domenica 24 marzo 2024

Settimana santa

In compagnia dei teologi

(di Felice Celato)

In questa giornate di fresca primavera, come ogni anno da qualche tempo, mi fa compagnia un piccolo volumetto (appena un’ottantina di pagine) già altre volte qui segnalato e che torno a raccomandare come fosse un vademecum per le meditazioni che noi cattolici ci affidiamo in questo tempo liturgico. Si tratta di una breve raccolta di pensieri di due grandi teologi del nostro secolo (Karl Rahner e Joseph Ratzinger) raccolti dall’editore Queriniana sotto il semplice titolo Settimana santa (2012). E come altre volte, mi piace, anche quest’anno, trarne una lunga citazione di Joseph Ratzinger che mi pare adatta ai tempi selvaggi che viviamo.

Tu pendi dalla croce. Ti ci hanno inchiodato. Non puoi più staccarti da questo palo ritto fra terra e cielo. Le ferite bruciano nel tuo corpo. La corona di spine tormenta il tuo capo. I tuoi occhi sono iniettati di sangue. Le tue mani e i tuoi piedi feriti son come trapassati da un ferro rovente. E la tua anima è un mare di dolore, di desolazione, di disperazione.

I responsabili di tutto questo son qui, ai piedi della tua croce. Neppure si allontanano, per lasciarti almeno morire solo. Anzi, rimangono, ridono, convinti di avere ragione. Lo stato in cui ti trovi ne è la dimostrazione più evidente: la prova che quanto hanno fatto non è che l'adempimento della più santa giustizia, un omaggio dato a Dio, di cui dovrebbero andare orgogliosi. 

Per questo ridono, insultano, bestemmiano. Intanto su di te si abbatte, più spaventosa di tutti i dolori del corpo, la disperazione verso una tale malvagità. Ci sono davvero degli uomini capaci di tale bassezza? C'è ancora tra te e loro un pur minimo punto in comune? Può un uomo torturarne un altro, così, fino alla morte? Straziarlo fino ad ucciderlo, col potere che deriva dalla menzogna, dall'abiezione, dal tradimento, dall'ipocrisia, dalla perfidia, e mantenere ancora le apparenze del diritto, l'aspetto dell'innocente, la posa del giudice imparziale? E Dio permette questo nella sua creazione? E la risata e lo scherno dei nemici possono risuonare, chiari e trionfanti, nel mondo di Dio? O Signore, il nostro cuore si sarebbe già spezzato in una forsennata disperazione. Noi avremmo maledetto i nostri nemici e Dio con loro. Noi avremmo urlato e cercato di strappare, come pazzi, i chiodi per riuscire a stringere ancora una volta il pugno.

Tu invece dici: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Sei incomprensibile, Gesù. C'è ancora, nella tua anima martoriata, terremotata dal dolore, una zolla sulla quale possa fiorire questa parola? Sei proprio incomprensibile. Tu ami i tuoi nemici e li raccomandi al Padre tuo. Tu preghi per loro. Signore! se non fosse bestemmia direi che tu li discolpi con la più inverosimile delle scuse: “Non lo sanno”. Si, invece, che lo sanno: sanno tutto! Ma hanno voluto ignorare tutto. Non c'è cosa che si conosca meglio di quella che si vuole ignorare, nascondendola nel sotterraneo del più segreto cuore. Ma nel tempo stesso la si odia, e perciò le si rifiuta l'accesso alla chiara coscienza. E tu dici che essi non conoscono quello che fanno. Una cosa soltanto certamente non conoscono: il tuo amore per loro, perché quello lo può conoscere solo chi ti ama. Solo l'amore, infatti, permette di comprendere il dono d'amore…. 

Roma 24 marzo 2024, Domenica delle Palme.

 

martedì 12 marzo 2024

Voci dall'Italia

“Ambrosia, e impiccarli”

(di Felice Celato)

Sono (quasi) certo che tutti i lettori di queste colonnine avranno riconosciuto nel titolo di questo post un divertente passo dal capitolo V de’ I promessi sposi del nostro grande Don Lisander (Alessandro Manzoni, ovviamente). Il buon fra’ Cristoforo, nell’intento di difendere i suoi figlioli (Renzo e Lucia), si mette in cammino per affrontare Don Rodrigo, certo solo del provvido sguardo di Dio [Egli v’assisterà: Egli vede tutto: Egli può servirsi anche d’ un uomo da nulla come sono io per confondere un…. Vediamo, pensiamo a quel che si possa fare…. Se Dio gli tocca il cuore e dà forza alle mie parole, bene: se no, Egli ci farà trovare qualche altro rimedio.]

Giunto al palazzotto di Don Rodrigo, vi trova – riuniti a rumoroso banchetto –, oltre al padrone di casa, un certo conte Attiliosuo collega di libertinaggioil signor podestà (quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino) e il dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito, e – infine – due convitati oscuri… che non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale e a cui un altro non contraddicesse.

Inevitabilmente, dato il prestigio di cui godeva Fra Cristoforo anche presso tali personaggi (prestigio morale, si sarebbe detto se il profilo umano dei commensali lo avesse consentito), il buon cappuccino viene invitato al tavolo dei commensali, gli viene offerto del vino; e, inevitabilmente, assiste alla conversazione fra gli allegri commensali che si sfidano su controversie cavalleresche e discussioni politiche [era in corso la guerra di successione per il ducato di Mantova… e so di buon luogo che il Papa, interessatissimo, com'è, per la pace, ha fatto proposizioni… dice il conte Attilio. Così deve essere; la cosa è in regola; sua Santità fa il suo dovere; un Papa deve sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua politica, e... dice il podestà], senza dimenticare pomposi brindisi ed elogi del vino [un liquore simile non si trova in tutti i ventidue regni del nostro signore, che Dio guardi] e feroci commenti sulla carestia [non c'è carestia - diceva uno - sono gli incettatori. E i fornai - diceva un altro - che nascondono il grano. Impiccarli! Appunto; impiccarli, senza misericordia. De’ buoni processi – gridava il podestà. Che processi? – gridava più forte il conte Attilio – giustizia sommaria. Pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli. Esempi! esempi!  senza esempi non si fa nulla.]

Commenta il buon Don Lisander (che mi perdonerà per lo scempio della sintesi): Chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s’immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S’andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com’era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s’udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli.

Finito il ripasso di antiche (ma perenni) letture, vengo al presente; l’ho riletto, questo capitolo V de’ I promessi sposi (come consiglio a tutti di fare), perché la conversazione al banchetto di Don Rodrigo mi è tornata in mente, in questi giorni, leggendo le voci dall’Italia: lo stesso mix di fatuità e sommarietà, la banalità dei “giornalisti”-tifosi di questa o di quell’altra fazione, le contese più o meno cavalleresche, le geo-politiche regionalistiche, etc. 

Sullo sfondo, però, c’è ben altro che la guerra di successione al Ducato di Mantova, purtroppo. E di ambrosia, nemmeno la traccia. Di contemporanei podestà, di conti Attilio dalla facile impiccagione di incettatori, di Azzecca-garbugli in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito e di convitati oscuri che non fanno altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare (magari in favore di telecamera) ogni cosa che dicesse un commensale e a cui un altro non contraddicesse, invece, c’è grande abbondanza.

Roma  12  marzo 2024.

  

sabato 17 febbraio 2024

Letture peri-evangeliche

Segnalazioni per lettori tenaci

(di Felice Celato)

Per tenermi lontano, anche nelle ore dedicate alla letteratura (di solito quelle notturne), dalle cronache deprimenti e dai loro cascami, mi sono avventurato in alcune letture molto impegnative, che riverso qui, sotto forma di mere segnalazioni, per coloro che ne abbiano la voglia e la pazienza. Si tratta di due libri che hanno in comune due cose: la qualità dell’autore (parliamo di due grandi della nostra letteratura contemporanea, Giuseppe Berto e Mario Pomilio, scomparsi rispettivamente nel 1978 e nel 1990) e il tema della narrazione (in estrema sintesi, una rivisitazione delle narrazioni evangeliche, secondo le ottiche di cui dirò subito, partitamente). 

Cominciamo con La gloria di Giuseppe Berto (Neri Pozza, ebook 2017). Si tratta del processo a Gesù raccontato da Giuda, dal suo discepolo-traditore, carico di complessi per essersi percepito come un discepolo non amato e purtuttavia necessario, convinto di essere stato una tragica pedina del disegno Redentore, e, quindi, addirittura co-essenziale al disegno stesso. Le narrazioni evangeliche che fanno da tessuto a quella del romanzo, non rendono conto appieno - Giuda ne è convinto - del significato di queste due morti (quella di Gesù e quella di Giuda) contemporanee e – sostiene Giuda – connesse: Io sono la tenebra, Gesù. Ma a Te, che sei la luce, dagli abissi della mia oscurità continuo a chiedere: nella storia della tua morte, che sarebbe dovuta essere gloria e vittoria sulla morte, io, Giuda, da Te segnato come figlio di perdizione, sono stato semplicemente strumento affinché si adempisse una Scrittura, cioè fosse fatta la misteriosa volontà dell'Eterno? O piuttosto: c'era qualcosa che ci accomunava, qualcosa che, visto come sono andate le cose, non si è adempiuto se non nella conclusione minore che siamo morti tutti e due quasi insieme?

E’, ovviamente, inutile immaginare una discussione teologica del libro, che non è un testo di teologia ma solo una suggestiva rappresentazione drammatica della Passione, raccontata da un attore secondario del dramma che, da dietro le quinte, fatta la sua breve apparizione sulla scena, segue le mosse del Protagonista, invidiandone il ruolo e percependone la grandezza. 

Come dicevo, la materia della narrazione di Berto è, in qualche modo, la stessa di quello di Mario Pomilio (Il quinto evangelio, Bompiani, ebook 2022), un romanzo molto strutturato, molto profondo e scritto con prosa raffinata. Qui l’impianto narrativo si incrocia – anzi forse ne è soverchiato – con uno di tipo saggistico/filologico, sicuramente di grande interesse ma francamente vagamente eccessivo nell’estensione. Il tema sottostante è quello della compiutezza della Rivelazione: in altri termini,  può esistere (o essere esistito in mezzo ai tanti apocrifi della storia) un altro Vangelo autentico, oltre ai quattro canonici? Il Vangelo è un libro compiuto o un libro che la cristianità può, per così dire, continuare a scrivere a mano a mano che si sforza di re-inverare il messaggio della Rivelazione? Un quinto evangelio può essere una metafora dei quattro Vangeli canonici perpetuamente rinnovati dal loro impatto con la storia

La parte finale del libro (che segue la lunga ricostruzione, in gran parte di dichiarata ideazione dell’autore, delle tracce secolari di questo quinto, supposto Evangelio), è un testo teatrale che, in un certo senso, ricapitola le due chiavi narrative del libro, stavolta in modo drammaturgico: attorno al 1940, nella Germania nazista, un gruppo di cittadini di mista estrazione, mette in scena il processo e la passione di Gesù, comparando, nella testimonianza dei vari personaggi del dramma (Giuda e Pilato compresi), i testi dei quattro evangelisti (anch’essi sulla scena) alla presenza del mitico quinto; con la finale irruzione drammatica del presente storico contingente (Germania, 1940).

Come sicuramente si sarà capito, anche dalla fatica di far percepire in poche righe la grande complessità del libro di Pomilio, anche qui ci troviamo difronte ad un testo molto impegnativo; nel rileggerlo a distanza di tanti anni (quasi 50!) dalla prima lettura, mi ha anzi rivelato complessità di cui non tenevo memoria. Ma anch’esso, come quello di Berto, mi sento di raccomandare ai lettori più impegnati e tenaci.

Roma, 17 febbraio 2024

 

 

 

mercoledì 14 febbraio 2024

Metànoia

Un laico esercizio

(di Felice Celato)

Nei tredici anni (dalla primavera del 2011 fino ad oggi) in cui ho condiviso qui, fra amici, alcune sparse e personalissime riflessioni, non credo di aver mai vissuto scenari così complicati e rischiosi come quelli in cui siamo immersi. Scenari bellici, macroeconomici, geopolitici ed Eu-politici che non ho bisogno di descrivere, perché, intrecciati fra loro, sono davanti agli occhi di tutti, solo che – come sembra accadere nel nostro povero paese – non si abbia la ragione definitivamente appannata dai rumori della annuale ostensione di “cultura nazional-popolare” messa in scena a San Remo, mentre scorreva - temo solo sul calendario! - il nostro triste carnevale. 

E, come da calendario, ecco sopraggiungere la quaresima; un tempo di metànoia… cioè di cambiamento interiore… di deserto e di incontro speciale col Padre, come diceva Benedetto XVI; un tempo ideale – proseguiva – per trasformarsi in tempo di grazia, poiché abbiamo la certezza che anche dalla roccia più dura Dio può far scaturire l'acqua viva che disseta e ristora.

Certo, si dirà non senza ragione, questo è un senso della quaresima tipicamente cristiano, non necessariamente percepibile da chi cristiano non si sente. Eppure mi pare che di metànoia – che, non a caso, “contiene” la parola greca che significa pensare –  il mondo intero abbia proprio bisogno; anzi, meglio e di più: mi pare che ogni persona dotata di ragione abbia, appunto, una buona ragione di desiderare, proprio oggi, per sé e per i suoi simili un momento di sosta e di silenzio, per verificare se i sentimenti e i pensieri che abbiamo incamerato e che ci portiamo dietro nel giudicare di ciò che vediamo, non siano solo il frutto marcio delle parole che abbiamo usato o sentito dire. [Ci sarà fra i miei lettori qualcuno che ricorda la spaventevole sequenza qui più volte citata e tratta da un libro di Riccardo Calimani: Le parole generano opinioni e le opinioni danno forma ai sentimenti. I sentimenti diventano fatti; e dico spaventevole avendo in mente il dissennato uso delle parole che il nostro mondo iper-connesso ci vede praticare ogni giorno].

Dunque, anche di una metànoia laica abbiamo bisogno, dopo il carnevale del nostro tempo che, forse, immagina non più replicabili le autentiche esplosioni del male che il ventesimo secolo ha vissuto. 

Ma ogni vera metànoia (dal Vocabolario on line della Treccani: profondo mutamento nel modo di pensare, di sentire, di giudicare le cose), sia laica che fidelis, non può che essere un interiore processo individuale; auspicarne una dimensione collettiva può essere un puro desiderio utopico. Però cominciare da noi stessi è senz’altro un esercizio benefico, perché, come diceva (mi pare) San Bonaventura, bonum diffusivum sui, ciò che è buono tende naturalmente ad essere diffusivo di sé, come fosse un benefico contagio. Noi, cattolici convinti, nella nostra metànoia spirituale andiamo cercando un tempo di grazia. Ma, per restare alla prospettiva laica che qui vogliamo adottare (anche se non coincide integralmente con la nostra), è ragionevole pensare che qualche fermo esercizio di laica metànoia possa essere anch’esso diffusivum sui, magari cominciando – chessò – dal sistematico rifiuto delle opinioni correnti e del modo in cui sono argomentate (quando lo sono) ed enunciate. Questo non basterà, siatene certi, a cambiare le sorti balorde che il nostro tempo sembra voler tessere per sé; ma aiuterà almeno noi stessi a conservare un laico rispetto di noi stessi; che, se fosse anch’esso diffusivum sui, potrebbe risultare un utile antidoto alle follie collettive.

Roma, 14 febbraio 2024

 

 

mercoledì 24 gennaio 2024

Un libro da leggere

La terra del futuro 

(di Felice Celato) 

Dopo le retro-divagazioni letterarie di qualche giorno fa, ecco una ulteriore breve segnalazione di un libro; da leggere, però, stavolta, con attenzione e con le gambe sotto ad un tavolo: La terra del futuro – Concupita, incompresa, sorprendente, di Federico Rampini (Mondadori, 2023). 

Si tratta, lo dico subito, di un libro pesante (in senso buono), scritto con esemplare chiarezza, denso (circa 330 pagine piene di fatti e di opinioni pensate) e intenzionato a stupire con la sua collezione di luoghi comuni diffusi e radicati; un libro, starei per dire, di debunking (*) ragionato e sistematico di tutto quanto crediamo di sapere sull’Africa, un continente più grande di Stati Uniti, Cina e India messi insieme, con la popolazione più giovane del pianeta, con una diaspora caratterizzata da alti livelli di apprendimento e di successo accademico (soprattutto negli USA, a dispetto di  convenzionali pregiudizi), con élites di qualità, quand’anche talora invischiate in retroterra del potere non esenti da pratiche corruttive che gravano alcuni paesi africani di una cappa di piombo difficile da estirpare e ne appesantiscono le prospettive (a breve). 

Il libro, tuttavia e saggiamente, non propone una tesi ben definita sul futuro dell'Africa… perché questo futuro lo costruiranno gli africani, che non mancano di inventiva, creatività, capacità di adattamento e hanno riserve di speranza rispetto al cupo pessimismo di tanti europei, prigionieri spesso di rituali sensi di colpa per alcuni passati colonialisti certamente non commendevoli, o di interessati pregiudizi che tendono a dipingere il continente africano come una bomba demografica caricata per esplodere a “nostro” danno; magari trascurando – perché scomoda da gestire – la vasta problematica di sicurezza che, in Africa, tende ad accumulare interessate e certamente non gratuite attenzioni geo-politiche (leggasi Russia, soprattutto); e una problematica che – naturalmente – si intreccia con la domanda di investimenti esteri difficile da soddisfare in competizione col robusto modello cinese di presenza in Africa.

La radiografia che Rampini svolge su molte delle realtà socio-politiche dell’Africa è troppo vasta per tentarne, in poche righe, una ulteriore sintesi (anche perché le situazioni considerate sono caratterizzate da non trascurabili specificità); mi limito soltanto, per finire questa raccomandazione di attenta lettura, a sottolineare la Postilla italiana con la quale si conclude il volume: poche pagine ma – mi pare – acutamente focalizzate sulle nostre superficiali percezioni dell’attuale situazione dell’Africa e sui convenzionali stilemi politico-comunicativi che, come spesso ci accade, ci impediscono di guardare con realismo alle stesse nostre specifiche potenzialità, facendoci talora prigionieri dei nostri stessi slogan (per esempio, il cosiddetto Piano Mattei) ad uso prevalentemente interno. Non bastano - scrive Rampini - le “mancate colpe” rispetto ai nostri vicini europei (l’Italia in fondo è stata un paese irrilevante nel colonialismo dei secoli scorsi) per costruire una strategia incisiva in questa parte del mondo. Tra le contraddizioni che ci indeboliscono, oltre all'ossessione sull'Apocalisse africana (economica, climatica, migratoria), …un ambientalismo radicale nei toni e ipocrita nella sostanza  che ci impedisce di vedere quali scelte vanno fatte anche a beneficio dell'Africa; …un estremismo umanitario …che include la pretesa di condurre una politica estera basata sull’assoluta intransigenza etica, di sottoporre la geopolitica al test della purezza (…senza i nostri imprenditori non possiamo pensare che il contributo italiano al futuro dell’Africa sia affidato solo ai missionari e alle ong: malgrado i loro meriti, abbiamo ampie prove che non bastano). Infine, un sedicente pacifismo che ci rende impotenti e poco credibili in una parte del mondo che chiede sicurezza. 

Roma 24 gennaio 2024

 

(*) Dal dizionario dei neologismi della Treccani: debunking: opera di demistificazione e confutazione di notizie o affermazioni false o antiscientifiche, spesso frutto di credenze, ipotesi, convenzioni, teorie, ricevute e trasmesse in modo acritico.

giovedì 18 gennaio 2024

Riletture

 Repetita taediant?

(di Felice Celato)

Mi pare di aver detto più volte che l’esercizio di rileggere a distanza di tempo libri già letti ha per me un significato triplice: il primo e più ovvio è quello di rivivere suggestioni letterarie e culturali già sperimentate (ovviamente se il libro che si rilegge ha, nella mia memoria, le qualità per meritare una rilettura; per esempio, qualche tempo fa ho riletto I Promessi sposi); il secondo è quello di misurare gli effetti del tempo (e dell’età) sui miei stessi giudizi; poi, talora, ce n’è un terzo (riservato però a soli pochi libri) che sta tutto nella funzione “psico-terapeutica” che assumono per me alcune letture; così, per fare un esempio altre volte qui confessato, rileggere Requiem di Antonio Tabucchi (l’ho rifatto forse per la ventesima volta in queste notti) mi comunica un senso di dolcissima evasione in un “luogo” della mente dove la realtà scompone il vissuto e i ricordi in atmosfere oniriche e metafisiche (cfr. post del 28 3 2012). E l’evasione per almeno una notte dura!

In questo tempo in cui l’osservazione del mondo  non suscita certo entusiasmi ma, per quel che mi riguarda, nemmeno modeste indulgenze, ho ripreso in mano un libro di quasi settant’anni fa (di Mario Pomilio: Il testimone, Mondadori), scritto da un autore del quale ho programmato una integrale rilettura. Potrebbe apparire un singolare thriller (sia pure di grande eleganza culturale), dove l’assassino propriamente non è un uomo ma una crudele concatenazioni di fatalità che il semplice adempimento di un dovere non riesce a dominare. La banalità del male si direbbe ripensando ad Hannah Arendt; e, infatti, il protagonista del libro di Pomilio, di fronte ai dolori che il puro adempimento del dovere scatena, si lascia consolare così: in fondo, nell'ambito del proprio dovere, quando uno si è applicato sul serio a compierlo, ciascuno finisce per avere il suo grande alibi…; ma gli restano in mente le inquietudini che qualcuno gli ha gettato addosso, quasi casualmente: se almeno in quel grande deserto che sta diventando il nostro spirito, potessimo recuperare la coscienza di non essere soli; se almeno tutte le volte che stiamo facendo qualcosa ci sforzassimo di immaginarci di avere un testimone delle nostre azioni….

Torno brevemente al tema che la ri-lettura mi ha evocato: la banalità del male, dicevo; ma in una configurazione più adatta a quella che mi pare la nostra dimensione del presente (certamente meno drammatico di quello che considerava la Arendt nel raccontare il processo ad Eichmann): il male della banalità, cioè il male che ci facciamo con la nostra (forse inconsapevole) acquiescenza alla qualità del nostro pubblico vociare. Ne parlavo qui quasi nove anni fa – cfr. post del 18 maggio 2015, al quale rinvio; rileggendomi, mi trovo, ancor oggi e forse ancor di più, in quello che scrivevo.

Se penso che in questo contesto sociologico e “culturale” ci avviamo verso una consultazione elettorale di grande rilievo per il nostro futuro, mi vengono i brividi. 

Infine un’altra rilettura, presa anche questa da un autore qui più volte segnalato e da me molto amato: di Eric Emmanuel Schmitt Il figlio di Noè       (e/o editore, 2018). Anche di questa emozionante e gradevolissima lettura, però, mi sono accorto di aver già parlato ai miei pazienti lettori (cfr. Una favola per adulti del 30 novembre 2019). 

Dunque i casi sono due: o morbus ipsa senectus, e – si sa – nella vecchiaia ci si ripete; o – ed è la tesi alla quale disperatamente mi aggrappo – sono le circostanze del presente che mi inducono a volgermi indietro, sia nelle letture che nelle riflessioni che le accompagnano. Il guaio è che queste ultime, col passare degli anni, tendono a farsi più cupe, non foss’altro che per la constatazione che il decorso del tempo non ha migliorato le mie percezioni. Che debba rassegnarmi al morbus ipsa senectus?

Roma 18 gennaio 2024

venerdì 5 gennaio 2024

Frivolezze di un anziano

 L’ambiguo conteggio del tempo

(di Felice Celato)

I numeri non dicono tutto, lo so; e anche chi, come me, ha passato una vita ad occuparsi di essi e del loro significato, non può non riconoscerlo. Quando poi – come dicevo giusto quattro anni fa – i numeri vengono usati per misurare il tempo, ci si rende conto che essi non esprimono le qualità che fanno di ogni singola unità una sorta di piccola monade esistenziale, pur nella continuità del fluire degli anni: che vita facevo quando avevo, per esempio, 25 o 50 anni? E quanto è differente l’intensione (*) di quegli anni, cioè il loro contenuto esistenziale, anche a prescindere dalla loro estensione? In fondo, da questo ultimo punto di vista (quello dell’estensione), il 25° anno di età dura quanto quella del 50° o 75°; ma dal punto di vista dell’intensione le cose sono molto diverse. E ce se ne rende conto… appunto col passare del tempo, stavolta nella complessiva dimensione dell’estensione. 

Per esempio, quando avevo 25 anni non avrei mai pensato che, cinquanta anni dopo, oggi, appunto, sarei stato lungamente impegnato nell’ozioso esercizio della tardiva addizione di ampiezza alla seconda leva (quella del polso) durante la torsione del back-swing (cioè nel tipico caricamento di energia golfistica). 

Segno buono, diranno, con ottime ragioni alcuni miei lettori: se hai dimenticato le angosce sul presente con cui ci delizi in quasi tutti i tuoi post e se non hai altri problemi, va bene anche caricare la seconda leva

Siano ben chiare due cose: (1) per una volta, lasciatemi prescindere dal contesto angoscioso e rotolarmi nella frivolezza; ma, siatene certi, non mancherò di tornare a deliziarvi! (2) Non è che non mi renda conto dell’immenso dono che ho ricevuto dalla vita – e ne ringrazio ogni giorno Iddio – per potermi dedicare a questa oziosa incombenza della seconda leva senza l’ingombro di ben più gravi ansie con cui pure ho lungamente convissuto. Però, come diceva un mio Presidente di una vita fa parlandomi delle sue fatiche di cacciatore di alto bordo, molti non sanno quanto sacrificio costi stare tutta la notte col dito intirizzito sul grilletto aspettando che passi il camoscio! E anche il tardivo sviluppo della seconda leva non è che non costi sacrifici, da molti - ne sono certo -  sottovalutati o addirittura ignorati!

Come che sia, guardando avanti, solo per oggi con animo frivolo ed in forma totalmente de-contestualizzata, per quest’ultimo quarto della mia vita oggi mi propongo di acquisire il miglior polso che un golfista centenario possa mostrare agli increduli amici delle mattinate faticosamente oziose. Ma ancora di più – e ben più seriamente – mi auguro di continuare a vivere in salute, nel conforto di una meravigliosa famiglia che cresce, sotto l’occhio del Padre che ho sentito per tutta la vita rivolto ad essa e a me, anche durante le tempeste. E mi auguro anche di potere seguitare a sorridere, talvolta, del tempo e sul tempo che scorre inesorabile, coi miei amici che il tempo stesso ha benevolmente selezionato fra i più pazienti che un provocatore come me potesse desiderare.

Roma, 5 gennaio 2024

 

(*) NB: intensione, come si sarà capito,  non è un errore di ortografia: un conto è l’intenzione, cioè l’orientamento verso il compimento di un’azione; e un conto è l’intensione, come sinonimo (forse arcaico) di intrinseca intensità, come meglio illustra la solita Treccani.