Ruminazioni
e altre spigolature
(di Felice Celato)
Rimuginando fra me e me il problema del popolo come mito (che
da qualche tempo mi appassiona), ovvero (cfr. post dell’altro giorno) del popolo golem
dei politici populisti, mi sono spostato a considerare il mito negativo che il popolo
come mito postula: le élites
corrotte e immorali. Dico subito che il mito
negativo mi lascia perplessità non meno gravi di quelle che mi suscita il popolo come mito (positivo): per ragioni
di vita mi è capitato il caso di aver frequentato a lungo ambienti dei quali
facilmente si presumerebbe l’elitarismo (culturale, sociale e perfino
economico); da vecchio come ormai sono, lontano ormai da ogni rapporto con le élites come categoria sociologica ma
geloso custode delle poche amicizie che magari in tali ambienti mi è capitato
di sviluppare e che tuttora conservo (e si tratta peraltro – ormai – solo di élites intellettuali), posso guardare
con distacco al mondo che ho attraversato, convinto di avervi trovato luminosi costruttori di bene
e spietati egocentrici, meravigliosi gentiluomini e paludati farabutti, avidi
affamati e disinteressati facitori, competenti e cialtroni impenitenti; né più
né meno di quanto mi è accaduto di incontrare nel mondo del cosiddetto popolo che
ho pure a lungo frequentato; se posso dire: qui mancava solo il paludamento;
talora. Non ho trovato caratteristiche morali distintive; semmai solo culturali
(e con le debite eccezioni).
Le élites – si dice, quando,
intelligentemente, ci si allontana dal loro mito negativo e ci si avventura
nella storia – hanno commesso degli errori. Non ho difficoltà a crederlo (è
appena uscito un libro di Paolo Mieli, Il
caos Italiano – Alle radici del nostro dissesto, che non ho ancora letto e che,
pare, ne fa un censimento storico da leggere). Come ne ha commessi (di errori) il
popolo nella sua più mitizzata configurazione (guardavo l’altro giorno un
bellissimo video – pubblicato da corriere.it
– delle folle oceaniche osannanti all’annuncio delle leggi razziali in Italia:
avranno anche sbagliato le élites che
hanno reso possibile il fascismo ma il fascismo stesso è indubbiamente stato un
fenomeno di popolo; e l’antifascismo, per lunghi anni, un fenomeno di élites, culturali, ancora). Come (sempre
di errori) ne commette (o ne può
commettere) ogni singolo uomo macinato dalla macchina della storia; commentando
le reazioni che aveva suscitato il suo famoso libro La banalità del male, Hannah Arendt scriveva: abbiamo preteso che gli esseri umani siano capaci di distinguere il
bene dal male anche quando per guidare se stessi non hanno altro che il proprio
raziocinio; il quale può essere completamente frastornato dal fatto che tutti
coloro che li circondano hanno altre idee.
Mentre ruminavo queste cose, anche frugando in qualche libro letto
in tempi diversi, mi è capitato per caso sotto gli occhi questo brano del
professor Giuseppe Bedeschi (ne: Il liberale
che non c’è, di AA.VV., Castevecchi 2015) che, fatalmente, richiama il tema
applicandosi alla genesi del nostro debito pubblico; poiché i miei lettori
sanno bene quanto l’argomento mi appassiona (e preoccupa) non ho trovato niente
di meglio che trascrivervelo, come tappa (provvisoria) della ruminazione in
corso: Proprio la vicenda del nostro
debito pubblico dimostra, credo, come sia impossibile cercare una formula
assolutoria del tipo: in tutti questi decenni la nostra società civile è stata sana, ma è stata vittima di una
cattiva gestione della cosa pubblica, messa in atto dalla nostra classe politica.
No, in quel debito pubblico ci sono infinite «voci» che si sono riversate sulla
società civile, la quale le richiedeva con tutte le sue forze: dalla massiccia
evasione fiscale (che non è mai stata affrontata seriamente, con sistemi
efficaci) alle pensioni-baby, alle «pensioni di anzianità» (come venivano
chiamate ipocritamente, per occultare il fatto che si trattava di «pensioni di
giovinezza», perché permettevano di lasciare il lavoro a poco più di
cinquant'anni anni, quando la vita media aveva raggiunto e superato gli
ottanta), alle innumerevoli pensioni di invalidità (fasulla), agli infiniti
privilegi concessi a innumerevoli corporazioni, e via enumerando. Tutti uniti
in quest'opera vergognosa e dissennata: uniti gli elettori e gli eletti, i
partiti e i sindacati, la società civile e la società politica. In un Paese che
non ha più nessuna cognizione dello Stato, della nazione, del bene comune,
della tutela delle giovani generazioni, e che vede soltanto il «particulare»,
in un tale Paese i privilegi dei gruppi, delle corporazioni, delle singole
categorie, si sono imposti, e hanno formato un formidabile mastice, che ha
tenuto e tiene insieme un tutto indistinto, privo di identità e di
idealità.
Seguiranno forse ulteriori ruminazioni (per gli improbabili appassionati
del tema).
Roma 10 ottobre 2017
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