The advantage of
humankind of being able to trust one another, penetrates into every crevice and
cranny of human life (J.S. Mill, 1848)
Nonostante
(di Felice Celato)
Sto
effettuando letture su un tema che da qualche tempo mi aiuta a riflettere sulle
ragioni del nostro presente. Il tema è quello del capitale sociale: ovviamente
non mi riferisco al concetto giuridico-finanziario di capitale sociale come
mezzi propri di un’impresa costituita in forma societaria (del quale dovrei –
dico dovrei – sapere tutto o quasi e
che, comunque, qui non interesserebbe nessuno) ma ad un concetto sociologico,
peraltro tuttora poco univoco, che – provvisoriamente – indicherò
citando due autori recenti che se ne sono occupati e che ne usano una nozione
sufficientemente concorde (cfr. Economia
cognitiva e capitale sociale, di Gianluca Palma, Abelbooks, 2014): Robert
Putnam per capitale sociale intende le
relazioni, le norme e la fiducia che permettono agli individui di agire congiuntamente
e in modo più efficace per il conseguimento di un obbiettivo comune. Per Francis Fukuyama il capitale sociale
consiste nelle aspettative che si
presentano in una comunità d’un comportamento regolare, onesto e cooperativo,
basato su norme comunemente condivise da parte di altri membri della comunità.
[….] Queste comunità non richiedono una diffusa regolazione contrattuale delle
loro relazioni, in quanto un precedente consenso morale conferisce ai membri
del gruppo una base di reciproca fiducia.
Bene.
Così provvisoriamente inteso il concetto di capitale sociale (magari ci tornerò
sopra a valle delle letture che mi sono programmato), mi sorge una domanda che
vorrei trasferire a voi lettori di queste righe (abbozzerò poi una mia risposta
che, anch’essa, mi pare provvisoria): quanto ne sussiste ancora, in Italia, di
questo capitale sociale? E quanto ne abbiamo consumato negli ultimi 30/40 anni?
Esiste ancora, in una dimensione almeno meta-familiare, un patrimonio di
fiducia reciproca su cui imbastire il conseguimento
di un obbiettivo comune?
Dovessi
giudicare dal dibattito politico o dallo strato di rapporti di natura civile o
imprenditoriale che mi capita di coltivare per ragioni di lavoro, dovrei dire
che il capitale sociale della nostra comunità mi pare largamente consumato o,
per dirla con De Rita, quanto meno diventato inagito: esiste invece un senso di diffidenza istituzionale o,
anche, semplicemente, un mistrust
civile, fatto di rancorosa incertezza, del presente (del diritto, per esempio) e del
futuro, nella quale si consuma inutilmente ogni residua energia sociale e si
consolida progressivamente la deflazione persino delle aspettative individuali e collettive (Rapp. Censis 2014, cfr. il post Il capitale inagito, del 5 12 14).
D’altra
parte non posso e non voglio negare la necessaria fiducia nell’esistenza di una
parte resiliente che – quando si affranca dalla semplice e sterile negazione, direi
volontaristica, del degrado – si abbarbica, ostinata, al dovere di
un agire fiducioso e tenace, sotto il segno di un avverbio coraggioso: nonostante. E anche di questo strato
sociologico, per la verità e per fortuna, non mi mancano le esperienze
concrete, sia personali che lavorative; delle quali però non posso nemmeno
tacere il peso minoritario. In
fondo, mi pare, è come se nella nostra società si sia determinata una
polarizzazione delle reazioni al presente, senza peraltro che (mi) sia chiaro
il fundamentum divisionis: da un lato,
un prevalente, scettico mistrust, tutt’al
più temperato all’interno di circuiti che
vivono di se stessi (Censis, 2014); dall’altro, una minoritaria resistenza,
aggrappata al nonostante. Due mondi
separati e, in mezzo, una terra di nessuno, pascolo per le forze della disgregazione.
Ecco,
secondo me, la scommessa sul futuro si gioca tutta – oltreché su verità e
perdono, come da tempo vado ingenuamente dicendo – sul credito che può meritare
la parte resiliente, se vogliamo, sulla forza espansiva del nonostante, sulla sua capacità di
ricostituire il capitale sociale consunto e di renderlo di nuovo agibile; una
volta si sarebbe detto sulla forza del buon esempio. Certo occorre tempo per
ribaltare le attuali proporzioni fra mistrust
e resilienza, un tempo che si misura col metro delle generazioni (che, poi, non
a caso, è il metro dei cambiamenti culturali). De Rita vede in questa
“ricucitura” il ruolo della politica dei prossimi anni. Speriamo che abbia
ragione, nonostante le apparenze.
Roma,
18 giugno 2014
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