domenica 27 dicembre 2020

Dal 2020 al 2021

Il difficile “bilancio” dei tempi

(di Felice Celato)

Coloro che  non hanno “pratica” di bilanci sono portati a credere che un consuntivo sia, per sua natura, una fotografia economica e patrimoniale del passato. Il che – intendiamoci – è anche vero, ma solo molto parzialmente, perché quasi ogni “voce” di ogni bilancio costituisce, in realtà, una previsione sul futuro. Mi spiego con un brevissimo e banale esempio: se, poniamo, nel “mio” bilancio figurano dei crediti verso clienti per forniture rese e non ancora pagate, evidentemente voglio dire che ritengo che quei crediti diventeranno, nell’anno successivo, un flusso di cassa, cioè denaro contante. Se così non fosse, se cioè non ritenessi più che probabile il realizzo di quei crediti, quella voce dell’attivo (i crediti, appunto) sarebbe in realtà, in tutto o in parte, una perdita (che si è già realizzata ma non ancora manifestata); e lo stesso vale per moltissime altre voci del bilancio, sia di parte economica che patrimoniale (persino gli impianti hanno valore solo se se ne può prevedere un economico utilizzo nel futuro).

Questa noiosa “lezioncina” di economia d’azienda serve solo per dire che – come ogni anno ma in particolare quest’anno – è piuttosto difficile fare un bilancio del tempo trascorso, senza, nel contempo, formulare una implicita valutazione sul futuro (quasi senza rendersene conto pienamente). 

Sarebbe sciocco negare che la vicenda pandemica (anche al netto di ogni possibile sua componente info-demica) abbia costituito uno shock sanitario, economico e (quand’anche) emotivo di proporzioni da tempo non sperimentate su base globale; e che, perciò, il 2020 sia stato un pessimo anno, da cancellare dalle buone memorie e da esorcizzare… ben più intensamente di quanto siamo soliti fare per ogni altro anno bisestile. Ma, come dicevamo qualche settimana fa segnalando un recentissimo libro di Fareed Zakaria (Ten lessons for a post-pandemic world), il suo vero senso storico dipenderà largamente da quanto ci avrà insegnato; e quanto ci avrà insegnato lo vedremo nel tempo che viene, perché, nella storia dell’uomo, nothing is writtenEstremizzando: potrebbe essere stato – il 2020 –  l’anno (doloroso ma provvidenziale) dell’apertura degli occhi, sulla nostra fragilità, sulla misconosciuta interdipendenza del mondo, sulla intrinseca ed ineliminabile complessità del nostro vivere così stretti, sulla contemporanea illusorietà delle frontiere, sulla accresciuta necessità di governances competenti e rispettabili; e, quindi, per noi, l’anno di una recuperata adultità, fatta di riacquisito dominio delle emozioni, di ri-scoperta dell’altro, di un nuovo gusto della operosa collaborazione. Oppure potrebbe essere stato – sempre il 2020 – l’anno di un vertiginoso tuffo nel passato, quello delle pesti, dell’incontenibile dilagare del male, delle sofferenze spaventose, dei terrori per le  scosse furiose ai sistemi economici su cui si modella la nostra quotidiana sussistenza, delle tendenze a rinserrarsi sbigottiti; e, per noi, quindi, l’anno di una pavida nuova adolescenza emotiva e culturale, ulteriormente prorogata, senza scadenze, fatta di incoscienze, di paure incontrollabili e di attese passive (come fosse della settimanale “paghetta” del papà).

Ad oggi, non mi pare possibile “discernere” con chiarezza quello che possiamo aspettarci per l’anno che viene; e, quindi, per la naturale continuità del tempo, quello che è veramente stato il 2020. Dipenderà molto da come l’umanità (e, per quanto ci riguarda più da vicino, questo grumo di umanità che costituisce il nostro contesto sociologico) saprà posizionarsi lungo l’asse che si stende fra i due estremi di cui dicevamo: l’apertura degli occhi e le vertigini del passato.

C’è, infine, anche il tema personale che, come sempre, si cela all’interno di ogni bilancio collettivo, che – per sua natura – aggrega destini diversi, fatti di dolori e di prove direttamente affrontate dai singoli (anche molto vicini), ma anche di vicende personali di segno diverso (per me, per esempio, è stato anche – gli devo, al 2020, questa personalissima riconoscenza – un anno di buone notizie, fra tante ansie nemmeno recenti).

Dunque, nel farci (con qualche imprudente giorno di anticipo) gli auguri per un futuro adulto, ci auguriamo di saper leggere a fondo il recente passato, anche nei suoi mille e mille significati che rimandano, chi di noi ne abbia la grazia, ad una “memoria credente” (Dt. 8,2 e sg: Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere…).

Roma 27 dicembre 2020

mercoledì 23 dicembre 2020

Natale 2020

Auguri consueti

(di Felice Celato)

Eccoci qua, per la decima volta su queste righe di conversazione asincrona, a farci i consueti auguri, per questo inconsueto Natale: inconsueto per noi cittadini dei nostri anni, che al Natale abbiamo associato anche una festosità agitata dall’ansia di festeggiare, chissà, forse, magari, anche condita con qualche vago ricordo del suo vero significato per l’umanità. 

Ma per noi che del Natale vorremmo conservare indelebile il significato profondo, per noi fedeli senza alcun merito per esserlo, gli auguri vogliono invece essere proprio consueti, i soliti di sempre, insomma, nonostante tutto

Perché “nonostante tutto” è proprio la chiave della festa dell’eterno ritorno del Dio Incarnato, che non si allontana dall’uomo in nessun giorno, nemmeno nei più tristi (Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo, Mt 28,20) ma che, in questo giorno ci rammenta, con l’immagine del Bambino eterno neonato, l’eterna “scommessa” di Dio sull’uomo. Nonostante tutto.

Allora questi auguri consueti voglio farli ai miei ventiquattro lettori con qualche pensiero di Benedetto XVI: Il Natale è la festa in cui Dio si fa così vicino all’uomo da condividere il suo stesso atto di nascere, per rivelargli la sua dignità più profonda: quella di essere figlio di Dio. E così il sogno dell’umanità cominciando in Paradiso – vorremmo essere come Dio – si realizza in modo inaspettato non per la grandezza dell’uomo che non può farsi Dio, ma per l’umiltà di Dio che scende e così entra in noi nella sua umiltà e ci eleva alla vera grandezza del suo essere…..La grazia di Dio è apparsa: ecco perché il Natale è festa di luce. Non una luce totale, come quella che avvolge ogni cosa in pieno giorno, ma un chiarore che si accende nella notte e si diffonde a partire da un punto preciso dell’universo: dalla grotta di Betlemme, dove il divino Bambino è “venuto alla luce”.

Buon Natale a tutti, dunque, buon Natale a te uomo moderno, adulto eppure talora debole nel pensiero e nella volontà, lasciati prender per mano dal Bambino di Betlemme; non temere, fidati di Lui!

Roma  23 dicembre 2020

 

 

mercoledì 16 dicembre 2020

Spigolature pandemiche lievi

Fra sorprese e letture

(di Felice Celato)

Anche i più giovani studentelli di economia conoscono questa citazione di Adam Smith: Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro interesse personale [a produrre e vendere le loro mercanzie].

Mi tornava alla mente, questa citazione, in questi giorni in cui tutto il mondo guarda con ansia al lavoro imponente che alcune fra le più grandi case farmaceutiche mondiali hanno messo in campo per studiare, mettere a punto in tempi da record, sperimentare, produrre  e distribuire l’agognato vaccino anti-Covid. Vaccino che, una volta verificato e attentamente vagliato dalle pubbliche autorità a ciò giustamente preposte (a livello internazionale e nazionale), sarà verosimilmente distribuito ed inoculato ai milioni di persone (comprensibilmente) angosciate dalla “peste” di quest’anno. 

Certo, a voler essere veramente giusti, ci sarebbe da condannare solennemente il riprovevole fine (di più: il vergognoso fine!) di trarre - horribile dictu! - un utile da tutta questa attività; ci sarebbe da deprecare gli avidi mercati che magari hanno (imperdonabilmente!) provveduto i mezzi finanziari (sic!) per sostenere ricerca, produzione e distribuzione del vaccino; ci sarebbe da censurare la stessa struttura nientemeno che capitalistica (mi si perdoni la parolaccia!) di queste imprese. Ma in attesa che tutto ciò abbia – come sicuramente avrà – voce tonante, con voce dimessa torniamo a formulare l’auspicio che tutto questo processo funzioni presto e bene; e che – fra le attese “ricadute” anche culturali di questa pandemia – qualcosa di questa storia resti nelle nostre teste, in mezzo alla massa di slogan e pregiudizi irragionevoli che le devastano. 

Nel frattempo, per il nostro pranzo, continuiamo tranquillamente a contare sul sano egoismo del nostro macellaio, del nostro birraio o del nostro fornaio.

 

Concludo questa pagina lieve con una breve segnalazione sempre a proposito di pandemia; si tratta del gradevole romanzo distopico (…ma non troppo) Happydemia (Feltrinelli 2020), di Giacomo Papi, un autore già segnalato su queste pagine un paio d’anni fa per l’altrettanto piacevole Censimento dei radical chic (cfr. post Letture amene del 16 febbraio 2019).

A tratti (ahimè!) realisticamente spassoso, il racconto non è privo di sani sarcasmi sulle nostre vicende che, per recente deformazione lessicale, ci ostiniamo a chiamare politiche, forse perché ci manca un termine più adatto. 

Chi lo legge, il breve romanzo di Papi, vi troverà motivi di sorriso ma anche di riflessione. Fra le trovate più divertenti dell’acuto narratore, c’è quella della turnazione del sonno: perché dormiamo tutti nelle stesse ore e concentriamo la vita di lavoro e di consumo nelle restanti ore? Bisogna dormire a turni, prescrive l’inquietante Pitamitz (uno dei protagonisti del racconto): le strade e i posti di lavoro si svuoteranno, non ci saranno più assembramenti, ma l’attività continuerà ad ogni ora del giorno e della notte!

Secondo me il governo ci sta già pensando, ovviamente supportato da uno stuolo di tecnici.

Roma  16 dicembre 2020

 

 

mercoledì 9 dicembre 2020

Come stiamo?

 Una domanda banale

(di Felice Celato)

Alla fine dell’anno scorso ci eravamo fatti gli auguri per il nuovo decennio con le parole della carducciana dichiarazione d’amore per il pio bove; mi era parso di buon auspicio per tutti invocare l’arrivo di un decennio all’insegna delle virtù del bove (mitezza, forza, laboriosità, pazienza, tenacia, austera dolcezza, gravitas) per consegnare agli storici del futuro un decennio meritevole dell’evocativa etichetta di muggenti anni ’20.

Uhm! Ne è venuto fuori, invece, un inizio di decennio all’insegna del pipistrello (di Wuhan), non proprio un animale gradevole, né per aspetto, né per virtù; e i ragli scomposti e gli oziosi belati (che volevamo soverchiati, sui nostri campi, da vigorosi muggiti bovini) hanno seguitato a tenere il campo, vigorosi a loro volta come talora solo i ragli sanno esserlo, e resi più tragici dai dolori che abbiamo sperimentato, tanto diffusamente.

Perciò domandarsi “come stiamo?” può sembrare quanto meno inopportuno; ma, stamattina, la più “giovane” delle mie cognate (….anche lei, però, non lontana dalla settantina!), alla mia banale domanda “come state?” (intendendo lei e la sua famiglia) ha risposto in una maniera che mi ha fatto riflettere: “Beh! Intanto vivi, e non è poco!”.

Già, non è poco; anche se sfiorati dalle pallottole della pandemia che hanno colto amici fraterni (senza gravi conseguenze, grazie a Dio), tutto sommato – per ora – ce la siamo cavata: stiamo di più in casa, non andiamo a mangiarci una pizza con gli amici la domenica sera, usiamo il saturimetro (della cui esistenza abbiamo appreso nell’anno) ogni due o tre ore, ricorriamo a Skype per le poche, residue incombenze che accompagnano la nostra….seniority (ah! l’inglese, quanto è utile!), vediamo con qualche cautela solo figli e nipoti (e qualche altro congiunto, direbbe il nostro Premier Umanista), andiamo a messa distanziati, cerchiamo di non raffreddarci, leggiamo di più e aspettiamo il vaccino, fidenti in una priority ratione aetatis e, al tempo stesso, non del tutto ignari di altri possibili criteri (diciamo, quella ratione utilitatis, che ci vedrebbe non proprio favoriti). Ma, siamo vivi, e non è poco!

Questo approccio minimalista alla più ricorrente delle domande (come state?), stamane si è imbattuto in un articolo di Sergio Belardinelli (sociologo, che leggo sempre con grande piacere intellettuale) pubblicato da Il Foglio sotto il titolo Il senso della fatica di vivere. Nessun uomo viene al mondo solo per morire.

Ne cito qualche passo conclusivo, raccomandandone (anche per la densità dell’argomentare) la lettura integrale: La realtà è quella che è, segnata dal dolore e dalla morte, ma nessun uomo viene al mondo semplicemente per morire. Se così fosse, sarebbe il trionfo dell’entropia. Invece, direbbe Hannah Arendt, veniamo al mondo per incominciare, per generare forme di vita individuali, sociali e politiche capaci di procrastinare la fine che costantemente incombe su tutti noi e su tutto ciò che ci circonda. ….Non una fatica di Sisifo, dunque, e nemmeno la pretesa di realizzare un mondo perfetto dove non ci siano più fatica, né morte, ma solo la ferma determinazione a tenere in scacco, più a lungo e nel modo migliore possibile, la fine che necessariamente arriverà: questo è realismo. Certo, anche le persone migliori o le forme socio-politiche migliori alla fine moriranno, ma proprio la loro vita sta a testimoniare un senso, un fine, che non coincide con la loro fine. La bellezza, la bontà, la giustizia di ciò che avremmo saputo realizzare sopravvivranno alla caducità delle nostre povere vite e della vita dell'intero universo. Buon Natale dunque. Alla faccia del coronavirus.

Roma, 9 dicembre 2020

 

 

venerdì 4 dicembre 2020

Il primo venerdì di dicembre

La ruota quadrata

(di Felice Celato)

Come sanno i miei lettori, il primo venerdì di dicembre è dedicato all’annuale Rapporto del Censis, quest’anno presentato via Youtube, per le ragioni che (…immagino) tutti conoscono. La versione in streaming dell’evento non consente, ovviamente, di disporre, fresco di stampa, del volume corposo che, come ogni anno, dettaglia i numerosi ambiti della ricerca (l’ho ordinato ma mi arriverà fra qualche giorno); in ogni caso, come ogni anno, sui giornali di domani l’evento troverà ampio spazio con la solita congerie di sottolineature, modulate – ahinoi! – secondo le linee editoriali dei vari media ma, mi auguro, basate sulla lettura attenta dei testi cui io non ho potuto (ancora) accedere.

E tuttavia la presentazione in diretta video e qualche estratto reso disponibile sul sito del Censis consentono già una visione d’assieme sulla quale, di solito, cerchiamo di fare qualche riflessione. 

Credo – da fedele ed antico frequentatore di questi Rapporti del Censis (quest’anno siamo giunti alla 54° edizione) – di poter dire che raramente ho percepito toni tanto allarmati come quelli di quest’anno; e del resto, credo, il tempo che stiamo vivendo – l’anno della paura nera, lo definisce il Censis – potrebbe non consentire toni più quieti. Non solo per la vastità, la profondità e la drammaticità del problema pandemico, ma soprattutto perché mai si era visto così bene come durante quest’anno eccezionale, sotto i colpi sferzanti dell'epidemia, che il virus [si è abbattuto]…. su un paese messo male, con il respiro già guasto… spaventato, dolente, indeciso tra risentimento e speranza… una ruota quadrata che non gira: avanza a fatica, suddividendo ogni rotazione in quattro unità, con un disumano sforzo per ogni quarto di giro compiuto, tra pesanti tonfi e tentennamenti.

In questo contesto, dice il Censis, non deve stupire se, oltre al ciclopico debito pubblico, le scorie dell’epidemia saranno molte, diversificate e di lungo periodo. 

Fra queste scorie mi sembra il caso di soffermarmi (per ora brevemente) su una che mi è parsa particolarmente significativa del momento che viviamo, ancorché – a mio giudizio – lentamente e pericolosamente costruita nel tempo di questo nostro inquieto e rancoroso paese.

Si tratta dell’allarmante diffusione di impaurite “filosofie” di ultimativa radicalità, del tipo “meglio sudditi che morti” (quando si valutano le decisioni – lasciate al Governo con discutibili processi giuridico-formali e molta confusione istituzionale – su quando e come uscire di casa, su cosa è autorizzato e cosa non lo è, sulle persone che si possono incontrare, sulle limitazioni della mobilità personale); o del tipo “o salute o forca” (quando si invocano – diffusamente – pene severissime e spropositate per ogni comportamento che paia mettere in pericolo, anche astrattamente, il contenimento della pandemia).

Beninteso, non intendo, qui in alcun modo né prendere posizione su quei discutibili impianti giuridici né, tampoco, eccepire sulla necessità di rendere cogenti le misure che, a torto o a ragione, si sia ritenuto di adottare. Quello che mi interessa sottolineare è proprio l’ultimativa radicalità delle reazioni che i sondaggi messi in essere dal Censis hanno rilevato. Una radicalità in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause (non ultima la faglia che si va aprendo fra lavoratori “garantiti”, come statali e pensionati, e lavoratori insicuri del loro reddito – le sabbie mobili, le chiama il Censis –  o anche direttamente vulnerabili); una radicalità  figlia, mi pare, della tensione oppositiva che si è andata via via accumulando in questi ultimi anni nella nostra società, disseminata di reciproci disprezzi e di pronti accantonamenti della ragione nel nome di diverse “ragioni di parte”.

Non sono queste – mi pare – le premesse idonee per tentare di mettere insieme (con disperata determinazione e massima urgenza) il progetto collettivo di cui a ragione parla il Censis; un progetto che richiede di rimettere mano al campo, senza volgersi indietro, guardando e gestendo il solco, arando dritti.

Come al solito, spero vivamente di sbagliare; non credo però che ci sarà molto da attendere per verificare lo sperato errore.

Roma 4 dicembre 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

mercoledì 2 dicembre 2020

Memorie di formazione

Il divorzio

(di Felice Celato)

Con qualche retorica per me talora fastidiosa, l’Italia – che ha veramente molto poche cose da festeggiare – “festeggia” invece i cinquant’anni dall’entrata in vigore della disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio (la famosa legge sul divorzio, come brevemente si chiama e… si canta).

Approfittando della giornata piovosa, mi sono messo a ricordare che cosa ha significato per me – allora giovane laureando (mi sono infatti laureato giusto nel 1971) – l’appassionata partecipazione al lungo dibattito che, prima ancora del referendum abrogativo (1974), aveva accompagnato l’approvazione della nuova legge.

Per quanto forse trasparenti ai lettori che da più tempo frequentano queste conversazioni asincrone, per far comprendere “il travaglio” di allora, giova forse fare un po' di “storia” (archeologia?) delle mie predilezioni culturali, che in fondo nel tempo non sono poi mutate di molto (magari sono solo diventate più aspre): fin da giovane liceale ho coltivato una vera (e forse un po' radicale) passione liberale (i miei uomini politici “preferiti”, quando ancora guardavo ai partiti, erano Giovanni Malagodi e Aldo Bozzi, del Partito Liberale Italiano); poi, giunto a Roma dalle amate Marche, mi ero legato ad un gruppo di giovani studenti cattolici, che si riunivano settimanalmente per fare insieme qualche lettura biblica, guidati da un affascinante prete oratoriano, straordinario predicatore ma anche (come cittadino) appassionato democristiano. Mi portavo dietro però la matrice liberale (e liberista, si direbbe oggi) dell’orientamento politico che, anzi, andavo consolidando; e condividevo, senza cesure, il sentimento anticomunista ed antifascista del buon prete, che in gioventù era stato anche un appassionato partigiano.

Poi, quando fu avviato il dibattito sulla richiesta di referendum, uno dei più lucidi promotori delle posizioni abrogazioniste era Sergio Cotta, un coltissimo professore cattolico che avevo conosciuto (e molto apprezzato) all’università; e confesso che alcune sue prese di posizione mi avevano convinto di un assunto da filosofo del diritto: gli istituti di diritto civile – si diceva in questo ambito – servono anche per “sorreggere” l’individuo quando, nella sua vita, si trova a confrontarsi con scelte personali che hanno effetti (diretti o potenziali) sugli assetti e sull’evoluzione della società; perciò occorre accettare che quegli istituti (e fra essi l’istituto del matrimonio) talora pongano anche limiti pesanti alla nostra libertà, in contemplazione di un superiore bene collettivo (nella fattispecie: la preservazione dell’unità familiare e della centralità sociale della famiglia). [NB: così mi pare di ricordare il senso delle cose; ma sto solo rievocando ricordi lontani e potrei risultare rozzo nella super-sintesi che ho appena fatto. Ne chiedo scusa in prevenzione.]

E dunque mi lasciai conquistare (all’inizio di questo dibattito civico/politico) proprio dalla tesi abrogazionista (che era ovviamente tutta di matrice cattolica); e come mio solito, privatamente mi schierai per il Sí (all’abrogazione) con vigore polemico da vero e proprio attaccabrighe – culturali, s’intende – spesso rendendomi anche antipatico (cosa che allora mi riusciva meglio di oggi….spero di potere dire, ex post), fors’anche “eccitato” da una certa antipatia che mi suscitavano (e continuano tuttora a suscitarmi) i cosiddetti laicisti (cioè, nel mio linguaggio, i laici ideologizzati a tal punto da negare in radice l’ambito della fede).

Alla fine, però, nel corso del dibattito pre-referendario le mie “radici” liberali ripresero vigorosamente il sopravvento e – dopo grande macerazione – votai convintamente per il No all’abrogazione. 

A distanza di quasi 50 anni (il referendum si tenne nel 1974, come già ricordato) mi pare di poter dire che fin da allora abbia pesato sul mio orientamento – forse più di ogni considerazione di natura politica o anche semplicemente costituzionalistica – la certezza che le convinzioni del fedele  non si prestano - per loro natura - né ad essere imposte né ad essere “sorrette” da alcuna legge, in quanto destinate a far parte esclusivamente del suo interiore patrimonio morale, quand’anche  ispirate ad una visione del mondo che, come ogni altra, ha pieno diritto di competere nell’agone democratico. [Già allora, forse, si affacciava nella mia mente l’idea dell’ ineluttabile stato di minoranza – nel mondo che si andava costruendo – della condizione del fedele; una idea che mi spinge tutt’ora al fastidio per ogni tentativo di “rendere più gradevoli” - più "moderne", si direbbe con civetteria - le implicazioni morali della fede].

I cinquant’anni che sono passati da allora e da quei giovanili “travagli” mi hanno consolidato in questa convinzione; e molte delle storie umane che ho conosciuto nel tempo mi hanno anche confermato che la gestione di una crisi familiare (nelle travagliate esistenze umane) non può essere ingabbiata nell’angustia di negazioni legali (cioè formali).

Roma, 2 dicembre 2020

 

P.S. Prego i lettori di guardare con indulgenza quel po’ di senile autocompiacimento, che traspare da questi ricordi di fervori giovanili

 

  

 

 

 

 

 

 

 

domenica 22 novembre 2020

Prospettive post-pandemiche

 Cosa c’è dietro l’angolo?

(di Felice Celato)

Molti commentatori dell’attuale vicenda pandemica indugiano spesso sui fall-out (per così dire) “benefici” di questa dolorosa esperienza che tutto il mondo sta vivendo, riferendosi – ovviamente – al dopo della sperata, prossima archiviazione definitiva della stessa (Fareed Zakaria ha addirittura dedicato un intero, corposo volume, Ten lessons for a post-pandemic world, Norton & Co, 2020, all’analisi di queste ricadute, potenzialmente “benefiche”): ci avrà insegnato – quando sarà finita, questa dolorosa esperienza – qualcosa in più della nostra reciproca interdipendenza? Ci avrà aiutato a fruire con intelligenza e saggezza delle grandi opportunità che la tecnologia ci offre per meglio organizzare la nostra convivenza? O a gestire con maggiore responsabilità il patrimonio di rischi ed opportunità del vivere contemporaneo? Ad avere più fiducia nella conoscenza (e nella competenza) e anche a valutare con maggiore consapevolezza le straordinarie conquiste che il nostro modo contemporaneo ci ha consentito di toccare con mano?

Difficile dire, ovviamente; perché, come osserva Zakaria, nonostante tutto nella storia dell’uomo nothing is written. Non ostanti le evidenze di certe lezioni (almeno per chi abbia la mente sgombra per cercare di apprenderle), tutto è ancora ambiguamente in mano (e alla portata) dell’umanità, della sua straordinaria vitalità e reattività, da un lato; ma anche delle sue capacità di commettere tragici errori di valutazione, dall’altro lato. Ma ci sono ragioni per sperare (anche secondo me, non sempre proclive alle speranze intra-mondane) che l’ormai prossimo numero di un milione e mezzo di morti in tutto il mondo non resti privo di significato per ciascuno di noi e per le nostre comunità; e di un seguito di riflessione (al riparo da ogni intento ideologico) per tutti quelli che restano, così stretti l’uno all’altro, a popolare il nostro sempre più piccolo pianeta. 

Bene: in questo contesto che vogliamo vigorosamente definire speranzoso (per quanto doloroso sia stato il death toll che tutto il mondo sta pagando) c’è un aspetto che specificamente mi preoccupa: la panoplia di interventi (dico subito: in principio necessari ed inevitabili) che, a vario titolo, con varia intensità (e anche con differenziate intelligenze), tutte le comunità organizzate hanno dovuto (e voluto) porre in essere per arginare la frana delle rispettive economie, sembra aver riportato in auge una sorta di negazionismo debitorio: il debito (sia nella sua manifestazione privata che – ancor più – in quella pubblica) ha cominciato ad apparire (come il famoso salario degli italiani anni ’70) una variabile indipendente, sia che si tratti (per dirla con Draghi) di debito buono o di debito cattivo

Ripeto: non sto qui a negare la necessità (congiunturale, si sarebbe detto una volta) di sostenere (anche ampiamente) con finanza pubblica le economie (domestiche, nazionali e comunitarie) traballanti per effetto della pandemia; temo però che all’interno di queste politiche si inasprisca la virulenza di un altro morbo che da tempo ci assedia (noi Italiani soprattutto) e per il quale non sono alle viste vaccini di sorta: il virus statolatrico; soprattutto quello della specie mercatofobica. Fateci caso: la pandemia si sta portando via ogni (da noi pur gracile) paratia fra stato e mercato, ovunque aleggia la soluzione nazionalizzatrice di crisi vecchie e nuove (sia che si tratti di acciaierie, di autostrade, di antiche banche, di compagnie aeree, di fabbriche di elettrodomestici o di altro).

Per ragioni che posso anche capire, vengo spesso trascinato in estenuanti distinzioni ed esemplificazioni miranti a spostare quelle paratie in considerazione delle più disparate e contingenti impostazioni di politica economica (e di non meglio chiariti interessi strategici): ho scelto da tempo di sottrarmi a questo tipo di disquisizioni di principio e di impostare la questione in termini sociologici: finché la selezione della classe politica rimane della qualità che abbiamo sott’occhio, inutile discuterne: meno stato e più mercato, restringere lo stato alle sue proprie funzioni (che non sono affatto di poco momento)!

Qui mi viene in mente una citazione dal bel libro che sto leggendo (di Alberto Mingardi, Contro la tribù – Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna, Marsilio 2020): E’ l'eterna cronaca del nostro presente: lo Stato interviene, aggrava il problema che doveva risolvere  e per questo gli si chiede di intervenire di nuovo. Da nessuna parte ciò è chiaro come in Italia, paese la cui opinione pubblica è convinta nello stesso tempo che la classe politica sia composta esclusivamente da truffatori e la burocrazia solo da ignavi di professione, ma non c'è problema che l'intervento pubblico, che tipicamente è disegnato dai politici e messo in atto dai burocrati, non possa risolvere. Questa schizofrenia non appartiene soltanto a persone che, per loro fortuna, hanno un’esperienza superficiale e distante dalle decisioni della politica, ma è propria anche, forse soprattutto, di coloro che vi sono più prossimi: intellettuali, docenti universitari, esperti di ogni risma, giornalisti. 

Roma  22 novembre 2020 (festa di Cristo Re, fine dell’anno liturgico)

 

 

sabato 14 novembre 2020

Giorni nervosi / 3

Aspettando un amico malato

(di Felice Celato)

Che questi giorni siano (almeno) nervosi, ce lo siamo già detti: la ripresa violenta della pandemia (che solo qualche settimana fa credevamo in via di rapida attenuazione), il fatto che alcuni pesanti affanni da Covid abbiano toccato amici fraterni fra i più cari (e uno anche pesantemente), il perdurare della confusione istituzionale che ci caratterizza, l’angosciante senso di inadeguatezza dei nostri policy makers e (ancor più) dei loro avversari, l’assenza di ogni prospettiva meta-emergenziale, anzi l’avvitarsi su se stessi dei tic statolatrici di sempre (per i quali tutto si risolve in bonus, ristori, rinvio di tasse, provvidenze disordinate, assunzioni statali, sforamenti di bilancio, crescita del debito e via cantando “allegramente”); tutto coopera per mettermi in uno stato ansioso e catatonico che mi ostacola persino nella coltivazione dei miei interessi di sempre. Faccio fatica persino a concentrarmi sulle letture più amate (e dire che ho sul tavolo due o tre libri che in altri tempi avrei divorato!). In questa agitazione psicomotoria, vado persino ansiosamente avanti nella lettura delle pericopi delle liturgie quotidiane; sicché ho letto ieri già la pericope evangelica che udremo (coloro che vanno a messa) leggere in chiesa domani (Mt. 25,14-30). Anzi , per distrarmi, ne ho cercato il testo nella chiave sinottica che i miei lettori “paolotti” conoscono bene, per esplorare meglio qualcosa che mi pareva di ricordare anche nella versione di Luca (Lc. 19, 11-27); e in effetti ho trovato anche la piena concordanza dei testi! 

Dunque riassumo per i laici ostinati: la parabola è quella (del resto nota a tutti) cosiddetta dei talenti, cioè del padrone che parte in viaggio e, prima di partire, affida a ciascuno dei suoi servi, secondo le capacità di ciascuno, i suoi beni da custodire, sotto forma, appunto di talenti (antica moneta di ingente valore); parabola – è di tutta evidenza – da leggere in chiave escatologica ed esistenziale, sia nella versione di Matteo che in quella di Luca (la vita come luogo per la messa a frutto dei talenti che ci sono stati donati, in vista del “rendiconto” finale). Ma in ragione dell’agitazione psicomotoria che mi pervade, la mia disordinata attenzione si è soffermata su una banalità del tutto impertinente (in senso etimologico, cioè non proprio pertinente al testo; non quindi – spero – nel senso di insolente!). Dunque, al suo ritorno, il padrone chiede conto dei talenti affidati a ciascuno dei suoi servi e si compiace con quelli che – in misura diversa secondo le capacità di ciascuno – in sua assenza li hanno messi a frutto e sono stati in grado di restituirli accresciuti, appunto, del frutto; ma si adira col servo pigro (anzi: malvagio, dicono gli evangelisti!) che, per paura di perderlo, ha nascosto sotto terra il talento ricevuto in amministrazione e l’ha quindi restituito senza frutto alcuno.

Ciò che mi ha colpito (ripeto: in maniera impertinente!) è come, per entrambi gli evangelisti più o meno con lo stesso testo, il padrone ha argomentato il suo aspro rimprovero: “bisognava che tu avessi depositato i miei denari dai banchieri e io venendo avrei recuperato il mio con l’interesse” dice Matteo; “e perché non hai dato il mio denaro ad una banca? Ed io venendo l’avrei riscosso con l’interesse” dice Luca.

Bene. Per antica professionale consuetudine col commercio del tempo (e che cos’è la finanza se non commercio del tempo; e l’interesse, cos'altro se non il prezzo che rende i valori monetari comparabili nel tempo? e cos'è il mercato finanziario se non il luogo dove questi valori si scambiano?) ho trovato un impertinente conforto ai tanti anni spesi occupandomi (anche) di questo!

Confesso che qualche lettura o qualche espressione anche di ambiente ecclesiale, mi aveva cagionato qualche rimorso per il mio passato professionale, in varie fasi speso all’interno di questo piccolo o grande mercato (della cui frequentazione temevo dovessi eternamente vergognarmi); e come al solito la lettura del Vangelo mi è stata di conforto, stavolta con una notazione del tutto incidentale all’interno del suo ben altro insegnamento perenne.

Per tornare ai nostri giorni nervosi, come si vede la propensione a distrarsi indotta dalla loro agitazione può cagionare vaste defocalizzazioni, di solito – di questi tempi – ulteriormente ansiogene; stavolta, invece, è andata meglio! Forse solo perché il mio amico malato comincia a stare un po' meglio e già si intravvede l’ora in cui tutti coloro che gli vogliono un gran bene potranno riabbracciarlo (con mascherina, s’intende!)

Roma 14 novembre 2020 

domenica 8 novembre 2020

Giorni nervosi /2

 Trump & Trumpeters

(di Felice Celato)

1.

Temo che abbia ragione il Direttore del Foglio che, qualche giorno fa, ammoniva che, finito Trump, non è però finito il trumpismosi commetterebbe un grave errore – scriveva fra l’altro Claudio Cerasa –  ad archiviare la stagione trumpiana pensando che negli ultimi quattro anni il virus del trumpismo sia stato un qualcosa che ha infettato solo il dibattito pubblico americano. Il virus del trumpismo, che in attesa di un rigetto globale continuerà a esistere anche con Trump lontano dalla Casa Bianca, è stato molto altro e, più che con una certa idea di come orientare la destra, c’entra con una certa idea di come orientare il mondo.  È stato questo il dramma del trumpismo, contro cui, con fatica, la società americana ha reagito. È stato quello di aver intossicato il dibattito pubblico. E’ stato quello di aver alimentato la retorica xenofoba. È stato quello di aver giocato con il complottismo. È stato quello di aver avallato il cospirazionismo. È stato quello di aver trasformato gli esperti in una casta di nemici del popolo. È stato quello di aver flirtato con i nemici della società aperta. È stato quello di non aver fatto tutto ciò che un presidente avrebbe potuto fare per combattere il suprematismo. È stato quello di aver dato un contributo cruciale alla diffusione di teorie antiscientifiche. È stato quello di aver trasformato l’America first non nel simbolo di un riscatto americano ma in un tentativo progressivo di lasciare con le spalle scoperte i difensori della democrazia liberale. È stato quello di aver strizzato gli occhi a tutti i politici decisi a trasformare l’Europa in un sogno da distruggere. È stato quello di aver trasformato, a colpi di dazi, la libera circolazione delle merci in un feticcio da abbattere. È stato quello di aver messo la democrazia della conoscenza sullo stesso piano della democrazia dei creduloni. È stato quello di aver messo il conservatorismo al servizio di una ideologia antisistema. È stato quello di aver applicato con costanza, per anni, una dottrina magnificamente sintetizzata dal sociologo Gérald Bronner come l’effetto Otello: non importa quanto una teoria sia accurata, anche una teoria palesemente falsa può avere successo se invade il dibattito pubblico e instilla il dubbio nella mente delle persone. “Nel libro terzo della Guerra del Peloponneso – ha ricordato Mark Thompson nel suo magnifico saggio sulla ‘Fine del dibattito pubblico’ dedicato a un’America trumpiana non così diversa dall’Italia sovranista – Tucidide sostiene che un fattore importante del declino di Atene da democrazia disfunzionale fino a tirannide e anarchia passando attraverso la demagogia fu una particolare mutazione nel linguaggio, quando cioè la gente cominciò a definire le cose in modo casuale, senza ordine, facendo perdere alle parole il loro vero e accettato significato”. In questo senso, il guaio del trumpismo non è quello di essere stato un veicolo di bugie eccessive, non è quello di essere stato un simbolo di un’etica tradita, non è quello di essere stato il simbolo di come si eludono le tasse. Ma è stato molto altro. Ed è stato quello di aver allegramente contaminato i pozzi del dibattito pubblico mettendo in circolo un veleno con cui le democrazie liberali dovranno fare i conti chissà quanto a lungo

Fin qui la citazione [della cui lunghezza chiedo scusa], con qualche mia sottolineatura.

2.

Direi io che, passato Trump (la tromba, in inglese, ma anche la briscola; un gioco che, in Italia, dà quasi sempre luogo ad interminabili contese alto-vocali, sull’efficacia di come vengono giocate le singole carte), restano però, per esempio da noi, i trumpeters (i trombettieri del gergo militare, non certo eccelsi artisti della tromba ma utili, nei campi di battaglia e negli accampamenti, per suonare sveglie, adunate, cariche e… ritirate).

In questi giorni nervosi e inusitati, mentre ci torna in mente la tragica poesia della nostra adolescenza [il morbo infuria…il pan ci manca…sul ponte sventola bandiera bianca], ci verrebbe voglia di sentirli suonare – i trombettieri – solo le note solenni del Silenzio fuori ordinanza; ma il silenzio, da tempo, non è più fra gli spartiti che circolano nel nostro rabbioso paese. E sul dolore e l’ansia di tutti, temo seguiteremo ad ascoltare incongrue adunate (o, peggio, cariche dissennate).

Roma 8 novembre 2020

 

 

lunedì 2 novembre 2020

Giorni nervosi

 Pensieri sparsi

(di Felice Celato)

Non so se, anche ai miei corrispondenti (in senso Ungarettiano), questa cappa pandemica fa lo stesso effetto che fa a me: i pensieri faticano ad addensarsi ordinatamente su qualcosa che valga la pena di discutere fra noi; i numeri ribelli del morbo, gli amici più cari sfiorati e magari anche colpiti da qualche forma di infezione, l’allarme sociale, il vociare più confuso che mai dei nostri soverchiati “politici”, la preoccupata omogeneità degli argomenti di cui si finisce inevitabilmente a parlare (o a leggere) ovunque; tutto insomma coopera per interrompere il fluire ordinato di ragionamenti non del tutto condizionati dalla "peste". E tuttavia  – per non perdere l’abitudine alle nostre conversazioni asincrone – eccomi qua a riversarvi comunque i frammenti degli sparsi pensieri di questi giorni inusitati.

 

Il Giorno dei Morti: da quando se ne sono andati i miei amati genitori, il Giorno dei Morti mi è diventato più triste e più dolce: mi fa piacere ritrovarmi a conversare col loro cenere muto e mi commuove il flusso dei rimpianti. Quanto cose vorrei che ci fossimo detti e invece ci siamo taciuti o ci siamo detti con parole sbagliate! Oggi, però, mi pare di riprendere con loro lo spazio dei sentimenti che ci siamo nascosti pur provandoli con un’intensità che, ora, il tempo dilata.

 

I bambini nella pandemia: per un vecchio qual sono, dati i tempi, potrebbe essere quasi pericoloso confessare la sua passione per i bambini: li vedo, coi loro genitori, a spasso per qualche giardino, ignari dell’ambiente e concentrati sulla loro curiosa vitalità; per loro il Covid non esiste e sorridono come sempre o piangono per cose che ci fanno sorridere. Osservandoli, credo di aver capito perché i bambini sono gli umani maestri del regno dei cieli (se…non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli…perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli,…perché …i loro angeli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli; Mt. 18, 3-4, 10).

 

Satura tota nostra est, scriveva Quintiliano (la satira è totalmente latina). E in effetti pare che i Greci – che pure quanto a civiltà del pensiero furono maestri dei romani – non praticassero, per lo meno con la passione dei romani, questo genere letterario che, oggi, sembra diventato totemico (anche quando è puro sghignazzo). Bene: ma, mi chiedo, perché nell’irrinunciabile diritto alla satira (rivendicato da ogni laico che si rispetti, quasi che essa sia il simbolo più sacro della libertà di espressione) non funziona nessuno dei “limiti” che (giustamente) ci siamo autonomamente dati al nostro linguaggio? In fondo ci censuriamo se ci viene in mente di definire negro  un nero di pelle (eppure niger, -a, -um, nella nostra lingua madre, vuol dire, appunto nero) o condanniamo (e giustamente!) chi apostrofa, con parola rubata alla suburra, come finocchio un omossessuale, o chi definisce sordo un non-udente o cieco un non-vedente, o minorato un diversamente abile; ci preoccupa, insomma, l’essere in qualche modo, anche solo lessicalmente, irrispettosi dell’altrui “diversità”, meritevole – come è ovvio – di ogni nostro riguardo (lo dico da convinto eterofilo, non solo per inclinazioni sessuali ma anche per passione intellettuale verso l’altro, il diverso). E, invece, per quanto riguarda le (altrui) convinzioni religiose ci sentiamo in diritto di beffeggiarle senza alcuna auto-censura, quasi che il panottico del politically correct arresti il suo occhio severo di fronte alla diversità religiosa (o proprio alla religione?). [N.B.: (1)  Per un liberale radicale come chi scrive è veramente difficile questo discorso che sembra porre in questione un aspetto della libertà di espressione; ma quella che pongo è una questione di pura autolimitazione, non una rivendicazione normativa; (2) a qualche laico un po' fesso – che fa finta di credere che il rispetto rivendicato sia verso il Dio di ciascuno anziché verso il singolo credente – mi sento di garantire, da credente, che il buon Dio, delle nostre parole più corrive, per nostra fortuna non tiene alcun conto; Egli è abituato a guardare oltre le parole; (3) mi viene assai difficile ritenere che il diritto alla blasfemia (rivendicato con fierezza da alcuni) sia solo una manifestazione di laica indifferenza ai credi religiosi e non anche una forma di incivile spregio per le convinzioni religiose; (4) solo un fesso al cubo potrebbe ritenere questo discorso in qualche modo assolutorio verso ogni e qualsiasi forma di violenza del tipo di quelle che si sono scatenate in Francia in questi giorni].

 

Misure di contenimento del virus: attendiamo le nuove misure col senso di trepidazione che ci crea ogni azione normativa di questa nostra affannosa politica annunziante.

Certo mi peserebbe assai dover rinunciare – solo perché ho compiuto i 70 anni – al piacere di immergermi ogni sera nella famosa movida fino a tarda ora.

Roma 2 novembre 2020

 

 

 

domenica 25 ottobre 2020

Cronache dai lazzaretti

 Numeri

(di Felice Celato)

Mentre di nuovo il morbo infuria, l’Italia – in mezzo al solito pandemonio di voci, controvoci, dissidenze e discordie – sembra ripiombata nella depressione (quella sanitaria intendo, non essendosi mai, nemmeno transitoriamente, attenuata quella economica); e in effetti i numeri assoluti (dei casi accertati e dei morti) giustificano certamente l’umore tetro e timoroso che ci pervade.

Eppure, ancorché per natura non indulga ad irresponsabili irenismi (e men che meno a stolidi narcisismi), vorrei sottoporre ai miei lettori una chiave di lettura di tali numeri relativamente meno sconfortante di quella che (a ragione) ci deprime.

Per non cadere nel vizio nazionale dell’onfalocentrismo (una personale invenzione onomaturgica per dire del vizio nazionale di ritenere il proprio ombelico – omphalos, in greco antico – il centro dell’universo), da diverso tempo annoto quasi ogni giorno i dati della pandemia nel mondo (fonte W.H.O.) ed, in particolare, nei 10 paesi in mezzo ai quali dovremmo ragionevolmente trovare elementi di fondato paragone: dunque, oltre a noi, gli Stati Uniti, il Giappone, la Francia, la Germania, la Spagna, il Regno Unito, il Belgio, l’Olanda e la Svezia. E per misurare (senza essere né un virologo né uno statistico) l’intensità pandemica, ho cercato di calcolare il numero dei casi e dei morti per milione di abitanti; e di stilare una classifica considerando le performances dei vari paesi.

Bene: in quest’ultimo mese (cioè a partire dal 22 settembre fino a ieri, 24 ottobre) l’Italia è rimasta l’ottavo paese (fra i 10 considerati) per casi accertati di Covid ogni milione di abitanti (a ieri 8358/milione), facendo peggio, quindi, di Germania (5035) e di Giappone ( 758), ma meglio di tutti gli altri ( Usa 25.352, Belgio 25.077, Spagna 22.287, Olanda 15.519, Francia 15.085, UK 12.468 e Svezia 10.843).

Anche per numero di morti per milione di abitanti l’Italia – coi suoi 616,5 morti per ciascuno dei 60,4 milioni di abitanti –  è rimasta  ferma alla sua posizione del 22 settembre (sesta, sempre fra i 10 considerati), facendo dunque meglio di Belgio (930), di Spagna (740,3), di Usa (675,1) e di UK (668,7), e peggio di Svezia (581,7), Francia (510,9),  Olanda (404,3), Germania (120,5) e Giappone (13,5).   

Il differente posizionamento nell’indice dei casi rispetto a quello dei morti è correlato al tasso di letalità (7,38%), diminuito sensibilmente rispetto al 22 settembre (11,88%) ma largamente (e ingiustificatamente) il più alto in Europa (e non solo).

Solo per riferimento e senza voler trarne conclusione alcuna (anche perché il dato che fornisco subito è riferito all’anno solare, mentre quelli che precedono si rapportano al tratto temporale della pandemia), faccio notare che, secondo i dati consuntivi più recenti (fonte: Fondazione Aiom, Associazione Italiana Oncologia Medica), nel 2017 i morti per cancro, in Italia, sono stati 2983 per ciascuno dei 60,4 milioni abitanti. 

Dunque, si vera sunt exposita, non c’è ragione per lamentare alcuna speciale gravità del caso Italia nella intensità dei contagi. In altri termini: il Covid, nel suo intero ciclo finora decorso, ci ha colpito duramente ma meno di quanto non abbia fatto con Francia, Spagna, UK, Belgio, Olanda e Svezia (lasciando da parte USA, Brasile, India, etc); l’unica “anomalia” nostrana, semmai, è quella lombarda dove i casi per milione di abitanti sono stati quasi il doppio della media nazionale e i morti – sempre per milione di abitanti - quasi il triplo. A livello nazionale, semmai, come sopra detto, c’è qualche inquietante differenza nel numero relativo dei morti. [N.B. Se escludessimo però dai dati considerati (morti e milioni di abitanti) quelli relativi al “caso” Lombardia, il nostro posizionamento sarebbe in linea con quello dei contagi].

Dove invece, come al solito, siamo stati “speciali” è nella confusione istituzionale e procedimentale e – naturalmente – nel livello fonico delle polemiche. Per carità, nei paesi democratici (con livello di mediatizzazione della politica che si è raggiunto) è abbastanza normale che nei momenti difficili si accentuino le tensioni della politica parlata (basta dare un’occhiata – per esempio – ai giornali francesi); ma da noi si è aggiunto una sorta di scollamento istituzionale che non può che destare preoccupazioni per il difficile futuro che ci aspetta.

 

Roma  25 ottobre 2020 (ritorna l’ora solare, pare temporaneamente abbandonata per l’ultima volta con l’estate scorsa; dal prossimo anno, magari, l'ora legale sarà applicata “salvo intese” e – può essere – anche regionalizzata)

 

 

 

mercoledì 21 ottobre 2020

Vecchie parole

 La storia di Onan

(di Felice Celato)

Narra il libro della Genesi (38, 6-10) che Giuda scelse per il suo primogenito Er una moglie, che si chiamava Tamar. Ma Er, primogenito di Giuda, si rese odioso agli occhi del Signore, e il Signore lo fece morire. Allora Giuda disse a Onan: "Va’ con la moglie di tuo fratello, compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità a tuo fratello". Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva il seme per terra, per non dare un discendente al fratello. Ciò che egli faceva era male agli occhi del Signore, il quale fece morire anche lui.

Col tempo, come sappiamo (cfr. Vocabolario on-line Treccani, voce onanismo), il peccato di Onan ha assunto diverse configurazioni: in un certo qual senso se ne occupò pure la controversa e sofferta Enciclica Humanae vitae dell’amato Papa della mia gioventù (Paolo VI), trattando delle cosiddette pratiche anticoncezionali; nel linguaggio medico, poi, il termine onanismo passò ad indicare genericamente la masturbazione; ed infine il termine approdò all’uso figurato e letterario di compiacimento narcisistico di se stesso, della propria attività, anche se improduttiva, priva cioè di risultati pratici; e l'attività stessa, soprattutto di natura letteraria, in quanto sia priva di finalità pratiche, e quindi sterile.

Chi ha seguito, qui, le mie depresse opinioni sul nostro presente, non dovrebbe sorprendersi se l’onanismo mi è tornato in mente a proposito della politica, più precisamente di quella italiana del nostro tempo, nel senso figurato e letterario di cui si diceva poco fa; né che – data la caratura culturale del nostro Premier Umanista – sia stata proprio una sua dotta scelta lessicale ad evocarmi il vecchio Onan: la parola scelta per rendersi più comprensibile all’amato “popolo”, stavolta, è: stigma.

Dunque, appassionato come sono delle parole (anche non nuove)  ho fatto ricorso, ancora una volta, all’amato Treccani, per una breve esplorazione lessicale ; ve la faccio breve: Stigma (o stimma). Sostantivo maschile [dal latino stigma (-atis), “marchio, macchia, punto”, greco στγμα -ατος, derivato di στζω ”pungere, marcare”] 1. In botanica: a) La parte apicale variamente conformata del pistillo…. b) Organello pigmentato fotosensibile presente nei cromatofori o nel citoplasma, a volte anche nei gameti, di varie alghe…. 2In zoologia: a) Ciascuna delle aperture mediante le quali il sistema respiratorio tracheale degli insetti e di alcuni artropodi terrestri comunica con l'esterno; b) Ciascuna delle aperture branchiali della faringe dei tunicati; c) Nome di alcune macchie colorate delle ali di farfalle…; d) Organulo fotorecettore ausiliario dei cloroplasti…. 3. In anatomia, la parte assottigliata e priva di vasi della parete del follicolo…. 4. a) Nell'uso letterario, con significato vicino a quello etimologico, marchio, impronta, carattere distintivo: “quella misteriosa inclinazione…ch’è il vero stigma della nobiltà femminile” (Fogazzaro); “l'antica cultura popolare, tuttora radicata specie fra i contadini, segnava di uno stigma religioso certi mali indecifrabili” (Morante)... b) In psicologia sociale, attribuzione di qualità negative a una persona o un gruppo di persone, soprattutto rivolta alla loro condizione sociale e reputazione: un individuo, un gruppo colpito da stigma psicofisici, razziali etnici, religiosi.  

Dunque, escludendo (arbitrariamente?) che il Premier Umanista volesse far uso di termini presi a prestito dalla botanica, dalla zoologia o dall’anatomia (riferiti, chessò, ai pistilli o ai tunicati o al follicolo), devo concludere che intendesse usare la parola stigma in senso letterario, o, più precisamente, socio-psicologico: attribuzione di qualità negative a una persona o un gruppo di persone, soprattutto rivolta alla loro condizione sociale e reputazione.

Dunque, nella libera e pensosa oratoria del Nostro, lo stigma che ricadrebbe sul popolo Italiano per l’eventuale accesso al MES (questo era l’usurato contesto nel quale il Premier Umanista ha usato la parola) sarebbe legato a quell’1% (scarso)  del Debito Pubblico Italiano eventualmente generato dal MES; il restante 99% (inarrestabilmente cresciuto nel tempo e ulteriormente dilatato dalla recente ondata di bonus decisi – a debito – dal nostro Paese) non produrrebbe stigma alcuno; come non lo produrrebbe l’inarrestato e conclamato declino economico del paese, né la futilità della sua politica.

Che si tratti – come nella Genesi – di puro adempimento di un obbligo, lì della legge del levirato, qui della compiacenza politico-populista? 

Se sì, come insegna il Genesi, c’è da temere l’ira, se non divina, almeno degli uomini, quando torneranno (prima o poi, spontaneamente o “spintaneamente”) a ragionare con la loro testa? 

Roma  21 ottobre 2020 

 

 

 

 

 

domenica 18 ottobre 2020

Dopo una pausa

Violons de l’automne

(di Felice Celato)

Come ogni anno, anche quest’anno l’autunno mi ha reso triste (Les sanglots longs des violons de l’automne blessent mon cœur d’une langueur monotone, scriveva Paul Verlaine). Anzi, quest’anno – chissà perché – più degli altri anni l’ho avvertita, questa stretta di cuore che l’accorciarsi della luce mi porta ogni anno con sé. Dopo averci pensato a lungo, mi sono convinto che, ‘stavolta, ha pesato molto anche l’attesa del derby de la Madunina che, per la verità e fortunatamente, non mi ha poi deluso. Così per diversi giorni, rispetto ai ritmi di queste asincrone conversazioni fra amici, non ho preso la penna (pardon: non mi sono messo alla tastiera!) per coltivarle come sempre mi fa piacere; dunque, a derby disputato e vinto, eccomi di nuovo qua, fra gli amici di sempre.

Però, forse, in questo mese che è passato dall’ultimo post non c’erano nemmeno – o perlomeno non ho percepito – molti motivi per intrattenerci conversando (spero piacevolmente) fra noi: a parte la ripresa del Covid, s’intende, il mondo sembra essersi fermato; e anche da noi non è successo molto di diverso; sì, è vero, abbiamo rapidamente dovuto riporre il nostro infantile narcisismo (“l’ OMS ci ha lodato per come abbiamo affrontato la pandemia!”); e ci siamo ripiegati sui soliti temi (lockdown non-lockdown, MES non-MES, Conte non-Conte,  bonus o non-bonus, Speranza o disperazione, Calenda non-Calenda, etc, etc., compreso il tema – per me di decisiva rilevanza – su barbieri aperti o chiusi). Ma in fondo nihil sub sole novi.

Però, come ci informa Il sole 24ore di oggi, abbiamo nuove ragioni di “festeggiare”: siamo di nuovo primi in qualche classifica! E’ inutile, siamo i migliori e, per questo, come al solito “tutto il mondo ci invidia!”; basta solo che – come spesso siamo costretti a fare – leggiamo le classifiche alla rovescio: siamo i primi in Europa per crescita prevista del debito pubblico (rispetto al PIL): + 23,4% nel 2020! Qualche “amarezza” invece ci viene dalla classifica – sempre Europea – dello scostamento fra il PIL del 2019 e quello previsto per fine 2021: -3,5% (la Spagna ed il Portogallo prevedono di fare “meglio” di noi e dunque siamo terzi in pejus, cioè terzultimi in Europa leggendo la classifica nel senso giusto). Naturalmente quel “primato” è frutto anche di questo “terzultimato” (notoriamente a noi i denominatori non piacciono!) ma chissene frega, godiamoci almeno il “primato” che è tanto più significativo quanto più è alto il punto di partenza (debito/PIL a fine 2109 134,6%).

In fondo – leggo sul Corriere della sera di oggi – qualche motivo di orgoglio nazionale (oltre al parmigiano!) si può sempre trovare; basta amare molto il proprio paese, come, pare, faccia qull’eurodeputato nostrano che – riferisce molto divertito Aldo Grasso – in una TV locale lombarda ha vantato la supremazia “culturale” della nostra civiltà, resa evidente dalla presenza del bidet nei nostri bagni (un sanitario che tutto il mondo ci invidia, naturalmente!).

Bene: sono convinto che, dopo questo sarcastico ritorno, qualche lettore o lettrice benedirà la “pausa” che mi sono preso per un mesetto. Spero che presto il C.U.R. abbia almeno qualcosa di veramente divertente (o almeno di consolante) da raccontare; forse gli è tornata la voglia di camminare per la città.

Roma 18 ottobre 2020

 

 

 

  

martedì 22 settembre 2020

Il referendum della breccia

 Il piccolo successo degli àpoti

(di Felice Celato)

Come sappiamo, si deve alla corrosiva ed inquieta penna di Giuseppe Prezzolini (peraltro non esente da contrastanti sentimenti) la coniazione della parola àpoto (che non beve, alfa privativo e poto, in latino, bevo) come attributo di una immaginaria congregazione (la Società degli àpoti) che rivendicava per sé stessa il diritto di non farsela dare a bere, di sottrarsi cioè “al tumulto delle forze in gioco per chiarire idee, per far risaltare valori, per salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi futuri”.

Si era nel lontano 1922 (ancora, però, la Marcia su Roma non c’era stata); ma, successivamente, nel tempo, la società degli àpoti si vide partecipata da personaggi di diversa matrice culturale, spesso non omogena in termini di valori. Eppure il suo senso è rimasto vivo nel tempo (anche Montanelli si proclamò àpoto, come – diceva – dovrebbe esser ogni giornalista) tanto che mi è tornato in mente – come ricorderà qualche lettore di queste noterelle – come presidio contro la confusione dei tempi, dei linguaggi e dei valori che ci pervade e che – secondo me – ha anche innervato lo snervato mini-dibattito referendario. Per la verità avevo pessimisticamente stimato (cfr: Paradossi agostani, post del 1° agosto 2020)  nel 7 o l’ 8 (come valore assoluto e non percentuale!) il numero degli àpoti che, al referendum della breccia (quello del 20 settembre), avrebbero votato, solitari con me, per il No.

Sembra, dai dati ormai ufficiali, che siano stati molti di più (circa il 30% dei votanti; quindi, grosso modo, se , come pare, al referendum ha partecipato il 54 % dei quasi 52 milioni di aventi diritto, potremmo dire che circa 8 milioni di Italiani ha votato per il No, parte dei quali, spero, per pura apotìa; il resto magari per pura apatìa rispetto alle confuse pulsioni partitiche o sub-partitiche che sono fioccate in queste ultime settimane). Buon segno, dunque, nel senso della presumibile “resistenza” della mitica Società degli àpoti di Prezzoliniana ispirazione; meno consolante, per la verità, è lo scarso entusiasmo degli Italiani per i temi costituzionali, cioè per i fondamenti dello stato repubblicano che, evidentemente, ci è assai più caro come erogatore di bonus e sussidi piuttosto che come delicata macchina che decide delle nostre libertà: solo una persona su due si è presa la briga di occuparsene, magari in parte – bisogna concederlo – solo per piena fiducia negli improvvisati neo-costituenti che avevano varato (non senza pentimenti e ri-pentimenti) le nuove norme sottoposte a referendum confermativo. Fiducia che – beninteso! – in base al principio che vox populi è vox Dei e per rispetto alla democrazia, “dobbiamo” ritenere ben riposta; il che, ovviamente, mi/ci rassicura anche in ordine al seguito di questa riforma che ci è stato promesso (e, si sa, promissio boni viri est obligatio). In fondo, diceva l’on.le Martina, questa ora approvata è solo una breccia aperta nell’assetto del nostro Parlamento; il resto di sicuro verrà. Del resto “l’abolizione” della prescrizione non era solo una breccia aperta nel sistema della giustizia in vista di una complessiva e radicale revisione dello stesso (anch’essa in corso, sento dire)? 

Bene, in questa sbrecciata attesa del nuovo che deve venire e nello sconforto per la confusione del presente, il luminoso futuro che ci aspetta ci è di grande conforto (ci abbiamo il Recovery Fund da spendere!). Speriamo che, se proprio l’apotìa non è destinata a rimettere ordine nelle nostre caciare, almeno quella sua ridotta misura che è l’astemia si affermi, tenendoci al riparo dagli ubriachi; magari, chessò, introducendo per legge… la prova alcolometrica (il famoso “palloncino”) per i nostri rappresentanti. Non vorrei che dopo la breccia ci tocchi temere anche la brocca (del vino, naturalmente!). 

Roma 22 settembre 2020.

 

 

venerdì 18 settembre 2020

La palla e due parole antiche

Rinascenza vs. resilienza

(di Felice Celato)

Non mi fa meraviglia, anzi ne sono contento, quando nascono parole nuove o parole antiche tornano di moda, magari arricchite nel tempo di consapevoli sensi nuovi e, spesso, più complessi: la storia della lingua – lo dico senza essere un linguista – vive di queste evoluzioni che nascono dall’uso (cui la lingua è naturalmente destinata e dal quale riceve continui feed-back ) e dalla crescente complessità del reale. Se così non fosse, oggi parleremmo ancora la bella lingua di Cicerone o quella (stupenda!) del Padre Dante, che sui testi in uso agli studenti (e non solo) richiede spesso le note per la comprensione (chi si ricorda – per esempio – che cosa vuol dire si che s’avacci lor divenir sante, in Purg. VI, 27?). I purismi (qui intesi come culto degli usi antichi o come rifiuto di apporti allogeni) mi irritano spesso e talora mi fanno anche ridere (come quando i nostri amici francesi si ostinano a chiamare ordinateur il computer o logiciel il software).

Quindi non mi sono meravigliato né tanto meno scandalizzato quando si è diffuso l’uso del termine resilienza (dal Dizionario Nocentini, l’Etimologico, alla voce resiliente: prestito latino, dal lat. resiliens -entis, participio presente del verbo resilire “rimbalzare, contrarsi”) nato nel mondo della scienza dei materiali (ed ivi inteso come capacità di assorbire gli urti senza rompersi o anche di recuperare la forma originaria dopo una deformazione); di qui migrato in quello della psicologia (come capacità di superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà); ed infine atterrato in quello della politica dove ha assunto un significato comprensivo sia dell’approccio della scienza dei materiali sia di quello della psicologia: in sostanza la resilienza sarebbe – nel neo-linguaggio della politica – una sorta di vitale, collettiva resistenza ai traumi (l’inverso della fragilità), tale da assorbire gli urti economici e sociali e da recuperare rapidamente l’assetto pre-traumatico.

Ecco, è proprio quest’ultimo senso che mi preoccupa quando vedo comparire il termine in molti cicalecci politici e anche in qualche documento doverosamente meno ciarliero (da ultimo: Linee guida per la definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, varato l’altro giorno dal nostro Governo). Provvisoriamente (?) molto scarso di numeri sui progetti, invece il documento allinea alcuni brevi ma chiari flash sullo stato del Paese prima del trauma pandemico; un’analisi, credo di poter dire, di cui non diffusamente il Paese è conscio ma che il Governo ha fatto bene ad enunciare, sia pure come trasparente ma comprensibile disclaimer (che sarebbe pienamente accettabile ove le forze di Governo non fossero o non fossero state responsabili dei fatti implicati dai dati).

Provo a sintetizzare il punto (cfr pg. 4 del corposo documento): l’Italia vive, da anni, in una condizione di sub-medietà Europea, nel senso che è sotto la media europea negli indici più rilevanti delle condizioni economiche, sociali e culturali dei paesi che fanno parte dell’Europa: è nettamente sotto nel tasso di sviluppo del PIL, della produttività, della occupazione (qui precede solo la Grecia), in particolare di quella femminile, della fruizione di istruzione superiore, della qualità di quella di base e intermedia, della spesa per ricerca e sviluppo; è invece sopra le medie europee per tasso di abbandono scolastico, per anzianità della popolazione e per incidenza della spesa pensionistica sul PIL. Insomma per dirla con Paul Krugman (così scrive il Nobel per l’economia 2008, sul NYT dell’8 settembre u.s.) l’Italia è un paese diffusamente considerato – e con fondamento – un fallimento (a country that is widely regarded – indeed, in some respects really is – a failure); anzi fra gli studiosi di economia è conosciuta come un monito esemplare in materia di insuccesso economico (Italy is best known as a cautionary tale of economic failure).

Bene (si fa per dire): in questa situazione – si badi bene: ante Covid! – ha senso invocare, per quando la forza della pandemia sarà definitivamente scemata, la resilienza cioè il rimbalzo, in pratica il rapido recupero della situazione pre-traumatica? O non abbiamo forse necessità – e il Next generation EU ce ne dà l'occasione, speriamo attentamente monitorata – di una rinascenza (tanto per usare ancora una volta una parola antica)?

Chiunque abbia maneggiato una palla sa che i rimbalzi perdono progressivamente di forza e dopo tre o quattro declinanti sussulti la palla riprende a rotolare sul terreno, magari – nel caso del nostro sport nazionale – in attesa di essere presa di nuovo a calci.

Roma 18 settembre 2020