domenica 20 settembre 2015

Letture

La buona economia/2
(di Felice Celato)
Chi ha letto il mio  post di qualche giorno fa “Elogio della buona economia” ha senz’altro realizzato che l’autore è un convinto sostenitore della libera economia e del mercato ben regolato ma anche un fermo assertore del valore economico (oltreché, primamente, morale) di una ragionevole ridistribuzione di redditi e di ricchezza.
Bene: tre giorni fa mi è stato segnalato un libro molto interessante, appena uscito, che ho comprato e divorato in diverse ore di intensa lettura; si tratta di un saggio (Come salvare il capitalismo, pubblicato in Italia da Fazi, prima ancora che esca negli stessi USA) scritto da un autore americano (Robert R. Reich), economista e ministro del lavoro durante la presidenza Clinton. Il libro analizza, coll’ampio corredo esemplificativo tipico della saggistica americana, l’involuzione subita, negli ultimi anni, dal capitalismo americano per effetto della surrettizia occupazione delle funzioni “di disciplina dei mercati” da parte del potere economico. In sostanza, mi pare di poter dire, Reich descrive una sorta di - l’espressione è mia - progressiva corruzione sistemica (diversa, evidentemente, dalla piccola corruzione endemica cui siamo abituati da noi, ma per certi aspetti assai più pericolosa) che ha alterato le regole che, in tanti anni di storia americana, avevano consentito al sistema capitalistico di realizzare la straordinaria e diffusa crescita di quell’economia. Così, chi del mercato doveva essere il regolatore (politici, autorità di governo dell’economia, magistratura americana, etc) si è prestato, per denaro o per amore del potere, ad una progressiva alterazione delle regole a vantaggio di chi a quelle regole avrebbe dovuto essere soggetto, eliminando o indebolendo il ruolo dei contrappesi che fanno buona, per usare il linguaggio che avevo usato io, la buona economia. Il “messaggio” politico di Reich è che il salvataggio del capitalismo passa per la ricostruzione di questi contrappesi (limitazione della durata dei brevetti, regole antitrust più rigide, tutela delle parti contrattuali più deboli, conflitti di interesse, separazione fra regolati e regolatori, etc) tutti orientati alla garanzia di una ragionevole ridistribuzione di redditi e di ricchezze, fonte - essa ridistribuzione - di una crescita durevole e diffusa.
Devo dire che, pur nella sostanziale diversità (riconosciuta anche da Reich)  dello scenario americano rispetto a quello europeo, la lettura del libro mi è risultata di conforto intellettuale, anche se, in particolare, due temi implicati dalla trattazione mi hanno lasciato interrogativi, angosciosi anche per noi che siamo ben lontani dalla realtà economica (e politica) americana; provo ad enunciarli in poche righe, con riserva, magari, di tornarci sopra in seguito: (1) che effetto ha la globalizzazione dei mercati sulle prospettive reddituali delle classi medie dei paesi “ricchi”?  Non è forse inevitabile che, per molti anni, l’afflusso ai mercati di “masse povere” (di consumatori ma anche di produttori) deprima irrimediabilmente le prospettive reddituali delle “masse ricche”? Quale contrappeso “domestico” potrà arginare un fenomeno di tale ampiezza? (2) Che effetto ha la straordinaria, ulteriore crescita di tecnologie produttive sempre più “robotizzate” sulla capacità di reddito di grande masse di ceti espropriati del lavoro (o magari solo de-mansionati) ? Basterà, come pur dubbiosamente esemplifica Reich, ri-regolare i mercati in modo da finanziare, con nuove discipline della proprietà intellettuale, un reddito minimo garantito (“che consenta di essere economicamente indipendenti e autosufficienti”)? O sarà necessaria quella tassa progressiva globale sulla ricchezza astrattamente vagheggiata da  Piketty nel suo libro Il capitale nel XXI secolo (qui segnalato in un post del 15 gennaio scorso)?
Boh!? Reich si dichiara ottimista, sulla base della stessa storia del capitalismo americano che ha saputo, nel tempo ed assai a lungo, proteggere i benefici del mercato a vantaggio della diffusione del benessere.
A me, come sanno i lettori di questi post, viene difficile, in  principio, dichiararmi ottimista, forse – e spero solo per questo! – perché qui da noi siamo immersi, fino al collo, in una tale poltiglia di piccole beghe provinciali che alzare tutti insieme gli occhi alla luna ci viene difficilissimo; tutt’al più adocchiamo il dito che ce la indica e magari apriamo un ampio dibattito sulla lunghezza della relativa unghia. Comunque, mettiamola così, pensare mi distrae dal resto; e per questo segnalo questo libro a chi condivide questa esigenza.
Roma 20 settembre 2015 (ah! anniversario di Porta Pia. Rimpianti?)

P.S.: 693 parole, escluso questo P.S.

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