scritta Seggio elettorale (anzi, se non sbaglio, Seggio era scritto con una sola g); a fianco della cabina, con il sussiego stanco che è proprio dei funzionari statali, sedeva dietro ad un piccolo tavolino di legno, un signore grigio dall’aria di chi ha fretta.
Avvezzi come siamo a metterci in fila, mi sono, come per naturale attrazione, accodato all’animata sequela di persone, catturato, come spesso accade, dal  parlare  dell’ultimo della fila, dai grevi accenti  romaneschi: “Pare che mo’, co 'sto cavolo de ius culturae, prima de votà te fanno l’esame; si nu llo passi, nun te fanno votà”. 
Ma non si preoccupi (interloquisce il più acculturato penultimo, vestito da elettore della sinistra chic che la sa lunga); è solo qualche domanda, semplice sempliceAd uno di quelli che hanno già votato hanno chiesto solo due cose!
E ciovè?” fa l’ultimo della fila.
Mah, guardi, gli hanno domandato: 7 che percentuale è di 28? E poi: Bonconte da Montefeltro in quale cantica della Divina Commedia si trova? Semplice, non le pare?
Si, però, io…, fa l’ultimo della fila poco convinto; si ‘sto ius culturae lo dovemo fa’ pe l’immigrati, noi che dovemo votà, che c’entramo?”
Ma no! che ha capito? E’ sempre il colto radical chic che parla. Lo ius culturae con gli immigrati non c’entra niente! E’ per la riforma elettorale che l’hanno adottato, dopo averlo a lungo discusso! Adesso per votare bisogna dimostrare di capire che cosa significa un numero vicino ad un altro e di conoscere almeno i rudimenti (perbacco!) della nostra cultura!”
A questo punto, quando l’onirico dibattito si faceva più interessante (e le guance del greve più rosse), la radio sveglia si è accesa sulla mattutina rassegna stampa di Radio Radicale. D’improvviso si sono dileguati i quattro papi-discepoli, è scomparsa la cabina blu a strisce, l’elegante radical chic e il greve ultimo della fila sono spariti…ed ha fatto irruzione la realtà: Enrico Letta ha rilascialo un’intervista a Repubblica:  Voto ai sedicenni e ius culturae (solo per gli immigrati, però). Son desto.
Roma 30 settembre 2019

mercoledì 25 settembre 2019

Letture

La notte di un’epoca
(di Felice Celato)
Eccomi qua, di nuovo con una lettura da segnalare, una lettura che mi ha tirato fuori per qualche ora dall’accidia di questo tempo, ancorché – per l’argomento trattato – di per sé idonea anche ad alimentare quel senso di belletta negra di cui parlavamo nell’ultimo post.
Il libro (La notte di un’epoca – Contro la società del rancore, i dati per capirla e le idee per curarla di Massimiliano Valerii, edito da Ponte delle Grazie, 2019), come si capisce chiaramente dal titolo e dal sottotitolo, è in gran parte dedicato alla rivisitazione della critica dimensione sociologica (e antropologica)  del nostro vivere contemporaneo, seguendo il flusso delle esplorazioni che ne fa – da anni, incessantemente e magistralmente –  il Censis (non a caso Valerii ne è il Direttore Generale), esplorazioni con le quali i frequentatori di questo blog sono in qualche modo familiari.
Dunque il libro, nella sua parte analitica (quella centrale), non presenta nuove evidenze: ascensore sociale bloccato, rancore, crisi demografica, grandi implicazioni della disintermediazione digitale, rivoluzione del soggettivismo, ciclo della paura, sovranismo psichico, passioni tristi, dissoluzione di un condiviso immaginario collettivo etc., sono tutti temi noti ai lettori, anche distratti (quali noi non siamo), delle analisi Censis degli ultimi anni. Valerii ne riepiloga acutamente le evidenze demoscopiche, ne coglie le dinamiche nel corso degli ultimi settant’anni, ne riordina il filo conduttore, con intelligenza ed eleganza di scrittura; e disegna - in fondo – lo scenario critico (ricordiamo sempre: crisis in greco vuol dire anche passaggio, mutamento) che, ahinoi!, abbiamo davanti agli occhi e che – ritengo di poter dire – abbiamo chiaro anche nelle sue conseguenze politiche.
Una seconda parte del libro (quella iniziale e i tre lunghi capitoli finali) è invece dedicata alla prospettiva filosofica (non è forse, la sociologia, il luogo di incontro fra la statistica ed alcune discipline della filosofia?) lungo la quale Valerii pone l’indicazione di una via d’uscita: come si può tornare a pensare in grande? Come si possono rimettere in moto i desideri [l’immaginario collettivo] di noi diavoli sognanti?
La strada – suggestiva e colta – è quella, scrive Valerii, della riscoperta dell’utilità delle passioni (Cartesio), della consapevolezza del salto d’epoca (Hegel) e della riscoperta di una laica speranza come nucleo caldo dell’esistenza e come motore del cambiamento e dell’evoluzione della storia (Bloch). E alla presentazione dei profili umani ed intellettuali di questi tre grandi filosofi sono dedicati i capitoli finali del libro.
Per me (che non ho fatto, come invece Valerii, profondi studi filosofici) sono risultate particolarmente suggestive le pagine iniziali e finali dedicate proprio a quest’ultimo filosofo (Bloch), confesso sconosciuto – se non nel nome – ai manuali di filosofia in uso al liceo (pressoché tutto ciò che ho frequentato della materia, sia pure con passione). Le frasi di Bloch che Valerii pone in conclusione del suo interessante discorso, mi pare meritino di essere qui richiamate per la loro attuale pertinenza (e perché in fondo riepilogano il senso della prospettiva dell’autore): Non accontentatevi del cattivo presente. Continuate a sognare ad occhi aperti. Scansate il frutto avvelenato del rancore. E non cadete nella trappola della nostalgia. Noi siamo potenza. Noi siamo infinito.
Francamente non so dire se il tipo di approccio che Valerii propone (in linea con la “medica” passione civile del Censis), sia adeguata alla diffusione e al radicamento dei nostri mali; potrei dire – da affascinato dall’ebrezza nello Spirito Santo – che vale la pena, sempre, di credere che sia possibile di fare la verità nella carità (Veritatem autem facientes in charitate, Ef.4,15); perché di verità e carità il nostro tempo ha bisogno. Urgente.
In sintesi: il libro (disponibile anche in e-book) è interessante e stimolante; vale la pena di leggerlo per capire, per ripassare e per…sperare.
Roma 25 settembre 2019






venerdì 20 settembre 2019

Ne la belletta negra

Un vizio dell’età?
(di Felice Celato)
Dopo che per una vita, come ogni buon baciapile, mi sono guardato – con differenziato successo – dai cosiddetti sette peccati capitali (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira ed accidia, matrici di ogni peccato) eccomi, nella parte finale dell’esistenza, a fronteggiarne uno insidioso e, per qualche aspetto, forse vincente (spero, almeno, temporaneamente). Certo l’ira e la gola mi hanno visto più volte, nel corso di tanti anni, soccombere al vizio; ma anche pronto al pentimento repentino, sicché – mi auguro – il buon Dio vorrà perdonarmi (ma la bontà infinita ha si gran braccia – scrive Dante – che prende ciò che si rivolge a lei), quando tirerà le somme della mia esistenza. Il fatto però che mi preoccupa è che, quando l’età tarda dovrebbe indurre ad una maggior confidenza con le corrispondenti virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza), mi sento invece sempre più avvinto da un senso di accidiosa intemperanza.
Del resto, sempre il buon padre Dante, sulla scorta delle sue letture tomistiche, pone insieme, nell’Inferno (Canto VII), gli iracondi e gli accidiosi, come se l’accidia sia, appunto, una forma di ira triste (Fitti nel limo, dicon: tristi fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra / portando dentro accidioso fummo:/ or ci attristiam ne la belletta negra, nella fanghiglia, nella melma); e l’ira, l’ho già detto, è senz’altro il vizio capitale che più mi ha tormentato (insieme alla gola, direbbe la mia bilancia), sicché l’accidia potrebbe esserne la senile manifestazione. Scrivono però due illustri commentatori danteschi (Umberto Bosco e Giovanni Reggio) che è ovvio che questi iracondi amari e difficili siano degni di maggior punizione dei loro compagni più impetuosi, ma meno pericolosi perché non covano a lungo la loro ira. Ma, sperando che si sbaglino, mi viene da invocare, a mia parziale discolpa, proprio quello che dicevo poco fa: in fondo l’accidia può essere la naturale evoluzione senile dell’ira (che - dicono i due dantisti – è meno grave dell’accidia). Ma l’età c’è tutta! E poi, stiracchiando san Tommaso, gratia supponit naturam!
Come che siano da inquadrarsi le nostre futili idee della giustizia e della misericordia divina, l’accidia, questo demone della notte (copyright: Pierangelo Sequeri, su Avvenire.it, del 6 luglio 2012), era già conosciuta dagli antichi monaci della Tebaide (allora come demone meridiano perché, pare, subentrasse nell’animo dei monaci proprio verso la metà del giorno) e descritta come un’irrequietezza arida, uno scoramento pigro, una strana mescolanza di tedio e di risentimento (ancora Sequeri, ibidem), una perdita di senso dell’agire, quasi una noia della pratica delle opere buone che intorpidisce progressivamente la disposizione a incominciarle (sempre Sequeri, citando san Tommaso).
Venendo all’oggi, mi sembra proprio di essere - magari meno iracondo che in gioventù - ma certamente malato di accidia! Tralascio la descrizione analitica dei sintomi più banali (dall’irrequietezza nelle letture, alla inusitata fatica per molte di esse, fino a poco tempo fa divorate e anche predilette, al tedio fastidioso per ciò che si legge o si sente dire, alla pigrizia nelle devozioni religiose e persino all’anomala concentrazione nel banale sollazzo del futile golf); e non voglio nemmeno assolvermi da ogni colpa per questa caduta di tensione che è troppo facile attribuire all’età (in fondo, la vecchiaia in salute mi era sempre sembrata una condizione ideale per coltivare gli interessi che in gioventù erano ostacolati dal tempo e per emendarsi da ogni vizio). Però – come ultima illusione di una causa che renda più lieve la colpa – mi domando e vi domando: ma non sono forse i tempi correnti (la loro vacuità pericolosa, la loro leggerezza irresponsabile, la loro verbosità rancorosa, la loro rumorosa fatuità valoriale, etc.) a rendere l’accidia un’inevitabile forma di disgusto? La belletta negra in cui viviamo non è già un anticipato contrappasso che forse il buon Dio vorrà portare in detrazione della pena, altrimenti meritata?
Roma 20 settembre 2019, anniversario della breccia di Porta Pia.






mercoledì 11 settembre 2019

Ancora zoologia applicata

Nostalgia dei ricci
(di Felice Celato)
La volpe sa molte cose ma il riccio ne sa una grande. Questo oscuro frammento di Archiloco (un lirico greco del VI secolo avanti Cristo) costituisce lo spunto di un affascinate saggio di Isaiah Berlin (uno dei grandi pensatori liberali del XX secolo) che mi è ricapitato fra le mani in questi giorni di pericolosa confusione (Il riccio e la volpe, Adelphi, 1986).
Esiste un grande divario – scrive Isaiah Berlin – fra coloro, da una parte [i ricci], che riferiscono tutto ad una visione centrale, ad un sistema più o meno coerente o articolato, con regole che li guidano a capire, a pensare e a sentire – un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono – e coloro, dall’altra parte [le volpi], che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori, magari collegati soltanto genericamente, de facto e per qualche ragione psicologica o fisiologica, non unificato da un principio morale o estetico. Le persone di questa seconda categoria conducono esistenze, compiono azioni e coltivano idee che sono centrifughe piuttosto che centripete, e il loro pensiero è disperso o diffuso perché si muove su molti piani, coglie l’essenza di una vasta varietà di esperienze e di temi per ciò che questi sono in sé, senza cercare, consciamente o inconsciamente, di inserirli in (o di escluderli da) una visione unitaria, immutabile ed omnicomprensiva, a volte contraddittoria e incompleta, a volte fanatica.
La dicotomia Berliniana non ha in sé valenze necessariamente qualitative: basti pensare che il filosofo inglese ascrive alla categoria dei ricci, fra gli altri, Dante, Platone, Hegel, Dostoevskij e Pascal; e alla categoria delle volpi, fra gli altri, Erodoto, Aristotele, Erasmo, Shakespeare, Goethe, Balzac e Joyce. E da tale dicotomia Isaiah Berlin parte per un lungo ed acuto saggio sul senso della storia in Tolstoj (una volpe che credeva fermamente di essere un riccio, dice Berlin), godibile soprattutto dai profondi conoscitori dell’opera dello scrittore russo (ed io non sono fra questi).
Darei per certo (non occorrerebbe precisarlo) che ogni comunità ha bisogno, in una certa misura, della combinazione dell’agilità della volpe e della coerenza del riccio; ma mi è sorta una curiosità, che va al di là di quella se io mi senta più riccio o più volpe (certamente più riccio): nella nostra comunità ci sono forse troppe volpi e pochi ricci?
Dico subito che la categoria dei ricci reca forse in sé una dose – per dirla in termini politici – di conservatorismo pauroso di ogni novità (in fondo il riccio è un animale scontroso e solitario, pronto a chiudersi – appunto a riccio! – in presenza di qualsiasi cosa lo minacci o semplicemente lo intimidisca); e certamente  non mi riconosco – scontrosità a parte – in questa sua caratterizzazione zoologica. E, d’altra parte, sono lungi dal sentirmi addosso anche la più piccola parte di astuzia insidiosa che, zoo-tipicamente, attribuiamo alle volpi. 
Fortunatamente, in un bel saggio di Ofir Haivry e Yoram Hazony (What is conservatorism?, in American Affairs, 2017), i due politologi dall’ Herzl Institute di Gerusalemme – la cui conoscenza devo ad una gradita segnalazione di un amico – si affannano a distinguere, con argomentazioni molto acute e convincenti, il conservatorismo (cui si ascrivono) dal liberalismo (cui, modestamente, ascrivo i miei sentimenti politici). Perciò mi sento corroborato, anche da questa opinione, nel ritenere che si possa essere profondamente liberali senza temere di apparire (a me stesso, prima di tutto) come un conservatore. 
Semmai, dello zoo-tipo del riccio (secondo la descrizione di Isaiah Berlin), mi sento addosso la natura centripeta rispetto a quella centrifuga dello zoo-tipo della volpe (sempre secondo la descrizione di Isaiah Berlin). 
Ma, uscendo dalle esigenze di personale disclaimer, domando a me stesso e ai miei lettori: non sentite anche voi un’acuta nostalgia, di qualcuno che sia in grado di legittimamente rivendicare un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono? [Penso, per esempio, al Ratzinger che emerge dalla bella raccolta di suoi scritti lato sensu politici pubblicata sotto il titolo Liberare la libertà, Cantagalli, 2018]. Oppure vi sentite a vostro agio in una comunità dove le volpi dominano, perseguendo, con pensiero… disperso o diffuso… molti fini, spesso disgiunti e contraddittori, magari collegati soltanto genericamente, de facto e per qualche ragione psicologica o fisiologica? Personalmente non ho dubbi: ho nostalgia dei ricci e del loro ispido mantello che li rende praticamente invulnerabili ai predatori; purtroppo non alle volpi astute, che (spiega Wikipedia) urinando sull’animale appallottolato lo costringono ad uscire dalla corazza, per poi finirlo mordendolo sul delicato muso. Anche l’urina delle volpi può, talora, risultare insidiosa.
Roma 11 settembre 2019 (anniversario dell’attentato alle Twin Towers)

sabato 7 settembre 2019

Spigolature Italiche

Il Nuovo Umanesimo
(di Felice Celato)
Si possono fare le più diverse valutazioni sulla “crisi” che ha “animato” l’agosto della politica (normalmente sonnacchioso) e sulla soluzione (per certi aspetti “rivoluzionaria” ma non innaturale né imprevedibile) faticosamente adottata. Ognuno – come è giusto e naturale – avrà le sue idee, le sue speranze o i suoi sconforti, le sue soddisfazioni o insoddisfazioni con le quali guarda alla cronaca politica; e non è il caso – né il luogo, questo – di mettersi a discuterne. Forse si potrà – credo – convenire solo sulla spericolata ambizione della definizione dell’evoluzione in corso come nascita di Nuovo Umanesimo (definizione della quale, però, come vedremo subito, non ci sfugge il senso). Oppure si potrà – come capita a maniaci come me – trasformare il PDF “Programma di governo” (diffuso dai giornali il 4 settembre) in un documento Word che consente di contare le parole e rimarcare le ricorrenze o le assenze, per trarne gli auspici, fausti o infausti che siano (per la cronaca: fra le 3118 parole che costituiscono il Programma del Nuovo Umanesimo non compare mai la parola “debito” o il sintagma “debito pubblico”, concetti estranei alla dominante cultura statolatrica). Ma, torno a ripetere, non è questo il luogo né il tempo per discuterne (infatti ogni albero si conosce dal suo frutto, perché non da spine si raccolgono i fichi né da rovo si vendemmia uva, Lc. 6,44).
Però, attenti – come sempre ci sforziamo di essere –  a guardarci attorno prescindendo dalle nostre (inevitabili) opinioni politiche, non possiamo non aver annotato nel nostro personale diario del degrado, la mareggiata torbida di passioni tristi (copyright: Massimiliano Valerii, Direttore Generale del Censis, su Il Secolo XIX, del 26 agosto u.s.) che continua ad alimentare il rancore col quale animiamo la nostra convivenza o anche solo ci esercitiamo quotidianamente a commentare i fatti della politica: chi ascolta tutti i giorni, come faccio io, la rassegna stampa di Radio Radicale si rende facilmente conto come la mareggiata torbida non sia solo un esercizio di socialità da bar della piazza ma sia diventata anche la chiave narrativa di molti e diffusi giornali, che rincorrono i borborigmi dei social media a suon di disprezzo e di mutua repulsa, così chiudendo il loop della cosiddetta pubblica opinione. Così, annota sempre Valerii (ibidem), siamo diventati il paese abitato da diavoli inqueti e senza aspettative.
Non è più, temo, solo un problema di misura perduta delle nostre parole (copyright: Giuseppe De Rita, su Il Corriere della sera del 3 agosto u.s.); i lettori più antichi di questo blog ricorderanno che, quasi otto anni fa, avevamo indicato in una specie di sociologico Lyssavirus rabies l’agente patogeno che rischiava (così ci appariva…. allora) di infettare la nostra società: è proprio, tuttora, un problema di rabbia, che lacera ogni comprensione e obnubila le menti. [Attenzione: nel mondo di oggi, in politica come in sociologia, non c’è più nulla di rilevante che abbia una radice solamente locale, checché ne possano pensare i cultori più ingenui dello ”specialismo” italico; e basta scorrere la letteratura politologica internazionale per rendersi conto dei fili più o meno sottili che legano le varie forme in cui si esprime la “rabbia” che collega, nel mondo occidentale, i postumi della crisi del 2008 con la percezione malevola della globalizzazione: dai Trumpismi ai Brexiterismi, ai diversi isolazionismi, alle rinascenti pulsioni nazionaliste.]
Se queste sensazioni hanno fondamento, un Nuovo Umanesimo – felice o infelice che sia l’ambiziosa espressione - è proprio quello di cui abbiamo bisogno; forse non solo su scala nazionale. Si tratta di vedere – al di là dei verbosi ed insulsi programmi nostrani che abbiamo approntato per dare corpo al nostro “vino”– se abbia senso riempire otri nuovi con vino vecchio.
Roma, 7 settembre 2019