lunedì 28 settembre 2015

Letture per un giorno di nuvole

Giobbe
(di Felice Celato)
Per puro caso, mi è capitato in questi ultimi mesi di rileggere, per la terza o quarta volta, il libro di Giobbe. E, non so perché – forse nel cielo ci sono troppe nuvole scure – oggi mi va di trascrivervene un brano, breve e potente.
Siamo al punto della teofania, alla fine del libro, quando Jahweh  risponde, con ironia sferzante, a Giobbe che gli domandava ragione del male:
Jahweh rispose a Giobbe dal turbine e disse: “Cingiti i fianchi come un eroe; ti interrogherò e tu mi istruirai. Vorresti tu veramente cancellare il mio giudizio, per condannarmi ed avere tu ragione? Hai tu un braccio come quello di Dio, e puoi tu tuonare con voce pari alla sua? Ornati dunque di gloria e di  maestà, rivestiti di splendore e di fasto. Riversa i furori della tua collera, e con uno sguardo abbatti i superbi. Umilia con uno sguardo ogni arrogante, schiaccia i malvagi ovunque si trovino. Nascondili nella polvere tutti insieme, rinchiudi al buio i loro volti. Allora anch’io ti renderò omaggio, perché la tua destra ti ha dato vittoria!”
E poco oltre, Giobbe rispose a Jahweh dicendo: “Riconosco che puoi tutto, e nessun progetto ti è impossibile. Chi è colui che denigra la provvidenza? E’ vero, senza nulla sapere ho detto cose superiori a me, che io non comprendo. Ascoltami, di grazia, e lasciami parlare, io ti interrogherò e tu mi istruirai. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto, perciò mi ricredo e mi pento sulla polvere e sulla cenere.”
Ogni tanto fa bene ripensare alla distanza che separa i pensieri dell’uomo dalla potenza di Dio.

Roma 28 settembre 2015, tempo molto nuvoloso.

giovedì 24 settembre 2015

Lezioni della realtà

Grecia
(di Felice Celato)
Mentre sorge la vicenda Volkswagen (della quale sentiremo a lungo i riflessi pesanti), tramonta, sulla stampa, la vicenda Greca: io non credo – invece – che sia arrivato (ancora e non ostanti le apparenze) il momento di farne un bilancio, almeno dal punto di vista finanziario; mi vado convincendo che un debt relief  anche nominale (non solo reale) sia necessario per porre più stabilmente la Grecia sul binario giusto. Vedremo. Viceversa, forse è arrivato il momento di farne almeno un provvisorio bilancio politico e – devo dire, a conforto di chi mi bolla di preconcetto pessimismo – il risultato mi pare migliore di quanto non avessi temuto.
In fondo il popolo Greco – che già aveva fatto il suo referendum sull’euro correndo agli sportelli bancari per prelevare i risparmi nel timore di vederseli forzosamente convertiti nella tanto “amata” dracma – ha dimostrato un realismo ed una concretezza superiore a quella messa in campo dai populisti/avventuristi del luogo; e Tsipras – che tanto mi aveva disgustato con l’incomprensibile referendum del luglio scorso – ha dimostrato di essere almeno un ottimo scommettitore; e, forse, di essere dotato di un sufficiente cinismo da poterne fare, nel tempo, un buon politico (soprattutto se saprà guardarsi dallo strisciante antisemitismo di alcuni suoi compagni di strada politica).
Certo ha perduto tanto tempo per correre dietro al rafforzamento della sua leadership e ha posto il suo paese a grave rischio; ma gli è andata “bene” e, come diceva Napoleone, è meglio che i generali siano anzitutto fortunati.
Ora dovrà gestire (questi sono i curiosi risultati dei suoi fortunati funambolismi) il programma che, in buona sostanza, ha, con vece assidua, prima convenuto, poi avversato e infine stipulato. Speriamo che l’imbarazzante situazione non lo spinga a commettere errori.
Ho scritto più volte che la vicenda Greca sarebbe stata per noi italiani (meglio: per alcuni di noi!)  per tanti aspetti ricca di insegnamenti e questa sua provvisoria chiusura ci consente, forse, di cominciare ad enunciarli. Per il primo insegnamento, mi pare si possa usare una felice formula Bergogliana (Noi come cittadini, noi come popolo, Buenos Aires,2010): la realtà è superiore all’idea. Inutile dire che il termine “idea”, a fortiori, contiene quello di ideologia o ideologie. Il secondo insegnamento sta tutto in un principio che qui abbiamo utilizzato più volte: non esistono soluzioni facili per problemi difficili: chi fa credere il contrario è, a suo modo, un pusher politico; il terzo è un corollario del secondo: dire la verità – quand’anche si sia solo costretti a farlo – è meglio che vendere illusioni. La situazione sociologica, economica e finanziaria della Grecia rimane tutt’ora grave (segnalo due libri al riguardo: The 13th labour of Hercules, di Y. Palaiologos e La Grecia in crisi , di M. Borghi); ma almeno la Grecia ha deciso di voler continuare a dirsi Europea (oggi direi: per quel che ancora ciò significa), prendendo atto della realtà.
Come si vede, non c’è niente di nuovo, nei tre insegnamenti politici che ci vengono da Atene; né, purtroppo, c’è nulla di nuovo nella necessità di considerali sempre attuali per il nostro piccolo mondo politico.

Roma, 24 settembre 2015

domenica 20 settembre 2015

Letture

La buona economia/2
(di Felice Celato)
Chi ha letto il mio  post di qualche giorno fa “Elogio della buona economia” ha senz’altro realizzato che l’autore è un convinto sostenitore della libera economia e del mercato ben regolato ma anche un fermo assertore del valore economico (oltreché, primamente, morale) di una ragionevole ridistribuzione di redditi e di ricchezza.
Bene: tre giorni fa mi è stato segnalato un libro molto interessante, appena uscito, che ho comprato e divorato in diverse ore di intensa lettura; si tratta di un saggio (Come salvare il capitalismo, pubblicato in Italia da Fazi, prima ancora che esca negli stessi USA) scritto da un autore americano (Robert R. Reich), economista e ministro del lavoro durante la presidenza Clinton. Il libro analizza, coll’ampio corredo esemplificativo tipico della saggistica americana, l’involuzione subita, negli ultimi anni, dal capitalismo americano per effetto della surrettizia occupazione delle funzioni “di disciplina dei mercati” da parte del potere economico. In sostanza, mi pare di poter dire, Reich descrive una sorta di - l’espressione è mia - progressiva corruzione sistemica (diversa, evidentemente, dalla piccola corruzione endemica cui siamo abituati da noi, ma per certi aspetti assai più pericolosa) che ha alterato le regole che, in tanti anni di storia americana, avevano consentito al sistema capitalistico di realizzare la straordinaria e diffusa crescita di quell’economia. Così, chi del mercato doveva essere il regolatore (politici, autorità di governo dell’economia, magistratura americana, etc) si è prestato, per denaro o per amore del potere, ad una progressiva alterazione delle regole a vantaggio di chi a quelle regole avrebbe dovuto essere soggetto, eliminando o indebolendo il ruolo dei contrappesi che fanno buona, per usare il linguaggio che avevo usato io, la buona economia. Il “messaggio” politico di Reich è che il salvataggio del capitalismo passa per la ricostruzione di questi contrappesi (limitazione della durata dei brevetti, regole antitrust più rigide, tutela delle parti contrattuali più deboli, conflitti di interesse, separazione fra regolati e regolatori, etc) tutti orientati alla garanzia di una ragionevole ridistribuzione di redditi e di ricchezze, fonte - essa ridistribuzione - di una crescita durevole e diffusa.
Devo dire che, pur nella sostanziale diversità (riconosciuta anche da Reich)  dello scenario americano rispetto a quello europeo, la lettura del libro mi è risultata di conforto intellettuale, anche se, in particolare, due temi implicati dalla trattazione mi hanno lasciato interrogativi, angosciosi anche per noi che siamo ben lontani dalla realtà economica (e politica) americana; provo ad enunciarli in poche righe, con riserva, magari, di tornarci sopra in seguito: (1) che effetto ha la globalizzazione dei mercati sulle prospettive reddituali delle classi medie dei paesi “ricchi”?  Non è forse inevitabile che, per molti anni, l’afflusso ai mercati di “masse povere” (di consumatori ma anche di produttori) deprima irrimediabilmente le prospettive reddituali delle “masse ricche”? Quale contrappeso “domestico” potrà arginare un fenomeno di tale ampiezza? (2) Che effetto ha la straordinaria, ulteriore crescita di tecnologie produttive sempre più “robotizzate” sulla capacità di reddito di grande masse di ceti espropriati del lavoro (o magari solo de-mansionati) ? Basterà, come pur dubbiosamente esemplifica Reich, ri-regolare i mercati in modo da finanziare, con nuove discipline della proprietà intellettuale, un reddito minimo garantito (“che consenta di essere economicamente indipendenti e autosufficienti”)? O sarà necessaria quella tassa progressiva globale sulla ricchezza astrattamente vagheggiata da  Piketty nel suo libro Il capitale nel XXI secolo (qui segnalato in un post del 15 gennaio scorso)?
Boh!? Reich si dichiara ottimista, sulla base della stessa storia del capitalismo americano che ha saputo, nel tempo ed assai a lungo, proteggere i benefici del mercato a vantaggio della diffusione del benessere.
A me, come sanno i lettori di questi post, viene difficile, in  principio, dichiararmi ottimista, forse – e spero solo per questo! – perché qui da noi siamo immersi, fino al collo, in una tale poltiglia di piccole beghe provinciali che alzare tutti insieme gli occhi alla luna ci viene difficilissimo; tutt’al più adocchiamo il dito che ce la indica e magari apriamo un ampio dibattito sulla lunghezza della relativa unghia. Comunque, mettiamola così, pensare mi distrae dal resto; e per questo segnalo questo libro a chi condivide questa esigenza.
Roma 20 settembre 2015 (ah! anniversario di Porta Pia. Rimpianti?)

P.S.: 693 parole, escluso questo P.S.

martedì 15 settembre 2015

Stupi-diario della vecchiaia (?)

Limes tolerantiae
(di Felice Celato)
Il limite della sopportazione è quello che mi ha fissato mia moglie. E in che consiste questo limite al di là del quale diventerei insopportabile? È il numero massimo delle spedizioni a quel paese che, da domenica, sono invitato caldamente a non superare quotidianamente. Non posso cioè mandare a quel paese più di quattro fra gli opinionisti, comunicatori, politici e assimilati che mi capita di ascoltare o leggere ogni giorno! (Originariamente si voleva fissarmi il limite di  tre ma ho duramente negoziato di poter arrivare a quattro, minimo vitale, senza, però - qui ho dovuto cedere - diritto al riporto a nuovo, cioè al giorno successivo, di quelli eventualmente ma improbabilmente non utilizzati il giorno precedente.)
Capirete bene che è veramente dura per chi, come me, esterna duramente (e spesso ad alta voce) ogni volta che ascolta o legge qualche grossolanità o, addirittura, qualche bestialità; tanto più che, avendone tempo, non solo ascolto tutti i giorni e di prima mattina, mentre mi preparo ad uscire, la dettagliata rassegna stampa che, meritoriamente, fa Radio Radicale, ma anche, nel corso della giornata, leggo o sfoglio direttamente tre giornali italiani e un paio di stranieri e ascolto, magari in macchina,  un paio di emittenti radiofoniche. Per fortuna non guardo talk show nè ascolto telegiornali. Ma talora, per puro masochismo compensativo, leggo i commenti dei lettori sui giornali via internet.
Perché mi sono ridotto a vedermi imposto questo limite? Si dirà: perché diventi vecchio e i vecchi, si sa, diventano insopportabilmente insofferenti di tutto, forse caricaturalmente insofferenti, come il vecchietto di Montesano. Ma credo (o meglio: amo credere) che ci sia anche una ragione esogena: perché in Italia - lo diceva qualche tempo fa anche Galli della Loggia - volano troppe fesserie e, molto spesso, decollano,  prendono il vento e aleggiano sulle nostre teste senza che nessuno abbia il coraggio di denunciarne, apertis verbis, la cruda natura.
Sia come sia, fatto sta che oggi, avendo esaurito già in mattinata il plafond fissatomi, ho dovuto tacere leggendo che Grillo vuole andare in prigione per una condanna per diffamazione (peraltro non ancora passata in giudicato)  "come Mandela e Pertini".

Roma 15 settembre 2015

domenica 13 settembre 2015

"Decaloghi"

Elogio della buona economia
(di Felice Celato)
Nella grande confusione di linguaggi e di pulsioni demagogiche (buone per raccogliere rumorosi consensi ma dannose per la comprensione del presente), mi è venuta in mente l’esigenza di tracciare un mio personalissimo quadro (un "decalogo", direi con un po’ di autoironia) di ciò che penso della buona economia (ricordiamo il senso della parola, dal greco oikou nomia: regola della casa). Data l’ingenua vastità del tema, forse supererò il limite delle 700 parole che mi sono dato per questi post.
  1. La buona economia è espressione della libertà, di pensiero, di azione, di intrapresa, di commerci. Essa presuppone la libertà e –al tempo stesso – la garantisce.
  2. Essa mira al bene della produzione di ricchezza, sotto forma di salari, di investimenti, di interessi da corrispondere a chi presta – a suo proprio rischio – i capitali necessari per ogni intrapresa, di profitti di chi rischia direttamente i propri capitali nell’intrapresa e di tasse da pagare per sostenere i sevizi comuni (scuola, sanità, difesa, previdenza pubblica, etc).
  3. Da questa libertà dipende la massima efficacia dell’economia (cioè la dimensione della “torta” da ripartire sulla tavola) e il mercato è il “luogo” ove questa efficacia si manifesta.
  4. Come ogni libertà, anche quella economica presuppone delle regole per garantirne l’esercizio a tutti e nell’interesse di tutti e di ciascuno. Queste regole le fissa la politica, intesa appunto come la regolatrice della casa comune. Alla politica spetta quindi di disciplinare i mercati (col solo limite fisiologico di non annullarne la funzione di strumento di base per la produzione della ricchezza) e di fissare regole chiare che armonizzino gli interessi di tutti i partecipanti al processo di produzione della ricchezza (salari minimi, orari massimi, tutela della sanità del lavoro, regole di accesso al mercato dei capitali, accesso alle fonti di energia, rispetto della leale concorrenza, etc.) e della stessa “casa”comune (imposte da pagare per sostenere i servizi comuni, previdenza sociale, etc).
  5. La buona economia guarda agli investimenti come spese a redditività differita, e quindi come esborsi destinati a produrre ritorni nel tempo, tali da consentire, necessariamente, almeno il rimborso del debito contratto per realizzare tali investimenti e il pagamento dei relativi interessi. Investimenti che non rispondano a tali requisiti non sono investimenti ma spese e, come tali, sopportabili solo col consumo di ricchezza (se ce n’è in avanzo) o di redditi.
  6. Lo Stato (quindi la “casa”) soggiace, quanto al suo proprio bilancio, alle stesse regole dell’economia: non può effettuare spese se non ha ricchezza da impiegare o redditi (cioè entrate ordinarie) da consumare per tali spese; né può effettuare investimenti se non ha la ragionevole aspettativa che tali investimenti producano i ritorni necessari a fronte dei capitali eventualmente presi a prestito (il debito pubblico) e dei relativi interessi da corrispondere a chi abbia prestato tali capitali. Se questa regola significa “austerità”, allora io sono favorevole alla austerità.
  7. Lo Stato inoltre può legittimamente perseguire la finalità di compensare con proprie azioni (spesa pubblica o variazioni della fiscalità o normative speciali) le inevitabili fluttuazioni dell’economia, facendo sì che transitorie depressioni economiche (minor produzione di ricchezza) non scarichino i loro effetti sulle classi più deboli. Tali azioni, peraltro, non possono che avere natura temporanea ed essere basate sulla legittima aspettativa che la ripresa della produzione di ricchezza, una volta che torni a manifestarsi,  ne compensi (cioè ripaghi) i costi.
  8. Il debito pubblico (cioè dello Stato e quindi, indirettamente, dei cittadini che lo compongono) ed il suo andamento nel tempo – né più né meno di come accade a qualsiasi soggetto economico col proprio indebitamento – costituiscono una spia eloquente della coerenza delle azioni dello Stato con le regole appena enunciate: se continua ad aumentare, significa che lo Stato continua a spendere più di quanto incassa o ad investire in operazioni che non sono investimenti ma spese (vedi punto 5); e potrà farlo solo finché trovi credito sufficiente per finanziare il suo deficit finanziario (spese superiori alle entrate). Lo spread è la misura istantanea della credibilità dello stato presso i suoi finanziatori (che pretendono maggiori interessi dove maggiore è il rischio di insolvenza).
  9. Lo Stato può, anzi deve, perseguire finalità di ridistribuzione della ricchezza e dei redditi, proteggendo le classi più deboli a scapito di quelle più ricche; anche qui con un limite fisiologico: che l’azione ridistributiva non annulli i meccanismi di produzione della ricchezza, fra i quali c’è anche la spinta degli operatori economici (lavoratori e imprenditori) a migliorare la propria situazione economica e patrimoniale.
  10. La solidarietà economica fra le classi sociali è - oltre che un dovere prima di tutto morale - anche una leva di sviluppo economico: essa infatti tutela la capacità di spesa delle classi più deboli che, essendo spesso le più numerose, sono quelle che attivano la maggiore domanda (i “consumi” tanto deprecati dagli ideolopatici) che - a sua volta - stimola la maggiore offerta e, quindi, garantisce la crescita dei mercati. La legislazione dello Stato e, quindi, le regole della casa, la tutelano e la promuovono, nelle forme appropriate.

Mi direte: perché te ne vieni fuori con questo noioso pistolotto? Per due ragioni: perché – mentre lo scrivo – fuori piove e manca ancora tempo al Derby de la Madunina; e perché prevedo che nelle prossime settimane sarà utile, prima di tutto a me stesso, rileggere questo “decalogo” per valutare ciò che ci bolle in pentola.

Roma 13 settembre 2015