mercoledì 18 ottobre 2017

Parva referenda

…in vasta materia
( di Felice Celato)
Non voglio entrare  nelle valutazioni giuridiche che afferiscono (molto criticamente) alla natura ed alla formulazione dei due referendum consultivi regionali di domenica prossima in Lombardia e Veneto (nel Lombardo-Veneto, si sarebbe detto nel Risorgimento, quando l’Italia si faceva; è vero: prima di fare gli Italiani!).
E nemmeno voglio entrare in quelle di natura economico-fiscale (i cosiddetti residui fiscali) che si vorrebbe porre a supporto delle rivendicazioni delle regioni interessate: sul calcolo dei residui fiscali (differenza fra contributi che ciascun individuo fornisce al finanziamento dell’azione pubblica e benefici che ne riceve sotto forma di servizi pubblici, misurata, per lo scopo, a livello di aggregati regionali) anche gli specialisti hanno dubbi molto rilevanti, in ordine ai criteri di calcolo e, di conseguenza, agli importi menzionati nel  mini “dibattito” che va, tardivamente, nascendo sui giornali.
E tuttavia è bene avere presente che, in linea di principio, lo scostamento da una teorica uguaglianza dei residui fiscali dei singoli cittadini (o se si preferisce delle singole regioni) per modo che ciascuno non riceva solo in ragione di quanto dà, è un tipico strumento di redistribuzione delle risorse e, in fondo – chiamiamola così – di solidarietà fiscale.  Non a caso (vedansi i dati pubblicati da Fabrizio Tuzi su lavoce.info del 17 10 17) sono, ovviamente, le regioni a reddito pro-capite più basso (e quelle a statuto speciale) a ricevere i flussi redistributivi originati in quelle a reddito pro-capite più alto (e ciò in parziale indipendenza dai livelli di spesa pubblica pro-capite su base regionale!).
Starei per dire che, francamente, non ci trovo nulla di strano, né nulla cui abbia senso ribellarsi sia pure con uno strumento “democratico” come quello del referendum (e sia pure a base regionale e di natura consultiva): né, infine, ci trovo un valido fondamento per rivendicare una ridistribuzione delle competenze fra Stato e Regione. Anzi, al di là di ogni considerazione etica (che pure va fatta), pur senza essere uno specialista del diritto costituzionale lo squilibrio dei residui fiscali  mi parrebbe, infatti, una diretta conseguenza del principio, appunto costituzionale, della solidarietà  basata sulla capacità contributiva (art. 2 e 53 della Costituzione). Quanto alla conseguente postulazione di ulteriori competenze (a “riequilibrio” degli squilibrati residui fiscali) penserei che la riforma del Titolo V della Costituzione (anno 2001 ) abbia già fatto sufficienti danni da imporre un’ urgente riconsiderazione (magari in senso restrittivo).
D’altra parte, però, non si può non riconoscere che, dal punto di vista “politico” (nel senso deteriore del termine, come si usa in Italia), l’iniziativa referendaria consultiva del Lombardo-Veneto sia quanto mai azzeccata: nei modi (in fondo un eventuale esito positivo per i proponenti non mira ad altro che ad avviare un negoziato Stato-Regioni, senza “sgarri” in salsa Catalana ); nei tempi (a valle di fermenti autonomistici europei e a monte di prossime elezioni politiche cui aggiungere altre motivazioni a presa vivace); e, infine, nelle suggestioni proposte (non a caso, per esempio, la Lombardia pone - al punto 7 del fascicolo col quale ha presentato agli elettori il referendum - fra le competenze che dovrebbero riequilibrare i residui fiscali negativi più alti d’Italia, le materie di sicurezza, immigrazione ed ordine pubblico).
Ma, lasciatemi dire una cosa che non crederete, non voglio nemmeno discutere di politica, perché di questa politica delle opportunità tattiche e contingenti ne ho piene le tasche: o cominciamo a guardare più avanti del nostro naso o prima o poi batteremo il muso!
Solo mi voglio porre una serie di domande, alle quali temo di dover trovare risposte (che, perciò, non provo a darmi): a che cosa porta - in prospettiva, se si vuole, paradossale -  il ragionamento che sorregge l’iniziativa in discorso? A un’Italia dei Comuni e magari, poi, delle corporazioni? Che tipo di cittadini, che tipo di società, che tipo di Stato si immagina chi porta avanti questi referendum? E in quale personale “versione” dell’Europa? Quale visione del mondo supporta questo lento “accompagno” dell’interesse “nazionale”, cui, in tanti tavoli, si dice di tenere, almeno nei confronti dell’Europa?
Si potrà obbiettare che siffatto tipo di domande implica l’abbandono della (più realistica e certamente prevalente) prospettiva tattico-contingente della provocazione referendaria; e forse a ragione. Ma non per questo diventa accettabile riportare materie che suscitano tali domande all’esito di due discussi e discutibili processi referendari, sia pure regionali (in 2 delle 21 regioni), sia pure consultivi.
Roma 18 ottobre 2107


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