Elogio della buona
economia
(di Felice Celato)
Nella
grande confusione di linguaggi e di pulsioni demagogiche (buone per raccogliere
rumorosi consensi ma dannose per la comprensione del presente), mi è venuta in
mente l’esigenza di tracciare un mio personalissimo quadro (un "decalogo",
direi con un po’ di autoironia) di ciò che penso della buona economia (ricordiamo il senso della parola, dal greco oikou nomia: regola della casa). Data
l’ingenua vastità del tema, forse supererò il limite delle 700 parole che mi
sono dato per questi post.
- La buona economia è espressione della libertà, di pensiero, di azione, di intrapresa, di commerci. Essa presuppone la libertà e –al tempo stesso – la garantisce.
- Essa mira al bene della produzione di ricchezza, sotto forma di salari, di investimenti, di interessi da corrispondere a chi presta – a suo proprio rischio – i capitali necessari per ogni intrapresa, di profitti di chi rischia direttamente i propri capitali nell’intrapresa e di tasse da pagare per sostenere i sevizi comuni (scuola, sanità, difesa, previdenza pubblica, etc).
- Da questa libertà dipende la massima efficacia dell’economia (cioè la dimensione della “torta” da ripartire sulla tavola) e il mercato è il “luogo” ove questa efficacia si manifesta.
- Come ogni libertà, anche quella economica presuppone delle regole per garantirne l’esercizio a tutti e nell’interesse di tutti e di ciascuno. Queste regole le fissa la politica, intesa appunto come la regolatrice della casa comune. Alla politica spetta quindi di disciplinare i mercati (col solo limite fisiologico di non annullarne la funzione di strumento di base per la produzione della ricchezza) e di fissare regole chiare che armonizzino gli interessi di tutti i partecipanti al processo di produzione della ricchezza (salari minimi, orari massimi, tutela della sanità del lavoro, regole di accesso al mercato dei capitali, accesso alle fonti di energia, rispetto della leale concorrenza, etc.) e della stessa “casa”comune (imposte da pagare per sostenere i servizi comuni, previdenza sociale, etc).
- La buona economia guarda agli investimenti come spese a redditività differita, e quindi come esborsi destinati a produrre ritorni nel tempo, tali da consentire, necessariamente, almeno il rimborso del debito contratto per realizzare tali investimenti e il pagamento dei relativi interessi. Investimenti che non rispondano a tali requisiti non sono investimenti ma spese e, come tali, sopportabili solo col consumo di ricchezza (se ce n’è in avanzo) o di redditi.
- Lo Stato (quindi la “casa”) soggiace, quanto al suo proprio bilancio, alle stesse regole dell’economia: non può effettuare spese se non ha ricchezza da impiegare o redditi (cioè entrate ordinarie) da consumare per tali spese; né può effettuare investimenti se non ha la ragionevole aspettativa che tali investimenti producano i ritorni necessari a fronte dei capitali eventualmente presi a prestito (il debito pubblico) e dei relativi interessi da corrispondere a chi abbia prestato tali capitali. Se questa regola significa “austerità”, allora io sono favorevole alla austerità.
- Lo Stato inoltre può legittimamente perseguire la finalità di compensare con proprie azioni (spesa pubblica o variazioni della fiscalità o normative speciali) le inevitabili fluttuazioni dell’economia, facendo sì che transitorie depressioni economiche (minor produzione di ricchezza) non scarichino i loro effetti sulle classi più deboli. Tali azioni, peraltro, non possono che avere natura temporanea ed essere basate sulla legittima aspettativa che la ripresa della produzione di ricchezza, una volta che torni a manifestarsi, ne compensi (cioè ripaghi) i costi.
- Il debito pubblico (cioè dello Stato e quindi, indirettamente, dei cittadini che lo compongono) ed il suo andamento nel tempo – né più né meno di come accade a qualsiasi soggetto economico col proprio indebitamento – costituiscono una spia eloquente della coerenza delle azioni dello Stato con le regole appena enunciate: se continua ad aumentare, significa che lo Stato continua a spendere più di quanto incassa o ad investire in operazioni che non sono investimenti ma spese (vedi punto 5); e potrà farlo solo finché trovi credito sufficiente per finanziare il suo deficit finanziario (spese superiori alle entrate). Lo spread è la misura istantanea della credibilità dello stato presso i suoi finanziatori (che pretendono maggiori interessi dove maggiore è il rischio di insolvenza).
- Lo Stato può, anzi deve, perseguire finalità di ridistribuzione della ricchezza e dei redditi, proteggendo le classi più deboli a scapito di quelle più ricche; anche qui con un limite fisiologico: che l’azione ridistributiva non annulli i meccanismi di produzione della ricchezza, fra i quali c’è anche la spinta degli operatori economici (lavoratori e imprenditori) a migliorare la propria situazione economica e patrimoniale.
- La solidarietà economica fra le classi sociali è - oltre che un dovere prima di tutto morale - anche una leva di sviluppo economico: essa infatti tutela la capacità di spesa delle classi più deboli che, essendo spesso le più numerose, sono quelle che attivano la maggiore domanda (i “consumi” tanto deprecati dagli ideolopatici) che - a sua volta - stimola la maggiore offerta e, quindi, garantisce la crescita dei mercati. La legislazione dello Stato e, quindi, le regole della casa, la tutelano e la promuovono, nelle forme appropriate.
Mi
direte: perché te ne vieni fuori con questo noioso pistolotto? Per due ragioni:
perché – mentre lo scrivo – fuori piove e manca ancora tempo al Derby de la
Madunina; e perché prevedo che nelle prossime settimane sarà utile, prima di
tutto a me stesso, rileggere questo “decalogo” per valutare ciò che ci bolle in
pentola.
Roma
13 settembre 2015
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