sabato 30 settembre 2017

Macrotendenze

Cosmopolitismo vs. nativismo
(di Felice Celato)
Ho letto ieri su Handelsblatt Global un articolo che mi ha molto interessato e che – così mi è parso – merita di essere sintetizzato ai miei pochi lettori, almeno per due motivi: anzitutto perché racconta un caso interessante dal punto di vista, direi, del costume e delle nuove sensibilità che il lessico giornalistico genera; e poi perché inquadra in ottica globale l’evoluzione delle sensibilità politiche del mondo occidentale (che riguardano, quindi, anche il nostro paese) e il modo col quale si vengono articolando quelle che chiamiamo, genericamente e spesso approssimativamente, le rivendicazioni populiste.
Da questo punto di vista – mi preme solo segnalarlo, senza ulteriori approfondimenti in questa sede – l’analisi di Handelsblatt  diverge vagamente dai temi che ritrovo in un altro libro che stavo leggendo (Che cos’è il Populismo ? di Jan-Werner Muller, Università Bocconi Ed., 2017), anch’esso di autore tedesco, sia pure professore alla Princeton University. Qui – sia detto per inciso, ma con soddisfazione – il concetto di populismo dell’autore coincide largamente con quello da noi progressivamente messo a fuoco: una particolare visione moralistica della politica che oppone il mito di un popolo moralmente puro, infallibile e completamente unificato, alla narrazione di un’elite corrotta e moralmente infida. Nell’articolo di Handelsblatt, di converso, la vicenda di Alternativa per la Germania (AfD, in sigla tedesca) viene inquadrata, certamente, in un’ottica anti-elitaria, ma ne vengono esaltate le radici localistiche, forse non del tutto esenti da fondati disagi economici dell’Est verso l’Ovest della Germania post-unificazione.
Quale che sia la natura di AfD, l’articolo di Handelsblatt, anzi, meglio, del suo Editor-in Chief Andreas Kluth (The Global backlash against Cosmopolitanism) muove da quello che potrebbe apparire, a prima vista, un classico incidente di un titolista, oppure, forse, un' autentica provocazione: nel commentare la vigorosa affermazione  di AfD alle ultime elezioni tedesche, Handelsblatt aveva titolato, qualche giorno fa, riferendosi ad una sua leader, Alice Weidel, così: Una lesbica cosmopolita si rivela un agitatore di estrema destra. Da qui una serie di sdegnate reazioni sul sito Facebook di Handelsblatt; ma non per l’uso del termine “lesbica” (come si sarebbe potuto pensare e tutto sommato ci si poteva attendere, non ostanti le esplicite posizioni della Weidel in materia) ma per l’uso del termine “cosmopolita”. E’ certamente vero – nota Kluth – che la cultura popolare tedesca tende a conservare memoria di come questo termine venisse usato, fra gli altri molto peggiori, come epiteto antisemita; e che nei secoli, il cosmopolitismo ha assunto una connotazione elitaria e mercantilistica che mal si attaglia alle posizioni espresse da AfD. Ma è anche vero che il termine vanta una storia  culturale di tutto rispetto risalente addirittura a Diogene il Cinico (4° secolo avanti Cristo) e che esso  rappresenta, forse meglio di ogni altro, uno dei poli culturali delle nuove sensibilità politiche di cui dicevamo all’inizio (tanto che, appunto, dice Kluth, Handelsblatt, non ostanti le proteste, continuerà ad usarlo, convinto che non coincida affatto con elitarismo).
Quindi, accantonando il tema delle sensibilità lessicali (comunque interessanti dal punto di vista del costume), l’articolista rivendica la centralità del termine cosmopolitismo per focalizzare il senso di una mutazione culturale che si è via via prodotta in gran parte del mondo occidentale, con la progressiva perdita di senso della contrapposizione politica lungo l’asse destra-sinistra e  la contemporanea progressiva affermazione di quella lungo l’asse cosmopolita-nativista. I termini del dualismo politico del mondo d’oggi, appropriato o non appropriato che sia il termine “cosmopolita”, – scrive Kluth – restano questi: da un lato chi è a favore di società aperte, libero commercio, globalismo e multilateralismo; dall’altro chi è a favore di confini chiusi, protezionismo, politiche ostili all’immigrazione e unilateralismo stile “la mia terra prima!”.
Roma  30 settembre 2017, San Girolamo, dottore della Chiesa….e mio compagno di stanza.


martedì 26 settembre 2017

Leggendo i giornali


Merkel e noi
(di Felice Celato)
Anche la Germania è un paese “normale”? Questo mi domandavo leggendo i commenti ai risultati delle elezioni in Germania: che la Merkel vincesse e i socialisti perdessero era dato per scontato; ma la dimensione della vittoria era sopravvalutata (tanto che si potrebbe “giornalisticamente” dire che si sia trattato solo di una non sconfitta della Cancelliera) e quella della sconfitta socialista, invece, sottovalutata. Non era prevista una così forte affermazione della destra (Allianz fur Deutschland, AfD) che raccoglie, pare, la protesta contro le aperture della Merkel ai rifugiati (ancorchè depotenziate nel tempo), contro l’immigrazione islamica, contro una maggior spinta sull’acceleratore dell’Europa e a favore di istanze di maggior sicurezza. Se poi ci siano anche rigurgiti o nostalgie di tragiche vicende ideologiche  non so dire, ma, per quello che conosco della Germania, mi sentirei di escluderlo (in fondo, nota la FAZ, AfD è stata votata da un milione e mezzo di transfughi dai democristiani e dai socialisti!) o di confinarlo nel mondo delle (sempre possibili) follie.
Dunque, se sono vere le chiavi interpretative che leggo (fra queste una ricerca Allensbach pubblicata oggi da Handelsblatt), la “normalità” della Germania sta tutta in quei timori di cui accennavamo poco fa (rifugiati, immigrazione islamica, integrazione Europea, sicurezza), mitigati da una diffusa soddisfazione per la politica economica del Governo (secondo il Corriere, invece, esaltati da una diffusa insoddisfazione). Se ci facciamo caso - di qui la “normalità” di una Germania, per tanti versi straordinaria - gli stessi timori che hanno condizionato Brexit, le elezioni negli USA (escluso qui il tema Europeo del quale agli americani non interessa un fico secco), i molti turmoil Europei orientali; e che rischiano di pesare assai anche sulle prossime elezioni Italiane, potenziati, da noi sicuramente, da una generalizzata insoddisfazione economica.
In generale, si potrebbe dire ricorrendo ai soliti banali stilemi, si tratterebbe di pulsioni destrorse se il dilagare del mito del popolo saggio (ed unico detentore di una moralità incontaminata) non avesse creato (o meglio: rivivificato) la categoria politica del populista (alla quale, infatti, molti ascrivono anche AfD, non foss’altro perché –anch’essa, come Trump – invoca la restituzione del paese al popolo). Del resto, secondo me (credo di averlo detto più volte) il populismo non è una direzione politica (come lo sarebbero state nel novecento la destra o la sinistra) ma una modalità di aggregazione del consenso che fa perno su una continuata provocatio ad popolum, esplicita o implicita, basata, non solo sull’equivoco della presunta saggezza e moralità del popolo stesso, ma, soprattutto, sulla facilità di determinare importanti flussi di indistinto consenso, spesso “grattando la pancia” degli istinti (insomma: il populismo come patologia della democrazia e quindi, possibilmente, sia di destra che di sinistra, se le due categorie novecentesche resistessero ancora).
Come che sia, il “problema” che abbiamo di fronte, sia che ci sentiamo soggetti politici nel senso migliore della parola (cioè autenticamente sensibili al bene della polis); sia che siamo unicamente sensibili alla formazione di una volontà popolare da governare poi in qualche modo; sia, infine, che siamo (come chi scrive) semplici e banali osservatori di quel che si passa nel nostro mondo; insomma, in ogni caso il problema rifugiati - immigrazione - sicurezza è il problema dei nostri tempi  col quale occorre fare i conti, come del resto era facile immaginare guardando alle sole dinamiche demografiche e economiche del mondo.
Non sarei completamente sincero con me stesso (e con voi che leggete annoiati queste mie elucubrazioni) se non riconoscessi che la mia posizione sul tema ha una sua (nobile, spero) venatura lato sensu ideologica (nel senso che si ritrova all’interno di un sistema concettuale ed interpretativo proprio di un cattolico liberale): io credo che l’immigrazione sia una necessità e un bene; che essa vada governata (per renderla ordinata e rispettosa non per reprimerla); che essa vada spiegata senza isterismi e senza preconcetti talora beceri. Sullo sfondo continuo a vedere con chiarezza i vasi comunicanti (l’abbiamo già detto) che tendono – nel tempo -all’equilibrio dei livelli (della ricchezza); i vasi incomunicanti (di qua noi, di là voi) sono un’ucronia folle (foriera di gravi guai, nel tempo).
La Germania, quali che siano le autentiche motivazioni del successo di AfD, ha tentato di farlo, questo show-down politico col problema della immigrazione; ne è risultata una non sconfitta o una non vittoria: benefica, dice il NYT, perché limita il senso di superiorità dei tedeschi, cioè perché li riconduce alla “normalità” di cui parlavamo all’inizio. Io non so dire se sia benefica; certamente da soppesare coi malefici di ogni elusione.
Roma 26 settembre 2017












sabato 23 settembre 2017

Defendit numerus / 16

La povertà assoluta
(di Felice Celato)
Da noi i dati spesse volte sono molti: se si sa cercare nel sito dell’Istat, per esempio, se ne reperiscono assai più di quanti ne servano all’ osservatore non specialista  che, però, semplicemente e doverosamente, senta il bisogno di pesi e proporzioni nel soppesare la realtà che ha dattorno. Se poi si aggiungono i dati messi insieme, con pari scrupolo, dalla Banca d’Italia, le collezioni delle ricerche Censis o Eurispes, gli studi tematici ad hoc di questo o quell’Istituto di ricerca, non si può negare che di dati nel nostro paese ne circolino tanti (e spesso di ottima qualità). Si potrà dire che talora, per eccesso di specialismo, non siano chiari o, per lo meno, non chiaramente esposti; che si prestino ad essere capiti male perché, spesso, diffusi da giornalisti disattenti o cialtroni (non sono rare, anche su giornali “autorevoli”, le confusioni fra milioni e miliardi!); o che (ed è cronaca quotidiana), mal esposti e peggio capiti, vengano “strapazzati” per sostenere questa o quell’altra tesi, di solito con orizzonte temporale inadeguato alla natura del problema al quale i dati vengono asserviti. Si potrà dire o pensare tutto ciò, ma, vi assicuro da appassionato di numeri, dati seri in Italia ce ne sono in abbondanza, solo che si ami pensare e parlare sulla base di essi.
Dunque, superata la difficoltà di sceverare fra dati statistici (fonte Istat) sulla povertà “assoluta” e “relativa” (si tratta di due misure distinte, effettuate con diverse metodologie), mi sono soffermato sui dati della “povertà assoluta”, intesa per tale il cluster statistico caratterizzato dall’incapacità reddituale – per fasce di maggiore o minore ampiezza dell’aggregato familiare – di fronteggiare i fabbisogni essenziali sintetizzati in un apposito “paniere” fatto di minimali esigenze per alimentazione, alloggio e per quant’altro indispensabile per evitare gravi forme di esclusione sociale; per intenderci: stiamo parlando di un reddito mensile individuale di circa 600 €.
[Il perché di questa curiosità statistica, i lettori fissi di questo blog l’avranno già capito: immagino che all’interno di tale fascia di povertà assoluta si collochino quegli italiani (o assimilabili) che alimentano, direi grossolanamente e con riserva di future indagini al riguardo, per circa un terzo la pletora di mendicanti che si schierano lungo le nostre strade cittadine; gli altri due terzi – sempre secondo la mia stima molto grossolana – avendo, invece origine nell’altro irrisolto problema dell’integrazione di rifugiati, politici o economici, che da qualche anno ci segnalano tutti i giorni che non siamo soli nel nostro “giardino”]
Bene. Eccomi allora a sintetizzare in quattro numeri ordinati (e arrotondati) le dimensioni del “problema”; quattro numeri perché ho la sensazione che ai più sfugga l’entità assoluta e relativa del fenomeno. Gli aggregati statistici sono, comprensibilmente, concepiti dall’Istat in una duplice chiave: quella familiare e quella del corrispondente numero di individui.

Famiglie e individui che vivono sotto la soglia di “povertà assoluta”(dati in milioni di unità o in percentuale)


ANNO 2016 (*)
Tot. Italia
Sotto soglia
     In %
Famiglie
25,7
1.6
6,3 %
Individui
60,0
4.7
7,9%

(*) Fonte: ns elaborazioni sul Report dell’Istat “La povertà in Italia, anno 2016”

In parole…povere: come se tutti gli abitanti di Roma, Napoli e Torino, messi assieme, fossero sotto la soglia di povertà assoluta; una famiglia ogni 15 famiglie; come al solito, più al Sud e meno nel Centro-Nord. L’incidenza (sempre dati Istat) è cresciuta negli ultimi tre anni (dal 5,7% del 2014 all’attuale 6,3% delle famiglie).
Il recente “varo” (come al solito per ora “vocale”) del c.d. reddito di inclusione (ReI), secondo studi dell’Alleanza contro la povertà, copre solo il 38% degli individui in stato di povertà assoluta.
Buona domenica.
Roma 23 settembre 2017