Palinsesti
(di
Felice Celato)
C'è
un tema - come sanno i lettori di questo blog - che da sempre mi affascina: il
tema del confine. Ne abbiamo parlato tanto tempo fa, agli inizi di queste
nostre chiacchiere (Confini/Frontiere, il post del 19 aprile
2011, che ha riscosso - apparentemente - l'attenzione di tanti curiosi, viste
le 1200 "visite" registrate dalle povere note) riferendoci al confine
nella sua dimensione esistenziale (infinito e finito, vita e morte, realtà e finzione,
passato e presente, etc) ma partendo da un episodio - una breve bega
franco-italiana a Ventimiglia, una grottesca epifania felliniana l'avevamo
definita - che oggi sembra invece tornato d'attualità. Le vicende dei migranti
hanno riportato alla vita una sensibilità politico-nazionale del confine
fisico, inteso come barriera guardata da soldati e magari segnata da muri o
fili spinati. Eppure questa nozione del confine - che è poi quella storica, fin
dai tempi del solco di Romolo e Remo -
sembrava morta nella sensibilità del terzo millennio, almeno da noi, qua, in
occidente e fatte salve situazioni del tutto particolari. Addirittura ne
avevamo riso nella buffa parodia della nevrosi "fiscale" da confine
messa in scena da Benigni e Troisi in un film di trent'anni fa, Non ci resta
che piangere. E, invece, eccoci qua, di nuovo a parlarne ( e non solo a
parlarne, se sono vere le immagini di muri e fili spinati in Ungheria):
addirittura un illustre giurista è stato chiamato a scriverne in un
"fondo" del Corriere della sera di ieri ( Sabino Cassese: L'inatteso
ritorno dei confini), in qualche modo descrivendone persino l'obsolescenza
giuridica nel contesto culturale attuale.
Non
so se la corrente americana degli "open borders" (di cui
parla Marco Valerio LoPrete in un
articolo de Il Foglio del 31 agosto) abbia qualche probabilità di
successo, ma è certo - credo - che la rinascita dei confini fisici ne ha poche,
se il nostro mondo non ha definitivamente perso la bussola (come, peraltro, è sempre possibile). Il confine, qua, da
noi, è morto, almeno nella sua dimensione fisica e forse - come dice Cassese -
anche in quella giuridica, seguendo la sorte dei tanti confini esistenziali e
culturali che ci siamo abituati a liberamente varcare in senso bi-direzionale
col pensiero e con l'anima. E l'ha ucciso la vera dimensione globale del presente,
una dimensione sulla quale spesso leggiamo inutili sarcasmi deprecatorii ma che
in fondo tutti viviamo con larghezza ed incoscienza (cioè senza avere la benché
minima percezione della natura "globale"
dell’atto che stiamo consumando con mobilità, viaggi e lavori all'estero,
accesso alle reti, consumi materiali ed immateriali, omogeneizzazione di
costumi e di gusti, social media,
etc).
Ma
allora perché ritorna l'illusione del confine come riparo, come recinzione,
come separatezza?
Perché
- forse - in fondo, inconsapevoli figli dell'età del video, guardiamo al
confine come ad uno schermo che ci fa vedere lontano, ci fa magari partecipare
emotivamente ad eventi che si svolgono al di fuori del nostro recinto domestico
ma che riteniamo di poter dominare, semplicemente cambiando canale.
Provate
a pensare alle differenti sensazioni che deve scatenare la scena di uno sbarco
di profughi in chi vi assiste, magari a
Lampedusa ma per televisione o, invece, in chi, sempre a Lampedusa, vi assiste
sulla banchina del porto: l'evento è lo stesso, il luogo pure, la distanza
irrilevante, ma il primo può cambiare canale e passare ad un documentario sulle
valli incontaminate alpine; il secondo no, perché, anche se si allontana, seguita a sentire i
rumori del porto e a portarne il peso umano.
Ecco,
certe volte sono portato a pensare che per alcuni il confine sia una sorta di
telecomando, ci dà la sensazione di fare il palinsesto del mondo, ma in realtà
stiamo facendo solo quello della nostra breve serata.
Roma 2 settembre 2015
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