La buona economia/2
(di
Felice Celato)
Chi
ha letto il mio post di qualche giorno fa “Elogio della buona economia” ha senz’altro realizzato che l’autore è un convinto
sostenitore della libera economia e del mercato ben regolato ma anche un fermo
assertore del valore economico (oltreché, primamente, morale) di una
ragionevole ridistribuzione di redditi e di ricchezza.
Bene:
tre giorni fa mi è stato segnalato un libro molto interessante, appena uscito,
che ho comprato e divorato in diverse ore di intensa lettura; si tratta di un saggio
(Come salvare il capitalismo,
pubblicato in Italia da Fazi, prima ancora
che esca negli stessi USA) scritto da un autore americano (Robert R. Reich), economista e ministro del lavoro durante la
presidenza Clinton. Il libro analizza, coll’ampio corredo esemplificativo
tipico della saggistica americana, l’involuzione subita, negli ultimi anni, dal
capitalismo americano per effetto della surrettizia occupazione delle funzioni
“di disciplina dei mercati” da parte del potere economico. In sostanza, mi pare
di poter dire, Reich descrive una sorta di - l’espressione è mia - progressiva corruzione sistemica
(diversa, evidentemente, dalla piccola corruzione endemica cui siamo abituati
da noi, ma per certi aspetti assai più pericolosa) che ha alterato le regole
che, in tanti anni di storia americana, avevano consentito al sistema
capitalistico di realizzare la straordinaria e diffusa crescita di
quell’economia. Così, chi del mercato doveva essere il regolatore (politici,
autorità di governo dell’economia, magistratura americana, etc) si è prestato,
per denaro o per amore del potere, ad una progressiva alterazione delle regole a
vantaggio di chi a quelle regole avrebbe dovuto essere soggetto, eliminando o
indebolendo il ruolo dei contrappesi
che fanno buona, per usare il linguaggio che avevo usato io, la buona economia. Il “messaggio”
politico di Reich è che il salvataggio del capitalismo passa per la ricostruzione
di questi contrappesi (limitazione della durata dei brevetti, regole antitrust
più rigide, tutela delle parti contrattuali più deboli, conflitti di interesse,
separazione fra regolati e regolatori, etc) tutti orientati alla garanzia di
una ragionevole ridistribuzione di redditi e di ricchezze, fonte - essa ridistribuzione - di una
crescita durevole e diffusa.
Devo
dire che, pur nella sostanziale diversità (riconosciuta anche da Reich) dello scenario americano rispetto a quello
europeo, la lettura del libro mi è risultata di conforto intellettuale, anche
se, in particolare, due temi implicati dalla trattazione mi hanno lasciato
interrogativi, angosciosi anche per noi che siamo ben lontani dalla realtà
economica (e politica) americana; provo ad enunciarli in poche righe, con
riserva, magari, di tornarci sopra in seguito: (1) che effetto ha la
globalizzazione dei mercati sulle prospettive reddituali delle classi medie dei
paesi “ricchi”? Non è forse inevitabile
che, per molti anni, l’afflusso ai mercati di “masse povere” (di consumatori ma anche di
produttori) deprima irrimediabilmente le prospettive reddituali delle “masse ricche”?
Quale contrappeso “domestico” potrà
arginare un fenomeno di tale ampiezza? (2) Che effetto ha la straordinaria,
ulteriore crescita di tecnologie produttive sempre più “robotizzate” sulla
capacità di reddito di grande masse di ceti espropriati del lavoro (o magari
solo de-mansionati) ? Basterà, come pur dubbiosamente esemplifica Reich,
ri-regolare i mercati in modo da finanziare, con nuove discipline della
proprietà intellettuale, un reddito minimo garantito (“che consenta di essere economicamente indipendenti e autosufficienti”)?
O sarà necessaria quella tassa progressiva globale sulla ricchezza astrattamente vagheggiata
da Piketty
nel suo libro Il capitale nel XXI secolo
(qui segnalato in un post del 15
gennaio scorso)?
Boh!?
Reich si dichiara ottimista, sulla base della stessa storia del capitalismo
americano che ha saputo, nel tempo ed assai a lungo, proteggere i benefici del
mercato a vantaggio della diffusione del benessere.
A
me, come sanno i lettori di questi post,
viene difficile, in principio,
dichiararmi ottimista, forse – e spero solo per questo! – perché qui da noi
siamo immersi, fino al collo, in una tale poltiglia di piccole beghe
provinciali che alzare tutti insieme gli occhi alla luna ci viene
difficilissimo; tutt’al più adocchiamo il dito che ce la indica e magari
apriamo un ampio dibattito sulla lunghezza della relativa unghia. Comunque,
mettiamola così, pensare mi distrae dal resto; e per questo segnalo questo
libro a chi condivide questa esigenza.
Roma
20 settembre 2015 (ah! anniversario di Porta Pia. Rimpianti?)
P.S.:
693 parole, escluso questo P.S.
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