mercoledì 9 dicembre 2020

Come stiamo?

 Una domanda banale

(di Felice Celato)

Alla fine dell’anno scorso ci eravamo fatti gli auguri per il nuovo decennio con le parole della carducciana dichiarazione d’amore per il pio bove; mi era parso di buon auspicio per tutti invocare l’arrivo di un decennio all’insegna delle virtù del bove (mitezza, forza, laboriosità, pazienza, tenacia, austera dolcezza, gravitas) per consegnare agli storici del futuro un decennio meritevole dell’evocativa etichetta di muggenti anni ’20.

Uhm! Ne è venuto fuori, invece, un inizio di decennio all’insegna del pipistrello (di Wuhan), non proprio un animale gradevole, né per aspetto, né per virtù; e i ragli scomposti e gli oziosi belati (che volevamo soverchiati, sui nostri campi, da vigorosi muggiti bovini) hanno seguitato a tenere il campo, vigorosi a loro volta come talora solo i ragli sanno esserlo, e resi più tragici dai dolori che abbiamo sperimentato, tanto diffusamente.

Perciò domandarsi “come stiamo?” può sembrare quanto meno inopportuno; ma, stamattina, la più “giovane” delle mie cognate (….anche lei, però, non lontana dalla settantina!), alla mia banale domanda “come state?” (intendendo lei e la sua famiglia) ha risposto in una maniera che mi ha fatto riflettere: “Beh! Intanto vivi, e non è poco!”.

Già, non è poco; anche se sfiorati dalle pallottole della pandemia che hanno colto amici fraterni (senza gravi conseguenze, grazie a Dio), tutto sommato – per ora – ce la siamo cavata: stiamo di più in casa, non andiamo a mangiarci una pizza con gli amici la domenica sera, usiamo il saturimetro (della cui esistenza abbiamo appreso nell’anno) ogni due o tre ore, ricorriamo a Skype per le poche, residue incombenze che accompagnano la nostra….seniority (ah! l’inglese, quanto è utile!), vediamo con qualche cautela solo figli e nipoti (e qualche altro congiunto, direbbe il nostro Premier Umanista), andiamo a messa distanziati, cerchiamo di non raffreddarci, leggiamo di più e aspettiamo il vaccino, fidenti in una priority ratione aetatis e, al tempo stesso, non del tutto ignari di altri possibili criteri (diciamo, quella ratione utilitatis, che ci vedrebbe non proprio favoriti). Ma, siamo vivi, e non è poco!

Questo approccio minimalista alla più ricorrente delle domande (come state?), stamane si è imbattuto in un articolo di Sergio Belardinelli (sociologo, che leggo sempre con grande piacere intellettuale) pubblicato da Il Foglio sotto il titolo Il senso della fatica di vivere. Nessun uomo viene al mondo solo per morire.

Ne cito qualche passo conclusivo, raccomandandone (anche per la densità dell’argomentare) la lettura integrale: La realtà è quella che è, segnata dal dolore e dalla morte, ma nessun uomo viene al mondo semplicemente per morire. Se così fosse, sarebbe il trionfo dell’entropia. Invece, direbbe Hannah Arendt, veniamo al mondo per incominciare, per generare forme di vita individuali, sociali e politiche capaci di procrastinare la fine che costantemente incombe su tutti noi e su tutto ciò che ci circonda. ….Non una fatica di Sisifo, dunque, e nemmeno la pretesa di realizzare un mondo perfetto dove non ci siano più fatica, né morte, ma solo la ferma determinazione a tenere in scacco, più a lungo e nel modo migliore possibile, la fine che necessariamente arriverà: questo è realismo. Certo, anche le persone migliori o le forme socio-politiche migliori alla fine moriranno, ma proprio la loro vita sta a testimoniare un senso, un fine, che non coincide con la loro fine. La bellezza, la bontà, la giustizia di ciò che avremmo saputo realizzare sopravvivranno alla caducità delle nostre povere vite e della vita dell'intero universo. Buon Natale dunque. Alla faccia del coronavirus.

Roma, 9 dicembre 2020

 

 

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