martedì 26 marzo 2019

Stupi-diario nazionale

Ccà nisciuno è fesso
(di Felice Celato)
Fra le tante “cose” di Napoli che mi piacciono immensamente (dal Cristo Velato al sartù di riso, dalla pastiera alla vista da Posillipo, da Torna a Surriento al Monastero di Santa Chiara) c’è anche la straordinaria efficacia di tante espressioni napoletane che, lo riconosco volentieri, sono entrate a far parte del mio (ma forse direi del nostro) lessico corrente: dal feroce tu tien ‘a testa pe’ spartì e rrecchie (per dire icasticamente che si stanno… sottoutilizzando largamente le proprie capacità intellettuali) al generoso scurdammoce ‘o passato (che dispone al reciproco perdono). Fra queste espressioni, c’è anche quella che dà il titolo a questo capitoletto del nostro stupi-diario, dove – come ricordano i lettori più assidui (è un po', per la verità, che proprio non ci va di scherzare!) –  di tanto in tanto proviamo a manifestare la nostra stupefazione per qualcosa di buffo, di stupido o anche semplicemente di strabiliante (in tutti i sensi) che ci capiti di osservare.
Questa espressione, dunque (ccà nisciuno è fesso), deve molta della sua diffusione mèta-partenopea alla straordinaria capacità di Totò di aggiungere paradossali ironie agli usi più correnti della lingua italiana o napoletana, facendone spesso dei buffi nonsense per sottolinearne l’incongruità generata dall’abuso (si pensi, per esempio, al famoso: ogni limite ha una pazienza). 
Ccà nisciuno è fesso, in fondo, vuole essere una orgogliosa rivendicazione di intemerata fiducia nelle nostrane capacità di afferrare la realtà e di coglierne tutte le implicazioni; e, allo stesso tempo, anche l’espressione di formale ripulsa di ogni – sempre possibile –  esterna sottovalutazione di tali nostre capacità (“Qui non siamo in America, siamo a Napoli e, come si dice, ccà nisciuno è fesso!” grida Totò al suo perplesso interlocutore, sbattendo un pugno sul tavolo).
In effetti, pur senza condividere alcun senso di nostrana supremazia intellettuale, devo riconoscere che, anche individualmente,  passare da fesso mi dispiace assai: sia quando, magari, qualcuno approfitta con successo di un momentaneo abbassamento della guardia, sicché dolorosamente occorra poi ammettere che quel qualcuno è proprio riuscito a farmi passare da fesso (non accade spesso, ma è accaduto e può ancora accadere); sia – anzi, direi soprattutto – quando mi capita di intercettare il tentativo prima che vada a buon fine e, anzi, di riuscire a sventarlo, a quel punto sdegnosamente. E’, insomma, l’offesa alla (mia) intelligenza che mi brucia, poiché – lo confesso – indulgo facilmente ad una compiaciuta e non modesta valutazione della stessa; e mi sorprende dolorosamente che qualcun altro ardisca non condividere tale valutazione.
Vabbè, vi ho con-fessato una delle (tante) mie debolezze; però sono convinto che passare da fesso non piaccia a nessuno e che lo sdegno per ogni tentativo di portare a termine l’attentato all’intelligenza altrui sia anche sentimento diffuso; anzi, per la verità e se proprio devo dirla tutta, ero convinto che passare da fesso non piacesse a nessuno. Da qualche tempo – non so dire perché –  mi pare proprio – almeno leggendo i giornali, seguendo le stanche cronache sociali che vengono diffuse o anche le opinioni di improvvisati commentatori – che una certa indulgenza agli altrui attentati all’intelligenza ed al buon senso sia diventata una specie di virtù civica; non per scelta cosciente (nessuno, certo, è andato in giro a dire: ingannatemi, prendetemi in giro, fatemi credere baggianate) ma per dolce acquiescenza verso la piacevolezza del narrato, come accade a quei bambini ormai vicini all’adolescenza che non credono più alla fiabe che i genitori raccontavano loro per addormentarli, ma, pure, si beano ancora a sentirsele ri-narrare, ben sapendo che il gatto non porta gli stivali e che il Marchese di Carabas non esiste e non ha ricche riserve di caccia.
In sostanza: ccà nisciuno è fesso ma se qualcuno ci fa fessi, faccia pure, noi non ci offendiamo affatto. Anzi, ci fa quasi piacere.
Non vorrei che – poiché ogni limite ha una pazienza– prima o poi ci ritrovassimo a dire con rimpianto: eppure ccà nisciuno era fesso. Come, in fondo, ci è già accaduto.
Roma 26 marzo 2019



domenica 24 marzo 2019

La fortuna di Gianni

L’Europa e la “parabola” del teologo
(di Felice Celato)
Rileggendo (per la terza volta in modo sequenziale) il monumentale libro di Joseph Ratzinger Introduzione al Cristianesimo (non farlo almeno una volta nella vita è come non aver mai visto il mare), ho ritrovato, nella prefazione alla prima edizione, una lunga citazione di una fiaba dei fratelli Grimm, intitolata, appunto, La fortuna di Gianni. L’attuale Papa Emerito, allora (si era nel 1968), ne fece uso per descrivere la schiera di quegli scervellati che considerano sempre il nuovo come automaticamente migliore. Il riferimento della citazione Ratzingeriana era teologico e, anche in quest’ambito, rimane, secondo me, più che attuale (tanto che mi tornava in mente oggi, mentre ascoltavo la pericope dell’Esodo: Mosè, vedendo che il roveto ardeva nel fuoco ma non si consumava, si avvicinò con grande rispetto, domandandosi: Perché il roveto non brucia?). E tuttavia, per molti aspetti, l’apologo si presta ad una estrapolazione, "un'esportazione” in ambito politico, dove – ahinoi! – non ci sono roveti che non bruciano e tutto ciò che si incendia si consuma e finisce in cenere.
Vediamo brevissimamente la storia: il buon servo Gianni ricevette dal suo padrone, riconoscente per i sette anni di ottimo servizio prestato, un munifico regalo: un pezzo d’oro grosso come la testa di Gianni stesso. Fattosene carico, Gianni, tutto contento, si avviò per tornarsene a casa; ma, durante il percorso, sempre a caccia di soluzioni che alleviassero la fatica del carico (un pezzo d’oro grande come una testa doveva pesare molti chili!) e offrissero anche “promettenti” vantaggi per il futuro, il buon Gianni si lascia indurre a continui baratti: prima l’oro contro un cavallo, poi una mucca contro il cavallo, poi una maialino contro la mucca, poi ancora un’oca grassa contro il maialino ed, infine, una mola da arrotino contro l’oca grassa. Sempre lieto dei “vantaggiosi” baratti effettuati e del più lieve procedere, il buon Gianni, giunto assetato vicino ad un fiume, si chinò sull’acqua per abbeverarsi, ma la mola gli scivolò nel fiume, perdendosi, appunto, nelle acque di questo.
Credo che sia a tutti chiaro che “la morale” della favola si presta almeno ad una doppia lettura: una (che definirei funzionalista), fatua e, forse per questo, probabilmente popolare in certi ambienti del nostro “pensare”contemporaneo, che vorrebbe, la favola, maestra di un sano disprezzo per la materialità dei beni e per il loro “valore” intrinseco; un’altra (che i detrattori potrebbero, invece, definire materialista) triste e probabilmente assai impopolare, tutta puntata sulla materialità dei beni sempre scambiati in pejus dal buon Gianni: ci rimetteva sempre, Gianni, nei baratti, senza mai rendersene conto; fino al punto di arrivare alla mèta, senza più niente, dopo aver sperperato il tesoro che gli era stato donato, per cose che gli erano apparse, di volta in volta, migliori e più utili: in fondo, quel tesoro avuto in dono dal suo padrone, era pesante da portare: esigeva fatica, sudore e duro cammino; e alla fine, un cavallo, una mucca, un maialino, un’oca o una mola erano apparsi al buon Gianni, sempre più promettenti di quel che occorreva portare sulle spalle!
Bene; mi direte: dove vai a vedere  “l’estrapolabilità” della…parabola del teologo dall’ambito teologico a quello politico?
Ve lo dico subito. A parte il fatto (lo ripeto) della perdurante attualità dell’apologo anche nel suo ambito originario, provate ad applicarla al mood politico verso ogni eredità del passato: il nuovo sarà automaticamente migliore, come ironizzava il giovane Ratzinger sulle teologie che si affacciavano ai suoi tempi. Tanto per fare un esempio, vicino per scadenze elettorali: il grande dono dell’Europa che ci è stato fatto dai nostri genitori: certo, può facilmente essere fatto apparire un fardello inutile, un gravoso residuo di romantiche idee post-belliche, da trascinare a furia di sudore: più comodo barattarlo! Magari con una piccola signoria sul nostro paesino (basta, con ‘ste regole imposte dai burocrati di Bruxelles, con ‘ste ubbìe sul debito, con ‘sti problemi di coordinamento a livello europeo!); e questa, agognata, piccola signoria confinaria, poi,  magari, barattarla con autonomie à la carte per ogni singola regione; e questa, a sua volta, poi, impegnarla per meglio proteggere le comunità locali, paesane o valligiane che siano. Tutte forse già poste lungo il fiume, dove… Gianni vide affondare la semplice mola che gli restava dopo tanti baratti.
Roma 24 marzo 2019 (vigilia della Festa dell’Annunciazione del Signore: et Verbum caro factum est)
Post-scriptum(25.3.19)
Mi si fa notare l’oscurità della connessione fra la (fugace) citazione del roveto ardente del passo del Genesi e la “polemica” sui teologi ai quali si riferiva Joseph Ratzinger.Non ho problemi a… decriptarmi: la domanda che Mosè faceva a sé stesso (Perché il roveto non brucia?) mi era parsa la sua prima intuizione di un fuoco sovrannaturale, come quello che arde, senza consumarsi, nel cuore della Verità rivelata; un’intuizione che, forse, sfugge a coloro che, come il povero Gianni, s’inducono a scambiare quel fuoco sovrannaturale che hanno ricevuto, con fiammelle di sempre più breve lucore, fino a ritrovarsi con le dita bruciate dall’ultimo fiammifero che hanno tenuto in mano.

giovedì 21 marzo 2019

Feste ebraiche

…e pensieri quaresimali
(di Felice Celato)
In questi giorni, i nostri fratelli ebrei festeggiano Purim, una festa che non ha equivalenti nel cristianesimo e che spesso viene considerata, a torto, una specie di carnevale degli ebrei, in ragione soprattutto della allegria di molte fasi della sua celebrazione. Si tratta in realtà – come spiegano gli esperti – di una celebrazione connotata di sensi storico-politici ma non priva di profondi significati religiosi, anzi messi in evidenza da alcune liturgie tradizionali che celebrano la presenza divina nella storia, nascosta dietro l’apparenza del caso (Purim significa tirare a caso).
Leggendone qualcosa qua e là (vedasi, fra gli altri, il bell’articolo di Ugo Volli, Purim, la festa della sconfitta anche militare dell’antisemitismo, sul sito progettodreyfus.com) non ho potuto fare a meno di considerare come il rapporto fra Dio e la storia costituisca da sempre uno dei punti più drammatici delle “architetture” delle nostre fedi (sia cristiano-cattolica che ebraica, e forse anche di quella islamica, della quale però so molto meno); forse il più drammatico, insieme al problema del male (del resto assai correlato al rapporto fra Dio e la storia, dell’uomo e degli uomini). In fondo, il senso stesso della preghiera ne è intriso (dacci oggi il nostro pane quotidiano, non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male): nell’Antico Testamento (basti pensare ai Salmi; ma, del resto, che cos’è l’intera narrazione biblica se non una cronaca ispirata della reciproca ricerca, nella storia del popolo eletto, dell’uomo da parte di Dio e di Dio da parte dell’uomo?); e, ovviamente, nel Nuovo Testamento; anzi, quest’ultimo è tutto incentrato sulla più pro-vocatoria delle concezioni di tale rapporto (Dio, attraverso il Figlio e lo Spirito Santo, interviene in prima persona nella storia, starei per dire vi fa irruzione prepotente, tanto che noi uomini abbiamo imparato a “spaccarla”, questa nostra storia, con la data dell’Incarnazione, ante post Christum natum).
Le implicazioni di questo rapporto (fra Dio e la storia degli uomini, come singoli e come collettività) sono, come è facile intendere, anzitutto personali, sicché – credo – per ciascuno di noi esse toccano, appunto anzitutto, l’incontro fra il Sommo Bene e la nostra propria storia, intesa come esistenza, spesso intrisa di male. Ma esse sono anche implicazioni collettive, come lo furono quelle del rapporto fra Dio e il popolo eletto dell’Antico Testamento: chi non ricorda con sgomento le parole del Deuteronomio (31, 16-18) , dove Dio disse a Mosè, annunciandogli la sua morte imminente: ”Ecco, tu stai per addormentarti con i tuoi padri. Questo popolo si alzerà e si solleverà per prostituirsi con dèi stranieri nella terra dove sta per entrare. Mi abbandonerà e infrangerà l’alleanza che io ho stabilito con lui: io li abbandonerò, nasconderò loro il volto e saranno divorati. Lo colpiranno malanni numerosi ed angosciosi e in quel giorno dirà: ’Questi mali non mi hanno forse colpito per il fatto che il mio Dio non è più in mezzo a me?’ Io, in quel giorno, nasconderò il mio volto a causa di tutto il male che avranno fatto rivolgendosi ad altri dèi”.
Se non ci fosse stata (per noi cristiani) la theologia crucis, con Cristo che prende su di sé il peccato del mondo e riassume in sé ogni vicenda fra Dio e l’uomo, il drammatico scenario del Dio che nasconde il proprio volto al suo popolo a causa della sua infedeltà non potrebbe non risuonare come profondamente inquietante anche alle nostre orecchie contemporanee, che tanto si sono fatte avvezze all’ascolto compiacente di ogni sorta di infedeltà (rispetto alla nostra natura creaturale).
Per fortuna, come ben a proposito ci ricorda anche la festa di Purim, la presenza di Dio nella storia si nasconde dietro l’apparenza del caso e i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri, le nostre vie non sono le Sue vie. Ci sarà dunque, senz’altro, fra i tanti casi di questi tempi, il caso ancora nascosto ai nostri occhi che cela in sé una luce nuova sulle cose, una luce che ora non vediamo, capace di risvegliare i sonnambuli che siamo diventati e di richiamarci semplicemente al nostro essere uomini, seri, buoni, creature di Dio pensanti e, perciò, partecipi del Suo Logos (anzi, immerse nel Suo Logos).
Roma 21 marzo 2019


                              

sabato 16 marzo 2019

Segnalazione

Pandering programs
(di Felice Celato)
Ho citato diverse volte, su questo blog, Fareed Zakaria; la prima volta (in Conversazioni asincronepost del 7 aprile 2017) ho parlato di due suoi fondamentali scritti (un saggio del 1997 e, poi il magnifico libro The future of freedom, del 2003) nei quali ha coniato la fortunata espressione (dal vago sapore di ossimoro, per la verità solo apparente) illiberal democracy per descrivere la grave patologia che da qualche decennio ha cominciato ad infettare anche ben solide democrazie occidentali: una perniciosa evoluzione dei metodi di formazione della volontà dello stato ha progressivamente eroso (o messo a grave rischio) addirittura lo statuto liberale dello stato stesso (il bel libro di Yascha Mounk di cui parlavamo venti giorni fa, in fondo, riprende lucidamente proprio questo tema). 
Di questo acuto osservatore indiano – ormai ascoltatissimo esperto statunitense di geopolitica e di affari internazionali – voglio oggi segnalare una fulminante sintesi delle politiche populiste dei nostri tempi (al di là e al di qua dell’Atlantico) che mi pare meriti di essere memorizzata. L’articolo da cui la traggo (vedi link, sotto) riguarda, per la verità, il cruciale significato della vicenda Brexit (nelle sue attuali contorsioni, per le quali Britain.. is suddenly looking like a banana republic, dice aspramente Zakaria ), sia per il futuro dell’Inghilterra quale punto di forza fra le democrazie liberali occidentali (insieme agli Stati Uniti), sia per il complessivo ruolo di queste, nel loro insieme, come punto di riferimento strategico e politico dell’occidente. [Un giudizio molto severo e assai preoccupante per l’autorevolezza di chi lo formula].
Ma il punto di partenza dell’articolo di Zakaria è un altro (e, su questo, qui, vorrei soffermarmi): una delle grandi forze della democrazia sta nella reversibilità delle politiche sbagliate (le bad policies). E questa – scrive sempre Zakaria – è una consolazione quando si consideri the flurry of pandering programs being enacted as the populist wave works its way through the Western world (traduzione mia: la raffica di programmi ruffiani in corso di attuazione, man a mano che l’ondata populista fa la sua strada nel mondo Occidentale).
Bene. Non ho saputo trovare una traduzione più elegante per il termine inglese pandering (fare da mezzano, soddisfare debolezze o vizi altrui per trarne profitto, compiacere, etc.); l’uso del nostrano ruffiano merita però alcune precisazioni, perché l’espressione è forte (del resto, in Shakespeare, il personaggio di Pandaro è proprio "l'eponimo di ogni ruffiano").
Che cosa si può intendere per programmi ruffiani
Dico subito che la personalissima etichettatura di un programma politico come ruffiano, nella mia ottica, è lungi dal rappresentare una caratteristica recente delle cose politiche Italiane, ancorché di recente se ne possa essere accentuata la ricorrenza. Diamo, intanto, per scontata una ripetuta connotazione elettoralistica dei programmi politici (melius: di alcuni programmi politici): da sempre, in vista delle elezioni, l’elettore viene blandito con promesse o provvedimenti caduchi ed ingannevoli, finalizzati ad ammiccare più o meno sfacciatamente alle varie constituencies (una volta si parlava di promesse o provvedimenti clientelari, ma la sostanza era la stessa). Più maturo, evoluto e critico è l’elettorato e meno questa traenza elettoralistica funziona. Da noi funziona ancora magnificamente bene.
Assai più delicato, invece, mi pare il problema dei programmi politici strutturalmente ruffiani, cioè quelli nei quali l’elemento di ingannevolezza non è contingente (legato alle elezioni) ma sostanzialmente e durevolmente mendace, di una mendacia, per così dire, a lungo termine, fatta di costanti elusioni di veri problemi (per esempio, da noi, quello del debito pubblico), di spaccio di potenti distrazioni di massa o – se proprio il problema ha una sua tenace evidenza – di “soluzioni” fasulle, spesso foriere di semplici aggravamenti di problemi. Non è il caso qui (mentre le tradizionali 750 parole circa del post stanno esaurendosi) di mettersi a fare un elenco di provvedimenti del genere, del passato e del presente: ognuno può farsene uno, conforme alle sue visioni della politica e alla sua conoscenza delle cose, c’è ampia scelta. Mi pare invece assai più importante (almeno qui) cogliere l’intrinseca pericolosità dei pandering programs: è vero che – diceva Abraham Lincoln – si possono ingannare poche persone per molto tempo o molte persone per poco tempo. Ma non si possono ingannare molte persone per molto tempo. A parte ciò, però (ma non indipendentemente da ciò), spacciare costantemente inganni come strumento di democrazia, alla lunga, corrode la democrazia stessa; e allora il problema non è solo quello, di per sé spaventoso, di derive illiberali delle democrazie, ma anche quello della tenuta stessa dei meccanismi democratici.
Roma, 16 marzo 2019




martedì 12 marzo 2019

Uno sfidante trentennio

L’era del WWW?
(di Felice Celato)
Come ho appreso l’altro giorno dalla interessante rubrica Media e dintorni (su Radio Radicale), pare che ricorra oggi il 30° anniversario della nascita del World Wide Web (WWW): il prototipo di quello che sarebbe diventato il motore diffusivo dell’accesso privato alla rete internet  fu infatti presentato all’interno del CERN di Ginevra, dal ricercatore Tim Berners-Lee, proprio il 12 marzo del 1989; e successivamente reso di pubblico dominio e di libera accessibilità, come HyperText Transfer Protocol, il sistema che permette la lettura ipertestuale e non sequenziale di documenti, cioè saltando liberamente da un testo all’altro mediante un web browser che consente di navigare attraverso il patrimonio di conoscenze censito in tutto il mondo. In sostanza – mi pare di aver capito in base alle mie scarse nozioni di informatica – si trattò della data d’avvio della straordinaria, ampia diffusione di internet come veicolo di conoscenza (e di informazione) a libera disposizione di chiunque; una data – questo invece l’abbiamo capito tutti – veramente storica nel più recente corso dell’evoluzione dell’uomo e dei suoi modi di vita.
Francamente non riesco a comprendere gli atteggiamenti di coloro che sdegnano le straordinarie possibilità offerte dal sistema, esaltandone solo l’intrinseca (ovvia) ambiguità: l’accesso alla conoscenza non è la conoscenza; l’informazione, quand’anche corretta, non è competenza;  e il mezzo non è il fine; va bene, guai a fare confusione. 
Ma detto questo, pare difficile banalizzare l’enorme potenzialità degli strumenti che ilWWW ha posto a nostra disposizione; potenzialità che è, invece, assai più facile percepire, in via analogica, magari riandando indietro a pregresse esperienze di altri “salti” della storia, per esempio, all’epoca della nascita e della diffusione della stampa. 
Bene. Messo da parte l’anniversario, viene però utile ritornare su un tema ormai pacifico fra gli studiosi di politica e di sociologia (e del resto accennato anche nel post che recentemente abbiamo dedicato alle Letture serie, parlando del libro di Yascha Mounk Popolo vs. Democrazia): il decisivo influsso di internet sui contemporanei modelli di democrazia.
Si può fondatamente disputare sulla complessiva positività di tale influsso (che Mounk, per esempio, definisce “corrosivo”, rispetto al “bene” della democrazia liberale), cioè sulla bontà della disintermediazione che ha interessato la vita politica (come del resto ha interessato quella pratica, di ogni giorno, dall’home banking al viaggio-fai-da-te); si potrebbe, ben a ragione, obbiettare che, in politica, la complessità del mondo moderno impone, invece, una profonda intermediazione tecnocratica, senza la quale la disponibilità di informazioni è comunque cieca (o addirittura fuorviante). Ma ancora una volta si tornerebbe all’eterno tema dell’ambiguità di ogni cambiamento, o, se volete, a quello ancor più generale del rapporto fra i mezzi e i fini: è l’uomo che deve fare, dei mezzi ( e di quelli nuovi in particolare), l’uso più saggio, siano essi, chessò, i mercati o la finanza  o, per paradosso di più immediata comprensione, l’energia nucleare o l’elettricità (con la quale posso illuminare a giorno una città o bruciare un uomo legato ad una sedia). Ma è certo che la disponibilità di mezzi estremamente potenti avvicina, in via di principio, il conseguimento dei fini più ambiziosi, pur nella permanente ambiguità dei percorsi per – appunto – raggiungerli; ambiguità che, anzi, cresce a dismisura in funzione della potenza del mezzo (con una bicicletta posso sbagliare strada e arrivare nel villaggio sbagliato, con l’aereo – se sbaglio la rotta – posso arrivare nel continente sbagliato). Nel nostro caso (i modelli di democrazia), sappiamo bene che il fine più ambizioso (la perfetta coincidenza fra il volere del popolo e la piena coscienza delle sue decisioni) è assai difficile da conseguire (come dimostrano tante esperienze anche recenti); tanto da apparire quasi impossibile.
Eppure, per non ammettere che stavolta disponiamo di un mezzo del quale non riusciamo né a trarre tutti i benefici che offrirebbe né a padroneggiare gli effetti “corrosivi”, non appare pensabile la rinuncia alle potenzialità del mezzo, di fronte alla ambivalenza dei risultati che permette di conseguire. 
Il fatto è che più complessa si fa l’esistenza dell’uomo nei molteplici ed articolati scenari del mondo, più pressante si fa l’immane esigenza di un umanesimo più educato, più cosciente, più responsabile. I cattolici, come me, potrebbero impopolarmente ricordare a sé stessi che l’uomo da sé non può fondare un vero umanesimo, come scrivevano Paolo VI e Benedetto XVI; ma volendo restare nel recinto di un ragionamento laico, dobbiamo comunque concludere che stavolta la potenza del mezzo pone senza dubbio sfide più che proporzionate.
Roma 12 marzo 2019





martedì 5 marzo 2019

W l'Europa

Rinascimento Europeo
(di Felice Celato)
Con un testo diffuso in tutti i 28 Paesi dell’Unione Europea, il Presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron si è rivolto agli Europei; in sostanza per proporre, secondo le sue espressioni, un Rinascimento Europeo, fatto di libertà, protezione e progresso, come esigenza di azione per non essere i sonnambuli di un’Europa rammollita, per resistere, fieri e lucidi,… al ripiego nazionalista (rifiuto senza progetto) che nulla propone (chi ha detto ai britannici la verità sul loro futuro dopo la Brexit?), per proclamare il successo storico dell’Europa e la sua necessità politica (mai dalla seconda guerra mondiale, l’Europa è stata così necessaria. Eppure mai l’Europa è stata in tanto pericolo) di fronte ad un presente e ad un futuro in cui la dimensione dei problemi è di scala globale.
A mia memoria è la prima volta che il leader di un Paese Europeo si rivolge direttamente ai cittadini d’Europa, fra l’altro in vista di un passaggio elettorale  dove - temo- gli occhi delle talpe verranno spacciati per quelli delle aquile. 
E spero che dal milieu politico Italiano venga accolto con intelligenza, senza i consueti (e talora fondati) complessi di inferiorità, come proposta alta di valori e di programmi da mettere a punto e da attuare insieme, per progredire e non per contendere, per costruire e non per distruggere, per unire non per dividere.
Nel 1957, quando il processo di integrazione Europea prese le mosse col Trattato di Roma, avevo appena 8 anni; posso quindi dire di aver vissuto praticamente l’intera vita come cittadino dell’Europa e di essere fiero della pace, della libertà, della cultura e del progresso che questa cittadinanza ha regalato a me e ai miei figli. E non devo nemmeno far ricorso alle identità multiple di cui parlava Amartya Sen per sentirmi allo stesso tempo pienamente europeo, italiano, marchigiano, cattolico, monogamo, garantista, liberale, immigrazionista, milanista, etc. e persino golfista. 
Non so se il messaggio di Macron possa dirsi un Manifesto per l’Europa come pure l’hanno definito alcuni giornali Italiani; e tuttavia ne raccomando la lettura (qui il link per corriere.it https://www.corriere.it/esteri/19_marzo_04/macron-rinascimento-l-europa-che-va-voto-a690e9e6-3eb5-11e9-9f32-100a9420857f.shtml).
Roma 5 marzo 2019






















domenica 3 marzo 2019

Anniversario

Bilanci di corto respiro
(di Felice Celato)
Ricorrendo, domani, l’anniversario di quella che io considero forse la più significativa svolta politica degli ultimi trent’anni in Italia, vale la pena – anche per soppesare i nostri sensi del presente – ripercorrere brevemente quelle che, su questo blog, erano state le attese prima del voto e le impressioni ex post, sia pure ancora a caldo.
Dunque il 1° marzo del 2018 (tre giorni prima del voto) le nostre aspettative erano per un Italia che sarebbe uscita dalla prova elettorale più divisa, egualmente confusa, più pericolosa, più pericolante di come vi era entratae ciò – scrivevamo – a prescindere da chi “vincerà”, in quanto l’Italia ci sembrava soffocata dai suoi problemi di sempre, esaltati da un contesto internazionale dove l’insicurezza e la domanda di protezione purchessia sono diventate una cifra diffusa del mondo lato sensu occidentale, non contrastati (da noi) da adeguati anticorpi. Anzi, in questo senso, le elezioni finivano per sembrarci, paradossalmente, “una passione inutile”, un esercizio democratico a cui ci sottoponiamo con scettica passione, per esorcizzare il vuoto che ci siamo costruiti d’attorno… aggrappati alla esile speranza che il nostro paese potesse risultare, alla fine, migliore della classe dirigente che ha espresso [nei decenni più recenti].
Qualche giorno dopo, a scrutini ancora “caldi” (il 6 marzo), ancora formalmente incerti su come si sarebbe composto lo scenario di governo del Paese, finivamo per rifugiarci in considerazioni di carattere, per così dire, filosofico: nelle moderne democrazie, c’è ancora spazio per la politica del “difficile”? O, necessariamente, per vincere, la politica deve essere “facile” (in ciò che prospetta, prima; e in quello che fa poi, come racconta la storia del nostro debito pubblico)? Insomma: oggi, con il dominio della comunicazione che caratterizza le nostre società e in una situazione per molti aspetti assai complicata, ha senso politico porre al popolo difficili obbiettivi per il domani, da duramente perseguire nell’oggi? Ovvero occorre coscientemente e ogni giorno costruire il gap che separa ciò che si propone da ciò che si dovrà comunque fare (con ciò, in fondo,  confezionando suggestive narrazioni)? Per sintetizzare brutalmente: il popolo vuole ascoltare solo quello che gli fa piacere? Il politico vuole solo capitalizzare il suo transitorio periodo di potere, prima di essere processato dai fatti?
Bene; oggi a distanza di un anno varrebbe forse la pena, come dicevamo all’inizio, di riconsiderare criticamente ciò che allora ci sembrava e di abbozzare un primo bilancio, cominciando, come è ovvio, dall’azione governativa: qui, per la verità, se si prescinde dagli innegabili effetti negativi di breve periodo (spread, contrazione economica, isolamento internazionale, etc), tutti correlati ad alcuni atteggiamenti assunti con clamore estroverso (cioè, etimologicamente, volto all’esterno), occorre riconoscere che un sereno giudizio più ampio è forse prematuro, essendo l’azione di governo in fondo tuttora incentrata su narrazioni non ancora sperimentate nelle conseguenze di medio e di lungo periodo, sul piano politico (posizionamento internazionale), economico-finanziario (ripresa economica e debito pubblico)  e sociale (immigrazione, andamenti demografici e, soprattutto, diritti civili). E perciò sospendiamo (perplessi ma molto preoccupati) ogni giudizio prospettico. Il fatto che ci lascia più sconsolati è che, purtroppo, le nostre aspettative – per quanto per loro natura fallaci e provvisorie – da ultimo si sono costantemente rivelate presaghe di veri guai; non – si badi bene – per l’acume di chi le coltiva e le esprime ma per la natura evidente dei sottostanti problemi (culturali, sociologici e – ebbene sì, lo ripetiamo con dolorosa tenacia! – antropologici) che caratterizzano da non poco tempo il nostro presente. Problemi ai quali, quand’anche lo si volesse veramente, è arduo mettere mano in breve tempo e in un contesto internazionale così compromesso qual è quello che viviamo e nel quale – come abbiamo visto, da ultimo, anche nelle Letture serie da poco segnalate – molti fenomeni si collegano, pur nella diversità dell’intensità e della resilienza civile dei diversi soggetti.
Roma  3 marzo 2019