Coi primi freschi….
(di Felice Celato)
Coi primi freschi – si sa – si dorme meglio e – quando non si hanno pensieri angosciosi – si fanno anche sogni…rinfrescanti. Di solito, come in tutti i sogni, i riferimenti al reale si fanno confusi e ciò che arriva ogni giorno ai nostri cervelli (o ai nostri cuori) si mescola in un onirico pot-pourri di divagazioni dal reale che costituisce spesso l’impalpabile sostanza del sogno; ma che talora fa anche sorridere.
Quasi che l’autunno incombente volesse dimostrarmelo, stamane mi sono alzato con la sensazione di aver vissuto, per un’ora notturna, in una gradevole dimensione sospesa fra i tangibili stimoli del reale e le provocazioni della fantasia, quasi come fossi caduto dentro ad un libro di Murakami.
Provo a raccontarvi qualcosa di quel che mi pare di aver sognato: dunque mi trovavo in una città ideale che tendeva a riprodurre, in una mirabile sintesi spaziale, tutte le dimensioni dei miei interessi: c’era una chiesa, una bella piazza con una bancarella di libri, un po’ di gente, tutto come nel dipinto di Ambrogio Lorenzetti. Mancava solo il campo da golf (che del resto manca anche negli allegorici affreschi del pittore senese).
Su un giardino posto in lieve pendenza, a fianco della chiesa, sotto alcuni grandi alberi ombrosi, sul fare del mezzogiorno, sedevano, su comode sedie di vimini, niente meno che quattro papi (l’attuale, Francesco, l’amatissimo Benedetto XVI, San Giovanni Paolo II e il papa della mia giovinezza, Paolo VI), tutti nella loro migliore forma fisica, come se il tempo e le età si fossero fusi in un solo momento. In mezzo a loro, concentrati nell’ascolto, sedeva Greta Thunberg che, come Gesù nella Sinagoga di Cafarnao, li ammaestrava con sapienza, come una che ha autorità e non come gli scribi, sulla bellezza della natura e sulla perversione del progresso. E i quattro Pontefici ascoltavano come incantati (solo Benedetto aveva nei chiari occhi un che di ironico), mentre una vaga melodia saliva da un cespuglio dietro al quale – mezzo nudo – Pan (l’eterno che su l’erme alture / a quell’ora e nei pian solingo va) suonava il flauto. Sullo sfondo, una processione di diafane ninfe, ventilanti col lor bianco velo.
Dal giardino in lieve pendenza, come per naturale spinta dell’inclinazione, per la verità in cuor mio dispiaciuto di allontanarmi da una scena tanto idilliaca, scendevo giù verso la piccola piazza, dove un’animata fila di persone si attardava davanti ad una cabina di legno, come quelle che una volta si trovavano sulle spiagge dell’Adriatico (e in qualche film di Fellini), dipinte di blu con strisce bianche; però, incongruamente, sulla cabina troneggiava un cartello, traboccante della rozza sciatteria di tutto ciò che fa lo stato, col la scritta Seggio elettorale (anzi, se non sbaglio, Seggio era scritto con una sola g); a fianco della cabina, con il sussiego stanco che è proprio dei funzionari statali, sedeva dietro ad un piccolo tavolino di legno, un signore grigio dall’aria di chi ha fretta.
Avvezzi come siamo a metterci in fila, mi sono, come per naturale attrazione, accodato all’animata sequela di persone, catturato, come spesso accade, dal parlare dell’ultimo della fila, dai grevi accenti romaneschi: “Pare che mo’, co 'sto cavolo de ius culturae, prima de votà te fanno l’esame; si nu llo passi, nun te fanno votà”.
“Ma non si preoccupi (interloquisce il più acculturato penultimo, vestito da elettore della sinistra chic che la sa lunga); è solo qualche domanda, semplice semplice. Ad uno di quelli che hanno già votato hanno chiesto solo due cose!”
“E ciovè?” fa l’ultimo della fila.
“Mah, guardi, gli hanno domandato: 7 che percentuale è di 28? E poi: Bonconte da Montefeltro in quale cantica della Divina Commedia si trova? Semplice, non le pare?”
“Si, però, io…, fa l’ultimo della fila poco convinto; si ‘sto ius culturae lo dovemo fa’ pe l’immigrati, noi che dovemo votà, che c’entramo?”
“Ma no! che ha capito? E’ sempre il colto radical chic che parla. Lo ius culturae con gli immigrati non c’entra niente! E’ per la riforma elettorale che l’hanno adottato, dopo averlo a lungo discusso! Adesso per votare bisogna dimostrare di capire che cosa significa un numero vicino ad un altro e di conoscere almeno i rudimenti (perbacco!) della nostra cultura!”
A questo punto, quando l’onirico dibattito si faceva più interessante (e le guance del greve più rosse), la radio sveglia si è accesa sulla mattutina rassegna stampa di Radio Radicale. D’improvviso si sono dileguati i quattro papi-discepoli, è scomparsa la cabina blu a strisce, l’elegante radical chic e il greve ultimo della fila sono spariti…ed ha fatto irruzione la realtà: Enrico Letta ha rilascialo un’intervista a Repubblica: Voto ai sedicenni e ius culturae (solo per gli immigrati, però). Son desto.
Roma 30 settembre 2019
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