giovedì 18 giugno 2015

Tempi lunghi


The advantage of humankind of being able to trust one another, penetrates into every crevice and cranny of human life (J.S. Mill, 1848)
Nonostante
(di Felice Celato)
Sto effettuando letture su un tema che da qualche tempo mi aiuta a riflettere sulle ragioni del nostro presente. Il tema è quello del capitale sociale: ovviamente non mi riferisco al concetto giuridico-finanziario di capitale sociale come mezzi propri di un’impresa costituita in forma societaria (del quale dovrei – dico  dovrei – sapere tutto o quasi e che, comunque, qui non interesserebbe  nessuno) ma ad un concetto sociologico, peraltro tuttora poco univoco, che – provvisoriamente – indicherò citando due autori recenti che se ne sono occupati e che ne usano una nozione sufficientemente concorde (cfr. Economia cognitiva e capitale sociale, di Gianluca Palma, Abelbooks, 2014): Robert Putnam per capitale sociale intende le relazioni, le norme e la fiducia che permettono agli individui di agire congiuntamente e in modo più efficace per il conseguimento di un obbiettivo comune.  Per Francis Fukuyama il capitale sociale consiste nelle aspettative che si presentano in una comunità d’un comportamento regolare, onesto e cooperativo, basato su norme comunemente condivise da parte di altri membri della comunità. [….] Queste comunità non richiedono una diffusa regolazione contrattuale delle loro relazioni, in quanto un precedente consenso morale conferisce ai membri del gruppo una base di reciproca fiducia.
Bene. Così provvisoriamente inteso il concetto di capitale sociale (magari ci tornerò sopra a valle delle letture che mi sono programmato), mi sorge una domanda che vorrei trasferire a voi lettori di queste righe (abbozzerò poi una mia risposta che, anch’essa, mi pare provvisoria): quanto ne sussiste ancora, in Italia, di questo capitale sociale? E quanto ne abbiamo consumato negli ultimi 30/40 anni? Esiste ancora, in una dimensione almeno meta-familiare, un patrimonio di fiducia reciproca su cui imbastire il conseguimento di un obbiettivo comune?
Dovessi giudicare dal dibattito politico o dallo strato di rapporti di natura civile o imprenditoriale che mi capita di coltivare per ragioni di lavoro, dovrei dire che il capitale sociale della nostra comunità mi pare largamente consumato o, per dirla con De Rita, quanto meno diventato inagito: esiste invece un senso di diffidenza istituzionale o, anche, semplicemente, un mistrust civile, fatto di rancorosa incertezza, del presente (del diritto, per esempio) e del futuro, nella quale si consuma inutilmente ogni residua energia sociale e si consolida progressivamente la deflazione persino delle aspettative individuali e collettive (Rapp. Censis 2014, cfr. il post Il capitale inagito, del 5 12 14).
D’altra parte non posso e non voglio negare la necessaria fiducia nell’esistenza di una parte resiliente che – quando si affranca dalla semplice e sterile negazione, direi volontaristica, del degrado – si abbarbica, ostinata, al dovere di un agire fiducioso e tenace, sotto il segno di un avverbio coraggioso: nonostante. E anche di questo strato sociologico, per la verità e per fortuna, non mi mancano le esperienze concrete, sia personali che lavorative; delle quali però non posso nemmeno tacere il peso minoritario. In fondo, mi pare, è come se nella nostra società si sia determinata una polarizzazione delle reazioni al presente, senza peraltro che (mi) sia chiaro il fundamentum divisionis: da un lato, un prevalente, scettico mistrust, tutt’al più temperato all’interno di circuiti che vivono di se stessi (Censis, 2014); dall’altro, una minoritaria resistenza, aggrappata al nonostante. Due mondi separati e, in mezzo, una terra di nessuno, pascolo per le forze della disgregazione.
Ecco, secondo me, la scommessa sul futuro si gioca tutta – oltreché su verità e perdono, come da tempo vado ingenuamente dicendo – sul credito che può meritare la parte resiliente, se vogliamo, sulla forza espansiva del nonostante, sulla sua capacità di ricostituire il capitale sociale consunto e di renderlo di nuovo agibile; una volta si sarebbe detto sulla forza del buon esempio. Certo occorre tempo per ribaltare le attuali proporzioni fra mistrust e resilienza, un tempo che si misura col metro delle generazioni (che, poi, non a caso, è il metro dei cambiamenti culturali). De Rita vede in questa “ricucitura” il ruolo della politica dei prossimi anni. Speriamo che abbia ragione, nonostante le apparenze.

Roma, 18 giugno 2014

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