sabato 27 giugno 2015

Capitale sociale e "fioretti"

Un antidoto contro lo sfarinamento?
(di Felice Celato)
Un lettore abituale di questo blog (non proprio un follower ma comunque un amico) mi ha fatto una scherzosa osservazione: “verità, perdono e ora anche buon esempio (post Tempi lunghi, del 18 scorso); a quando la prescrizione di fioretti?”
Lì per lì ci ho sorriso; ma poi ci ho riflettuto e un’idea di un utile fioretto mi è venuta, parlando con una gentilissima tassista.
Racconto l’episodio: di solito utilizzo le (per me) inevitabili conversazioni coi tassisti per esplorare l’andamento dell’economia: la domanda di trasporto taxi è, secondo me, un utile indicatore empirico di come va l’economia, come lo sarebbe, per esempio, il numero di camion che percorrono l’autostrada o il consumo di elettricità. E poi i tassisti sono spesso assai più saggi di come li si pensa. Ma stavolta, non so perché, la gentile tassista ha portato la conversazione su una sua “disgrazia”: un figlio reso inabile da una vaccinazione degenerata in gravi lesioni cerebrali. Una vera tragedia; che però la tassista commentava prendendosela con al lobby delle case farmaceutiche che spingono per vaccinazioni inutili, anzi dannose.
Mi sono detto (fra me e me): ma 30/40 anni fa, se ci fosse, malauguratamente, toccata una disgrazia del genere, ci sarebbe venuto in mente di pensare di essere vittima di una lobby delle case farmaceutiche produttrici di vaccini?
Confesso che le mie letture sul “capitale sociale” (vedasi il post sopra citato) si stanno rivelando molto deludenti: non mi pare che dal grande dibattito fra economisti, sociologi e politologi, emerga un concetto univoco e temo che alla fine delle letture dovrò rassegnarmi a questa evidenza, forse per colpa degli economisti con le loro manie di “misurazione”; e purtuttavia a me pare di averlo chiaro, questo concetto, del resto accennato anche dal Papa Emerito nella sua monumentale enciclica Caritas in Veritate (“quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile”, CV, 32)
Ecco, l’opinione della gentile tassista (con tutto il rispetto che la sua esperienza impone) è proprio la dimostrazione di questo sfarinamento del nostro capitale sociale cui, inconsapevolmente o surrettiziamente, progressivamente o scivolosamente, diamo il nostro consenso ogni giorno, senza avere piena coscienza della sua pervasiva distruttività. Anche la produzione di vaccini – della quale è difficile contestare i benefici effetti sul vivere umano – ci appare allora avvolta in una nube tossica di intenti perversi.
E il fioretto che il mio amico temeva, eccolo qua: proviamo tenacemente a vivere come se il prossimo sia degno di fiducia fino a prova contraria, invece che come se il prossimo sia degno di ogni sospetto e sfiducia sino a prova inconfutabile della sua innocenza.
Lo so, è difficile; persino un umile mendicante che chiede l’elemosina sulla porta di una chiesa mi ha fregato, facendomi credere ad un suo urgente bisogno che non aveva (e non nascondo che mi ha fatto molta rabbia, perché non ho dato retta a chi mi suggeriva di diffidare); né mi piace dipingermi irenico ed ingenuo come di certo non sono, per età e per natura ("etnica"? dicono che i marchigiani siano diffidenti...)
Ma, credo, questo fioretto che sfida l’ironia di un amico, potrebbe essere un esercizio civile che protegge il capitale sociale. E che, forse, fa anche bene, da subito, alla nostra dubbiosa esistenza.
Roma 27 giugno 2015


venerdì 19 giugno 2015

Stupi-diario geniale

Impegni programmatici
(di Felice Celato)

Ho appreso che, nel 1950, un tale Domingo Tortorelli partecipò alle elezioni presidenziali Uruguayane con un programma che prevedeva, fra l’altro:
  • fontane che erogano latte ad ogni angolo delle strade;
  • giornata lavorativa di 15 minuti; e, soprattutto,
  • un’autostrada fra Montevideo e Rivera in lieve discesa (per favorire l’economia di carburante) ma in entrambe le direzioni.

Confesso che il terzo “impegno programmatico” mi è risultato ad un tempo geniale ed inusitato: di una tale idea non avevo mai sentito parlare, alle altre per la verità ci siamo più avvezzi, anche da noi. (Preciso che l’articolo del WSJ sul quale ho trovato questa buffa notizia, riguardava la Grecia, della quale parleremo – magari seriamente – a vicenda conclusa)

Pare, però, che il buon Tortorelli abbia raccolto solo 38 voti; in Uruguay, però! Forse da noi gli sarebbe andata meglio, almeno oggi!
Roma, 19 giugno 2015

giovedì 18 giugno 2015

Tempi lunghi


The advantage of humankind of being able to trust one another, penetrates into every crevice and cranny of human life (J.S. Mill, 1848)
Nonostante
(di Felice Celato)
Sto effettuando letture su un tema che da qualche tempo mi aiuta a riflettere sulle ragioni del nostro presente. Il tema è quello del capitale sociale: ovviamente non mi riferisco al concetto giuridico-finanziario di capitale sociale come mezzi propri di un’impresa costituita in forma societaria (del quale dovrei – dico  dovrei – sapere tutto o quasi e che, comunque, qui non interesserebbe  nessuno) ma ad un concetto sociologico, peraltro tuttora poco univoco, che – provvisoriamente – indicherò citando due autori recenti che se ne sono occupati e che ne usano una nozione sufficientemente concorde (cfr. Economia cognitiva e capitale sociale, di Gianluca Palma, Abelbooks, 2014): Robert Putnam per capitale sociale intende le relazioni, le norme e la fiducia che permettono agli individui di agire congiuntamente e in modo più efficace per il conseguimento di un obbiettivo comune.  Per Francis Fukuyama il capitale sociale consiste nelle aspettative che si presentano in una comunità d’un comportamento regolare, onesto e cooperativo, basato su norme comunemente condivise da parte di altri membri della comunità. [….] Queste comunità non richiedono una diffusa regolazione contrattuale delle loro relazioni, in quanto un precedente consenso morale conferisce ai membri del gruppo una base di reciproca fiducia.
Bene. Così provvisoriamente inteso il concetto di capitale sociale (magari ci tornerò sopra a valle delle letture che mi sono programmato), mi sorge una domanda che vorrei trasferire a voi lettori di queste righe (abbozzerò poi una mia risposta che, anch’essa, mi pare provvisoria): quanto ne sussiste ancora, in Italia, di questo capitale sociale? E quanto ne abbiamo consumato negli ultimi 30/40 anni? Esiste ancora, in una dimensione almeno meta-familiare, un patrimonio di fiducia reciproca su cui imbastire il conseguimento di un obbiettivo comune?
Dovessi giudicare dal dibattito politico o dallo strato di rapporti di natura civile o imprenditoriale che mi capita di coltivare per ragioni di lavoro, dovrei dire che il capitale sociale della nostra comunità mi pare largamente consumato o, per dirla con De Rita, quanto meno diventato inagito: esiste invece un senso di diffidenza istituzionale o, anche, semplicemente, un mistrust civile, fatto di rancorosa incertezza, del presente (del diritto, per esempio) e del futuro, nella quale si consuma inutilmente ogni residua energia sociale e si consolida progressivamente la deflazione persino delle aspettative individuali e collettive (Rapp. Censis 2014, cfr. il post Il capitale inagito, del 5 12 14).
D’altra parte non posso e non voglio negare la necessaria fiducia nell’esistenza di una parte resiliente che – quando si affranca dalla semplice e sterile negazione, direi volontaristica, del degrado – si abbarbica, ostinata, al dovere di un agire fiducioso e tenace, sotto il segno di un avverbio coraggioso: nonostante. E anche di questo strato sociologico, per la verità e per fortuna, non mi mancano le esperienze concrete, sia personali che lavorative; delle quali però non posso nemmeno tacere il peso minoritario. In fondo, mi pare, è come se nella nostra società si sia determinata una polarizzazione delle reazioni al presente, senza peraltro che (mi) sia chiaro il fundamentum divisionis: da un lato, un prevalente, scettico mistrust, tutt’al più temperato all’interno di circuiti che vivono di se stessi (Censis, 2014); dall’altro, una minoritaria resistenza, aggrappata al nonostante. Due mondi separati e, in mezzo, una terra di nessuno, pascolo per le forze della disgregazione.
Ecco, secondo me, la scommessa sul futuro si gioca tutta – oltreché su verità e perdono, come da tempo vado ingenuamente dicendo – sul credito che può meritare la parte resiliente, se vogliamo, sulla forza espansiva del nonostante, sulla sua capacità di ricostituire il capitale sociale consunto e di renderlo di nuovo agibile; una volta si sarebbe detto sulla forza del buon esempio. Certo occorre tempo per ribaltare le attuali proporzioni fra mistrust e resilienza, un tempo che si misura col metro delle generazioni (che, poi, non a caso, è il metro dei cambiamenti culturali). De Rita vede in questa “ricucitura” il ruolo della politica dei prossimi anni. Speriamo che abbia ragione, nonostante le apparenze.

Roma, 18 giugno 2014

domenica 14 giugno 2015

Il perdono in politica

.....e l'ottimismo senza scrupoli
(di Felice Celato)

Commentando una mia forse ingenua opinione, peraltro non recente ma ripresa nell’ultimo post (il perdono come strumento della politica, per sbloccarne la sopravvenuta futilità), un’amica mi ha indotto ad approfondire la riflessione appunto sulla “dimensione politica” del perdono; riflessione – è banale avvertirlo – che ha un senso solo se letta in chiave meta-partitica, direi sociologica, in quanto riferita non alle vicende di qualche singolo partito o addirittura di qualche singolo esponente dell’establishment politico, ma, invece, alle constituencies che in qualche modo hanno rappresentato le radici culturali delle vicende politiche del nostro paese negli ultimi 30 anni.
Al perdono siamo abituati a pensare in chiave etica o, se si vuole, religiosa (rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori), connessa al peccato più che all’errore; ma forse ce ne sfugge la dimensione pragmatica, direi, non a caso, politica. La verità è, mi sembra, che nella valutazione delle cose del mondo e dei suoi reggitori raramente ci soccorre ex ante la piena percezione della loro fallibilità; non perché – ovviamente – li immaginiamo esenti da errore, direi anzi tutt’altro: in fondo il nostro votare diversamente da come si era votato nell’elezione precedente non è altro che una valutazione sintetica di comportamenti che ex post giudichiamo erronei, inappropriati o addirittura dannosi; ma, invece, perché, nel momento in cui li votiamo, in fondo scegliamo di aderire, consapevolmente o inconsapevolmente, ad uno schema mentale che è quello che ci viene proposto da chi, lato sensu, chiede il nostro voto, cioè quello dell’ottimismo senza scrupoli (il termine è del filosofo inglese Roger Scruton in Del buon uso del pessimismo, Lindau, 2011, già citato mi pare, in questo blog) basato sull’illusione della migliore delle ipotesi, che, davanti alla necessità di operare delle scelte in condizioni di incertezza, immagina il miglior risultato possibile e presume che non serva considerarne altri.
Della possibilità, anzi della probabilità, dell’errore non si tiene conto ex ante (salvo che non si sia coltivato…. l’irritante distacco del pessimista assennato), anche se le vicende storiche, ma più in generale della vita, insegnano ampiamente che l’errore di valutazione, di stima, di previsione, di aspettativa dei comportamenti propri od altrui, è sempre in agguato e che ben raramente si realizzano le migliori delle ipotesi. Per questa via l’errore scompare dal nostro schermo (lo ripeto: ex ante) sicché, quando ex post lo si constata, ci appare  quasi sempre grossolano – quand’anche, magari, non lo sia stato in effetti –, definitivo e, quindi, imperdonabile. E invece la possibilità di errore è una condizione permanente dell’agire umano, che ben poco si presta ad essere realisticamente richiamata quando si chiede il voto dell’elettore e che l’elettore stesso tende a non considerare ex ante. Col senno del poi, certamente, anche l’elettore che più si è abbandonato all’ottimismo senza scrupoli è in grado di valutare l’errore e, salvo che non sia prigioniero di vincoli ideologici, non pensa ad esercitare il perdono ma, tutt’al più, a mutare il suo voto, come in fondo, dal punto di vista pragmatico, è anche giusto e comprensibile. Ora, però, specie quando la prospettiva storica sia sufficientemente lunga, appare evidente la perversa concatenazione di errori anche di segno opposto che hanno nel tempo rese illusorie, come è fatale, tutte le migliori ipotesi via via –anche contraddittoriamente – proposteci (in fondo il libro che commentavamo nell’ultimo post è quasi un’antologia di errori e contro-errori della nostra politica economica); sicché l’arma estrema che abbiamo per combattere la loro paralizzante evidenza è solo il perdono, il perdono politico, appunto, basato sulla reciproca cancellazione delle doglianze per gli errori commessi, nella certezza che il meccanismo democratico ha reso anche il più distante degli elettori in qualche modo complice della collettiva dannosità di quegli errori, se non addirittura, come nel caso esaminato dal libro di Tedoldi, beneficiario diretto e individuale di quella collettiva dannosità.
L’alternativa al perdono politico, del resto, è solo un ulteriore abbandono ad un nuovo ottimismo senza scrupoli che, immancabilmente, ci proporrà lo schema consueto, una nuova organizzazione in cui non si facciano mai errori sicché, davanti alla necessità di operare delle scelte in condizioni di incertezza, si dovrà di nuovo immaginare il miglior risultato possibile e presumere che non serva considerarne altri.


Roma, 14 giugno 2014

martedì 9 giugno 2015

Ancora letture

Il conto degli errori
(di Felice Celato)
Eccomi ancora, complici una notte insonne ed un pomeriggio di pioggia, con un'altra segnalazione, stavolta un po’ impegnativa ma, almeno per me e dal punto di vista che dirò, paradossalmente molto confortante. Il libro, segnalato dal Corriere della sera, è di un politologo italiano, Leonida Tedoldi (Laterza 2015) che ha condotto un’attenta analisi su Il conto degli errori – Stato e debito pubblico in Italia, che copre il periodo dal 1970 fin quasi agli anni nostri.
L’analisi di Tedoldi mette a fuoco – attraverso una rassegna molto dettagliata delle varie politiche economiche perseguite nel tempo – come, all’origine della difficilissima situazione del debito pubblico che stiamo attraversando, non sia una intrinseca “perversità” o “scelleratezza” dei vari, tanti governi, anche di diversa “ispirazione”, succedutisi nel tempo in Italia, una totalizzante perdita di controllo o semplicemente ed esclusivamente una eccessiva estensione dello stato (che pure a mio giudizio c’è stata), come vogliono le (interessate) vulgate correnti. Probabilmente – scrive l’autore – le ragioni della costruzione di questi luoghi comuni sono riconducibili da una parte all’insofferenza sociale verso un problema, quello del debito pubblico, che incide pesantemente sulla crescita economica ed è ormai intollerabile per uno Stato tra i più importanti a livello europeo; dall’altra, alla subliminale carica rassicurante di tali convinzioni, che attribuisce sostanzialmente la responsabilità del peso assai preoccupante del debito alla classe politica e quindi ai governi e allo Stato, spesso inefficienti e inefficaci, riservando alla società – la cosiddetta società civile – solo il ruolo della vittima. L’uso della strategia della vittima nel nostro paese, come è noto, è assai diffuso e ricorrente (soprattutto ora, nel rapporto con l’Unione europea). E non solo a proposito di politiche economiche, aggiungo io.
Certamente, e l’analisi di Tedoldi lo documenta, ci sono stati errori e sottovalutazioni - peraltro in situazioni macroeconomiche spesso difficili -, governi più o meno sensibili al tema, come pure forti avvertenze disattese, almeno fino al momento in cui il debito pubblico è diventato un problema sovranazionale; ma, in sostanza, il ruolo delle due parti –  istituzioni pubbliche e società nel suo complesso [sottolineature mie], se possiamo chiamarle così – non è poi tanto distinto e il debito pubblico è sempre stato una scelta politica razionale per i governi e un’opportunità per alcuni gruppi sociali che ne traggono sostanziosi benefici economici, anche quando si avviò la costruzione dell’unione monetaria europea…..Per queste ragioni vari governi crearono l’«illusione razionale» – se posso usare questo ossimoro – che fosse possibile indebitare lo Stato anche a livelli molto elevati per poter finanziare la crescita e, nello stesso tempo, garantire al ceto medio il sostegno alle sue esigenze di sicurezza e soprattutto al suo stile di vita. È evidente che da molti punti di vista la reale mancanza di un’alternativa di governo fu decisiva per la gestione politica del debito pubblico. In definitiva, dunque, si può anche pensare che la crescita così rilevante del debito sia …..dovuta a una serie di gravi errori politici di un sistema bloccato, errori  - però - che la società ha accettato e digerito perché fonte di sostegno economico e di accumulazione per decenni.
Ebbene, questo tipo di approccio, come dicevo, per certi versi mi conforta perché dà fondamento analitico ad una cosa che mi avrete sentito ripetere molte volte quando ho cercato di intravvedere (e sapete quanto mi è difficile!) una via d’uscita politica al presente, una via d’uscita tanto speranzosa da potere apparire ingenua, ma che, secondo me, rimane comunque l’unica via d’uscita praticabile: l’operazione verità (e verità diffusa!) sulla natura e le origini del nostro debito (e del nostro benessere), la piena assunzione di corresponsabilità fra politica (di ogni parte) e società, dalla quale assunzione, unita al reciproco “perdono” politico (sic!), può derivare la rigenerazione degli stamina (energie vitali) che sembriamo aver perduto nelle nebbie di populismi, contro-populismi e faziosità (ideologicamente) violente.
Per il resto, come dicevo, il libro sviluppa analisi dettagliate, alcune delle quali – non ostante negli anni ’70-’80 fossi da tempo…. saldamente nell’età della ragione – a suo tempo mi erano sfuggite o comunque di certo non le avevo condotte con tanta lucidità e abbondanza di dati. Quindi una lettura da raccomandare, come del resto faceva Mieli sul Corriere di ieri.
Roma 9 giugno 2015