sabato 28 ottobre 2017

Passi sulla ghiaia triste

Pensieri per una visita al cimitero
(di Felice Celato)
Il decorso del tempo avvicina alla morte: un po’, come è ovvio, perché accorcia la vita che ci aspetta; ma un po’ anche perché accresce la nostra pre-esperienza della morte. Della morte, infatti, per umana esperienza sappiamo solo quello che abbiamo visto negli altri, specie in quelli più cari e vicini: l’improvviso buio, inatteso, fulminante, talora sconvolgente; oppure il lento declino della luce terrena, spesso condito dal dolore; il senso del vuoto negli affetti di chi assiste impotente a quello spegnersi della luce vitale; le estreme domande. Per naturale decorso della vita, quest’ umana esperienza diventa più spessa col decorrere degli anni, quasi a prepararci a quell’esperienza diretta che si avvicina a passi inesorabili e della quale nessuno ha mai riferito.
Noi cristiani sappiamo per fede che sia che viviamo sia che moriamo, siamo del Signore (Rm, 14, 8); e per questo della morte del corpo, in sé, non abbiamo paura (quand’anche temessimo, come è naturale, il dolore che talora accompagna questo nuovo parto): quando, al momento della morte, la relazione con Dio si realizza pienamente nell’incontro con “Colui che non muore”…allora siamo nella vita; allora viviamo. (Benedetto XVI, Spe salvi, 27). Forse è per questo che nel Simbolo degli Apostoli diciamo Credo…..nella comunione dei santi, la quale riunisce assieme tutti coloro – mondanamente “vivi” o “morti” - che hanno ricevuto lo Spirito (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, 2005, pg 325); e, quindi, ci mantiene uniti a quelli che ci hanno preceduto nell’Incontro, anche dopo che per esso ci hanno lasciato; siano essi Santi conclamati, santi silenziosi ed ignoti, santi per la vita che ci hanno dedicato o, solo, fatti santi dal Perdono che fa di nuovo giusti tutti gli uomini
Mi ripetevo queste cose nell’apparecchiarmi ai pochi passi sulla ghiaia triste del cimitero dei miei cari, dove questi pensieri danno il senso al semplice rito di questi giorni. Mentre riflettevo, però, non ho potuto fare a meno, da uomo amante della ragione, di domandarmi: come spiegare questo “sentire” su un blog che, fra i suoi lettori, ha – diciamo – almeno un 50% di convinti increduli?
Il fatto è, cari amici increduli (veri o immaginari che siate, originari o di ritorno, attenti o distratti dal mondo, integrali o semplicemente anticlericali), che ciò che noi cristiani crediamo è il contenuto di una Rivelazione (custodita, meditata ed elaborata nei secoli) alla quale abbiamo scelto – l’opzione fondamentale – di abbandonarci, per sfuggire a quella mancanza di senso che condivideremmo con voi se non credessimo.  Non trovo parole migliori di quelle che seguono (J. Ratzinger, già cit., pg 37 e sg) per spiegare questo concetto: per quanto energicamente [il non credente ] possa atteggiarsi a positivista, che già da un pezzo si è lasciato alle spalle ogni tentazione e suscettibilità soprannaturale, vivendo attualmente solo di coscienza immediata, la segreta incertezza se il positivismo abbia davvero l’ultima parola non lo abbandonerà mai….Allo stesso modo in cui il credente ha la netta consapevolezza di essere continuamente minacciato dall’incredulità, così la fede resta per l’incredulo una continua minaccia ed una tentazione incombente sul suo mondo apparentemente sempre chiuso. In una parola: non si sfugge al dilemma dell’essere uomini. Chi pretende di sfuggire l’incertezza della fede dovrà fare i conti con l’incertezza dell’incredulità, la quale, dal canto suo, non potrà nemmeno dire con inoppugnabile certezza se la fede non sia realmente la verità.
In fondo, “solo” quest’opzione fondamentale ci divide, cari amici increduli: credere vuol dire aver deciso che il vedere, l’udire e il toccare non fissano i limiti del nostro mondo e che esiste una seconda forma di accesso alla realtà dalla quale è anche possibile trarre il senso di un’esistenza veramente umana. Ciò che non può essere visto, quello che non può entrare nel nostro raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma è anzi l’autentica realtà: quella che sorregge e rende possibile ogni altra realtà.
Ecco…..semplicemente da tutto ciò prendono senso i nostri passi sulla ghiaia triste.
Roma 28 ottobre 2017


giovedì 26 ottobre 2017

Dies albo

Papocchi
(di Felice Celato)
Non vorrei che anche questo sia un segno del degrado antropologico che, investendo ormai da tempo l’intero paese, probabilmente non  mi risparmia; eppure - tristo segno - questo sarebbe (anzi: è) il terzo post consecutivo nel quale non abbiamo trovato argomenti di conversazione  più intelligenti (o, se amate il sarcasmo, meno spassosi) dei discorsi di politica politicata
A mia parziale discolpa, però, devo dire che oggi, perbacco!, è un giorno “speciale” per un paese “speciale” come il nostro, dies albo signanda lapillo, direbbero gli antichi Romani (un giorno da segnare con un sassolino bianco); e ciò, per almeno tre motivi concomitanti: (1) finalmente sappiamo come voteremo fra poco più di 100 giorni! Il Rosatellum è legge! (2) Ora sappiamo chi proporrà, il Governo, come Governatore della Banca d’Italia dopo che il partito di governo aveva clamorosamente sfiduciato l’attuale, Ignazio Visco. (3) Il partito di governo fa sapere di voler rinviare l’adeguamento dell’età della pensione alle aspettative di vita degli Italiani, previsto da una legge e, malauguratamente, reso necessario dalla struttura della nostra spesa pubblica ( e previdenziale).
Dunque, fra nuovi papocchi ormai certi, prevedibili papocchi acrobatici e imprevedibili promesse di nuovi papocchi, possiamo veramente dire che oggi è un giorno speciale di ordinaria insufficienza.
Tre rapidissimi cenni sui tre “eventi”:
(1) Rosatellum
Da tempo sono convinto che non sono i sistemi elettorali a far funzionare uno stato ma l’assetto sociologico del sottostante Paese: a paese incolto, suggestionabile, emotivo, frazionato e fazioso corrisponderà sempre un parlamento della stessa fatta, qualunque sia il modello attraverso il quale lo si selezioni; e i governi che esprimerà tale paese saranno, a loro volta, il riflesso di tale parlamento. Tanto più, quanto più si è fatta corta ed esagitata la “catena di trasmissione” fra opinione pubblica e governo. Per la verità la cronaca dell’Italia di questi tempi ha sempre dimostrato che la mia insensibilità al tema non trova riscontri nelle valutazioni della nostra classe dirigente: senza contare i sistemi elettorali per Europa, regioni, province e comuni, negli ultimi 70 anni abbiamo cambiato sistema, con velocità progressiva, almeno 7 volte (mal contate, comprese “legge truffa”, sua abolizione, Mattarellum, Porcellum, Italicum, Consultellum, Rosatellum, etc) alternandoci fra fugaci innamoramenti  maggioritari (temperati, per carità!, dovessimo mai apparire decisi a qualcosa!) e sistemi  proporzionali mixati a geometria carpiata e variabile (fra Camera e Senato). Ora, previa regolari accapigliamenti a forza di insulti e pantomime, siamo atterrati - è proprio il caso di dirlo - su un mix proporzional-maggioritario al quale è stato affibbiato il nomignolo (che vorrebbe essere) “spiritoso” di Rosatellum. Vedremo quanto durerà. Molto dipenderà, statene sicuri, dalla cosa alla quale gli italiani sembrano tenere di più (secondo la mito-poiesi popolare): che si sappia, la sera delle elezioni, chi ha vinto! Se poi chi avrà vinto si sarà messo a capo di un coacervo di provvisori compagni di tappa, pronti alla fuga alla prima collina da superare, non ci importa: l’importante è sapere chi ha vinto, saperlo subito per evitare “il teatrino della politica”, che poi sarebbe la ricerca dell’”inciucio”. Ormai non ragioniamo più, ci limitiamo a brandeggiare slogan, anche quando faticano a trovare fondamento, anche nella nostra meta-realtà!
(2) Nomine Viscose
La Banca d’Italia non è forse più quella di una volta; del resto le sue competenze si sono enormemente ristrette con il trasferimento della sovranità monetarie alla BCE. Ma la politica italiana è rimasta, nonostante tutto, la stessa: non sa rinunciare ai suoi vizi (o vezzi?) verso (tuttora) delicate funzioni istituzionali; anzi forse proprio non ha il senso delle Istituzioni, specie quando queste non sono incarnate da politici.
E, dunque, il Governo, con inevitabile saggezza, riproporrà Visco come successore di sé stesso; e il partito di governo avrà fatto – come gli accade sempre più spesso nella rincorsa a chi è più rock - uno Shakespeariano much ado about nothing, all’insegna de “l’importante è solo riuscire ad ascoltare la propria voce” (anche il far ascoltare sta diventando meno rilevante).
(3) Vecchiaie lunghe
Questa è la più seria delle questioni e forse non è nemmeno opportuno farne oggetto di sarcasmi. La cito qui perché l’italico aroma del papocchio è forte. Del resto, ragionare non è rock.
Conclusioni. Il deficit di classe dirigente è palese; i problemi che ci concernono sono assai più complessi di come dimostrano di comprenderli coloro che li stanno gestendo. Questo è il problema della nostra politica. [Sempre speranzoso di errate valutazioni, ovviamente!]
Roma 26 ottobre 2017
P.S.: Per fortuna arriva la settimana dei morti, che inevitabilmente ci riconduce a temi meno contingenti ( e più prossimi).



martedì 24 ottobre 2017

Mah!

Perplessità referendarie
(di Felice Celato)
Sui referendum del Lombardo Veneto abbiamo già espresso le nostre perplessità col post dell’altro giorno. Oggi i giornali italiani offrono una larga messe di commenti e di valutazioni di varia natura, sugli esiti e sulle prevedibili conseguenze. Perciò non è proprio il caso di improvvisarne qui altre, forse nemmeno dotate di comprabile conoscenza degli ambienti sociologici nei quali si sono svolte le consultazioni di cui discutiamo.
Mi va però di soffermarmi brevemente sul commento che più mi colpito per crudezza e semplicità. Mi riferisco all’articolo dello scrittore Ferdinando Camon su La Stampa di oggi (titolo: Se la capitale diventa un nemico). Non so se è vero quanto vi scrive lo scrittore veneto, commentando il referendum svoltosi nella sua regione: l’uomo veneto odia Roma e tutto ciò che è romano, quindi anche l’Italia, sentita come una provincia romana….L’odio verso Roma è la spinta che fa emergere l’identità dell’uomo veneto, che si manifesta soprattutto come identità economica e fiscale. L’uomo è i soldi che ha. E questo, se così è, non è certamente bello; e – di per sé – sicuramente non foriero di buone cose.
Quel che, fin d’ora, mi appare certo è che dal “successo” del referendum Veneto (quello Lombardo è stato, pare, un mezzo fallimento, organizzativo e numerico; si dice: perché, in realtà, Milano è l’unica città Italiana veramente Europea; il che giustificherebbe però il solo flop numerico) non potranno che nascere non imprevedibili (e forse desiderate) beghe di portata largamente eccedente le nostre capacità di soluzione. Almeno di quelle attualmente messe in vetrina dalla governance politica di questo sciagurato paese.
Lasciamo da parte, perché proprio non mi appassionano, le discussioni sulla natura dell’esito referendario ai fini degli equilibri all’interno della Lega (o della coalizione di centro-destra): politicume inadeguato alla natura, gravità ed urgenza dei nostri problemi, al di là di quello che ne possano pensare gli ideologi dell’ottimismo per principio.
Il fatto è, però, che le interpretazioni che si danno al 98% dei consensi espressi dal 57 % degli elettori veneti (che sono, tutti insieme, meno del 10 % di quelli Italiani) al quesito (deamicisiano, lo definisce Camon) sono a dir poco....vaste; comunque largamente eccedenti l’ambito sociologico della consultazione.  La domanda era: Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia? Ai Sì, si daranno ora le valenze che si vorrà, comprese quelle già enunciate dal presidente della Regione Veneto sui famosi residui fiscali di cui abbiamo parlato nel post precedente.
La vicenda – della quale vedremo presto le conseguenze sul livello di rissosità del nostro ambiente politico, in un tempo che proprio non ne necessita – mi suggerisce una considerazione – se mi è consentito – di natura meta-politica, starei per dire morale, sempre aggrovigliata però sul nodo del rapporto fra opinione pubblica e politica.
Che la politica, in un sistema democratico, abbia necessità di un saldo rapporto col detentore del potere (il dèmos) è cosa fisiologica, insita negli stessi meccanismi della rappresentanza: i politici, per così dire, si nutrono delle istanze del popolo e – attraverso il meccanismo che li seleziona e li rende (o dovrebbe renderli) idonei allo scopo – le interpretano, le rappresentano e, quando è possibile, le trasformano in azione di governo, politicamente e tecnicamente mediata. Di più: nell’esercitare tale rappresentanza, i politici possono anche alimentare il dèmos di stimoli che ne guidino le sensibilità e ne arricchiscano la capacità di comprendere e anche di desiderare una “riprogettazione” della società in cui vive. E’ questo – se vogliamo – il lato attivo della rappresentanza politica, che, in qualche modo, costituisce l’essenza della leadership che si desidera incarnata dal politico.
Ma, nella vicenda Veneta, siamo lontani, secondo me, da questa fisiologica dinamica che ho cercato di sintetizzare con povere parole. Qui, se è vero l’odio di cui parla Camon, si è fatto leva su di esso per somministrare al popolo una provocazione oscura, nell’intento di generarne una reazione ingenuamente  egoista sulla quale costruire un’azione politica tuttora indefinita, che ora resta tutta affidata alla leadership del Presidente della Regione, nel generato equivoco che essa possa, banalmente, produrre soldi.
Insomma la dinamica della leadership è stata, ancora una volta, utilizzata per “grattare la pancia” di un limitato numero di elettori, al fine di produrre un’eruzione di ostilità destinata all’ esaltazione di un egoismo regionale. Pare – lo scrive Camon – con la “benedizione” del Patriarca di Venezia.
Mah! Rimango perplesso. Ma anche speranzoso di sbagliarmi.
Roma 24 ottobre 2017











mercoledì 18 ottobre 2017

Parva referenda

…in vasta materia
( di Felice Celato)
Non voglio entrare  nelle valutazioni giuridiche che afferiscono (molto criticamente) alla natura ed alla formulazione dei due referendum consultivi regionali di domenica prossima in Lombardia e Veneto (nel Lombardo-Veneto, si sarebbe detto nel Risorgimento, quando l’Italia si faceva; è vero: prima di fare gli Italiani!).
E nemmeno voglio entrare in quelle di natura economico-fiscale (i cosiddetti residui fiscali) che si vorrebbe porre a supporto delle rivendicazioni delle regioni interessate: sul calcolo dei residui fiscali (differenza fra contributi che ciascun individuo fornisce al finanziamento dell’azione pubblica e benefici che ne riceve sotto forma di servizi pubblici, misurata, per lo scopo, a livello di aggregati regionali) anche gli specialisti hanno dubbi molto rilevanti, in ordine ai criteri di calcolo e, di conseguenza, agli importi menzionati nel  mini “dibattito” che va, tardivamente, nascendo sui giornali.
E tuttavia è bene avere presente che, in linea di principio, lo scostamento da una teorica uguaglianza dei residui fiscali dei singoli cittadini (o se si preferisce delle singole regioni) per modo che ciascuno non riceva solo in ragione di quanto dà, è un tipico strumento di redistribuzione delle risorse e, in fondo – chiamiamola così – di solidarietà fiscale.  Non a caso (vedansi i dati pubblicati da Fabrizio Tuzi su lavoce.info del 17 10 17) sono, ovviamente, le regioni a reddito pro-capite più basso (e quelle a statuto speciale) a ricevere i flussi redistributivi originati in quelle a reddito pro-capite più alto (e ciò in parziale indipendenza dai livelli di spesa pubblica pro-capite su base regionale!).
Starei per dire che, francamente, non ci trovo nulla di strano, né nulla cui abbia senso ribellarsi sia pure con uno strumento “democratico” come quello del referendum (e sia pure a base regionale e di natura consultiva): né, infine, ci trovo un valido fondamento per rivendicare una ridistribuzione delle competenze fra Stato e Regione. Anzi, al di là di ogni considerazione etica (che pure va fatta), pur senza essere uno specialista del diritto costituzionale lo squilibrio dei residui fiscali  mi parrebbe, infatti, una diretta conseguenza del principio, appunto costituzionale, della solidarietà  basata sulla capacità contributiva (art. 2 e 53 della Costituzione). Quanto alla conseguente postulazione di ulteriori competenze (a “riequilibrio” degli squilibrati residui fiscali) penserei che la riforma del Titolo V della Costituzione (anno 2001 ) abbia già fatto sufficienti danni da imporre un’ urgente riconsiderazione (magari in senso restrittivo).
D’altra parte, però, non si può non riconoscere che, dal punto di vista “politico” (nel senso deteriore del termine, come si usa in Italia), l’iniziativa referendaria consultiva del Lombardo-Veneto sia quanto mai azzeccata: nei modi (in fondo un eventuale esito positivo per i proponenti non mira ad altro che ad avviare un negoziato Stato-Regioni, senza “sgarri” in salsa Catalana ); nei tempi (a valle di fermenti autonomistici europei e a monte di prossime elezioni politiche cui aggiungere altre motivazioni a presa vivace); e, infine, nelle suggestioni proposte (non a caso, per esempio, la Lombardia pone - al punto 7 del fascicolo col quale ha presentato agli elettori il referendum - fra le competenze che dovrebbero riequilibrare i residui fiscali negativi più alti d’Italia, le materie di sicurezza, immigrazione ed ordine pubblico).
Ma, lasciatemi dire una cosa che non crederete, non voglio nemmeno discutere di politica, perché di questa politica delle opportunità tattiche e contingenti ne ho piene le tasche: o cominciamo a guardare più avanti del nostro naso o prima o poi batteremo il muso!
Solo mi voglio porre una serie di domande, alle quali temo di dover trovare risposte (che, perciò, non provo a darmi): a che cosa porta - in prospettiva, se si vuole, paradossale -  il ragionamento che sorregge l’iniziativa in discorso? A un’Italia dei Comuni e magari, poi, delle corporazioni? Che tipo di cittadini, che tipo di società, che tipo di Stato si immagina chi porta avanti questi referendum? E in quale personale “versione” dell’Europa? Quale visione del mondo supporta questo lento “accompagno” dell’interesse “nazionale”, cui, in tanti tavoli, si dice di tenere, almeno nei confronti dell’Europa?
Si potrà obbiettare che siffatto tipo di domande implica l’abbandono della (più realistica e certamente prevalente) prospettiva tattico-contingente della provocazione referendaria; e forse a ragione. Ma non per questo diventa accettabile riportare materie che suscitano tali domande all’esito di due discussi e discutibili processi referendari, sia pure regionali (in 2 delle 21 regioni), sia pure consultivi.
Roma 18 ottobre 2107