mercoledì 2 settembre 2015

Confini e telecomando

Palinsesti
(di Felice Celato)
C'è un tema - come sanno i lettori di questo blog - che da sempre mi affascina: il tema del confine. Ne abbiamo parlato tanto tempo fa, agli inizi di queste nostre chiacchiere (Confini/Frontiere, il post del 19 aprile 2011, che ha riscosso - apparentemente - l'attenzione di tanti curiosi, viste le 1200 "visite" registrate dalle povere note) riferendoci al confine nella sua dimensione esistenziale (infinito e finito, vita e morte, realtà e finzione, passato e presente, etc) ma partendo da un episodio - una breve bega franco-italiana a Ventimiglia, una grottesca epifania felliniana l'avevamo definita - che oggi sembra invece tornato d'attualità. Le vicende dei migranti hanno riportato alla vita una sensibilità politico-nazionale del confine fisico, inteso come barriera guardata da soldati e magari segnata da muri o fili spinati. Eppure questa nozione del confine - che è poi quella storica, fin dai tempi  del solco di Romolo e Remo - sembrava morta nella sensibilità del terzo millennio, almeno da noi, qua, in occidente e fatte salve situazioni del tutto particolari. Addirittura ne avevamo riso nella buffa parodia della nevrosi "fiscale" da confine messa in scena da Benigni e Troisi in un film di trent'anni fa, Non ci resta che piangere. E, invece, eccoci qua, di nuovo a parlarne ( e non solo a parlarne, se sono vere le immagini di muri e fili spinati in Ungheria): addirittura un illustre giurista è stato chiamato a scriverne in un "fondo" del Corriere della sera di ieri ( Sabino Cassese: L'inatteso ritorno dei confini), in qualche modo descrivendone persino l'obsolescenza giuridica nel contesto culturale attuale.
Non so se la corrente americana degli "open borders" (di cui parla  Marco Valerio LoPrete in un articolo de Il Foglio del 31 agosto) abbia qualche probabilità di successo, ma è certo - credo - che la rinascita dei confini fisici ne ha poche, se il nostro mondo non ha definitivamente perso la bussola (come, peraltro, è sempre possibile). Il confine, qua, da noi, è morto, almeno nella sua dimensione fisica e forse - come dice Cassese - anche in quella giuridica, seguendo la sorte dei tanti confini esistenziali e culturali che ci siamo abituati a liberamente varcare in senso bi-direzionale col pensiero e con l'anima. E l'ha ucciso la vera dimensione globale del presente, una dimensione sulla quale spesso leggiamo inutili sarcasmi deprecatorii ma che in fondo tutti viviamo con larghezza ed incoscienza (cioè senza avere la benché minima percezione  della natura "globale" dell’atto che stiamo consumando con mobilità, viaggi e lavori all'estero, accesso alle reti, consumi materiali ed immateriali, omogeneizzazione di costumi e di gusti, social media,  etc).  
Ma allora perché ritorna l'illusione del confine come riparo, come recinzione, come separatezza?
Perché - forse - in fondo, inconsapevoli figli dell'età del video, guardiamo al confine come ad uno schermo che ci fa vedere lontano, ci fa magari partecipare emotivamente ad eventi che si svolgono al di fuori del nostro recinto domestico ma che riteniamo di poter dominare, semplicemente cambiando canale.
Provate a pensare alle differenti sensazioni che deve scatenare la scena di uno sbarco di  profughi in chi vi assiste, magari a Lampedusa ma per televisione o, invece, in chi, sempre a Lampedusa, vi assiste sulla banchina del porto: l'evento è lo stesso, il luogo pure, la distanza irrilevante, ma il primo può cambiare canale e passare ad un documentario sulle valli incontaminate alpine; il secondo no, perché, anche se si allontana, seguita a sentire i rumori del porto e a portarne il peso umano.
Ecco, certe volte sono portato a pensare che per alcuni il confine sia una sorta di telecomando, ci dà la sensazione di fare il palinsesto del mondo, ma in realtà stiamo facendo solo quello della nostra breve serata.

Roma 2 settembre 2015

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