La povertà
assoluta
(di Felice Celato)
Da
noi i dati spesse volte sono molti: se si sa cercare nel sito dell’Istat, per esempio, se ne reperiscono
assai più di quanti ne servano all’ osservatore non specialista che, però, semplicemente e doverosamente,
senta il bisogno di pesi e proporzioni nel soppesare la realtà che ha dattorno.
Se poi si aggiungono i dati messi insieme, con pari scrupolo, dalla Banca d’Italia, le collezioni delle
ricerche Censis o Eurispes, gli studi tematici ad hoc di questo o quell’Istituto di
ricerca, non si può negare che di dati nel nostro paese ne circolino tanti (e
spesso di ottima qualità). Si potrà dire che talora, per eccesso di
specialismo, non siano chiari o, per lo meno, non chiaramente esposti; che si
prestino ad essere capiti male perché, spesso, diffusi da giornalisti
disattenti o cialtroni (non sono rare, anche su giornali “autorevoli”, le
confusioni fra milioni e miliardi!); o che (ed è cronaca quotidiana), mal
esposti e peggio capiti, vengano “strapazzati” per sostenere questa o
quell’altra tesi, di solito con orizzonte temporale inadeguato alla natura del
problema al quale i dati vengono asserviti. Si potrà dire o pensare tutto ciò,
ma, vi assicuro da appassionato di numeri, dati seri in Italia ce ne sono in
abbondanza, solo che si ami pensare e parlare sulla base di essi.
Dunque,
superata la difficoltà di sceverare fra dati statistici (fonte Istat) sulla
povertà “assoluta” e “relativa” (si tratta di due misure distinte, effettuate
con diverse metodologie), mi sono soffermato sui dati della “povertà assoluta”,
intesa per tale il cluster statistico
caratterizzato dall’incapacità reddituale – per fasce di maggiore o minore
ampiezza dell’aggregato familiare – di fronteggiare i fabbisogni essenziali
sintetizzati in un apposito “paniere” fatto di minimali esigenze per
alimentazione, alloggio e per quant’altro indispensabile per evitare gravi
forme di esclusione sociale; per intenderci: stiamo parlando di un reddito mensile individuale di circa 600 €.
[Il
perché di questa curiosità statistica, i lettori fissi di questo blog l’avranno già capito: immagino che
all’interno di tale fascia di povertà assoluta si collochino quegli italiani (o
assimilabili) che alimentano, direi grossolanamente e con riserva di future
indagini al riguardo, per circa un terzo la pletora di mendicanti che si
schierano lungo le nostre strade cittadine; gli altri due terzi – sempre
secondo la mia stima molto grossolana – avendo, invece origine nell’altro
irrisolto problema dell’integrazione di rifugiati, politici o economici, che da
qualche anno ci segnalano tutti i giorni che non siamo soli nel nostro
“giardino”]
Bene.
Eccomi allora a sintetizzare in quattro numeri ordinati (e arrotondati) le dimensioni del
“problema”; quattro numeri perché ho la sensazione che ai più sfugga l’entità
assoluta e relativa del fenomeno. Gli aggregati statistici sono,
comprensibilmente, concepiti dall’Istat in una duplice chiave: quella familiare
e quella del corrispondente numero di individui.
Famiglie
e individui che vivono sotto la soglia di “povertà assoluta”(dati in milioni di
unità o in percentuale)
ANNO 2016 (*)
|
Tot. Italia
|
Sotto soglia
|
In %
|
Famiglie
|
25,7
|
1.6
|
6,3 %
|
Individui
|
60,0
|
4.7
|
7,9%
|
(*)
Fonte: ns elaborazioni sul Report dell’Istat “La povertà in Italia, anno 2016”
In
parole…povere: come se tutti gli abitanti di Roma, Napoli e Torino, messi
assieme, fossero sotto la soglia di povertà assoluta; una famiglia ogni 15
famiglie; come al solito, più al Sud e meno nel Centro-Nord. L’incidenza (sempre
dati Istat) è cresciuta negli ultimi tre anni (dal 5,7% del 2014 all’attuale
6,3% delle famiglie).
Il
recente “varo” (come al solito per ora “vocale”) del c.d. reddito di inclusione
(ReI), secondo studi dell’Alleanza contro
la povertà, copre solo il 38% degli individui in stato di povertà assoluta.
Buona
domenica.
Roma
23 settembre 2017
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