lunedì 31 agosto 2020

La semestrale nera

 Il nostro going concern

(di Felice Celato)

Con l’arrivo dell’autunno, giunge a scadenza questo tragico semestre che abbiamo vissuto, dalla fine di febbraio o dai primi di marzo di quest’anno, fra pandemia, quotidiane statistiche dei contagiati e dei morti, blocco di scuole ed attività produttive, povertà di pensieri, assenza di progetti, polemiche violente, incertezze sul futuro, confusione di linguaggi, traffico disordinato di elicotteri carichi di soldi (degli altri) da versare a pioggia.

Se il nostro Paese fosse un’azienda, tenuta a redigere una semestrale, sarebbe difficile evitare di dar conto delle profonde inquietudini sul going concern (cioè sul presupposto della continuità aziendale) che pervadono le menti di chi è ancora disposto ad usare la ragione.

Eppure: dall’inizio di questo semestre nero, la posizione relativa dell’Italia verso i principali paesi europei non è peggiorata, dal punto di vista pandemico: per numero dei casi, paesi come Spagna, UK, Francia e Germania non sono più messi molto meglio di noi, come all’inizio del periodo (anzi alcuni, come Spagna ed UK stanno molto peggio; e se si considerano le densità dei contagi e i tassi di letalità e di mortalità, la pandemia non appare particolarmente severa da noi rispetto ai diversi altri Paesi nostri fratelli della famiglia Europea). Eppure: il tanto temuto “abbandono” dell’Italia al suo destino intra-Europeo non si è verificato, anzi il nostro Paese ha ricevuto disponibilità di soccorsi (under healty conditions, per fortuna) per grandezze che era difficile immaginare. Eppure: la temuta ripresa del morbo – che pure c’è – non sembra (sottolineo: non sembra) configurare un ritorno alla casella di partenza. Eppure: la lettura dell’esperienza pandemica come opportunità di trasformazione sembra in qualche modo percolata nella percezione di molti, ancorché fatuamente brandita dai nostri ciarlieri politicanti (quasi come per farcene gioire, della pandemia che, finalmente, ci costringerebbe a fare ciò che loro non hanno saputo).

Allora, da che cosa nasce l’inquietudine che immagino debba pervadere l’animo dell’ipotetico redattore della nostra semestrale nera? Certo, dal male in sé e dalla sua natura: questa pandemia mostra tuttora tragiche evoluzioni ed implicazioni che non possono in alcun modo essere sottovalutate nei loro gravami umani ed economici, quand’anche fossero condivisi con altri, più o meno colpiti di noi. 

Ma io credo che qualcosa di più profondo angusti le menti che presumano (con o senza fondamento) di voler essere lucide osservatrici della realtà; qualcosa che ha a che fare con il going concern del nostro tessuto sociale, con la sua debolissima collettiva intenzionalità di futuro; con le confuse istanze di sostanziale continuità, non contraddette anzi rafforzate dalla coscienza di necessarie e non secondarie discontinuità, peraltro di difficile gestazione (produttività, crescita, debito pubblico, educazione, etc.).

Per quanto mi riguarda, per quanto cioè mi pare di poter pensare, la mia preoccupazione più grande sta tutta nelle quantità di veleni che sono stato versati nei pozzi, dai quali ogni collettività attinge l’acqua  della sua convivenza. Non da oggi e non solo durante la crisi pandemica, ma da tempi meno recenti e per affanni in fondo meno drammatici dei presenti, l’onda lunga della nostra mucillagine ha preso connotazioni rancoroseemozionaliasistemiche, talora tribali o dissociative, in buona parte fondate sul reciproco disprezzo, su relazioni “implose”, su una specie di contrapposizione antropologica che fa regredire la nostra identità collettiva. [Delle parole non mie che ho usato ogni lettore di queste note avrà riconosciuto la paternità]. Se questo è il contesto, se l’acqua che attingiamo ogni giorno dai pozzi della nostra convivenza è avvelenata da questi miasmi, faccio fatica ad immaginare il concorso di volontà verso almeno una serie di obbiettivi condivisi; e non credo che basti il vocale consenso dai più riservato, da ultimo, ai moniti di Mario Draghi; per questo autunno dell’anno e del nostro tempo, abbiamo però bisogno di altro che di consensi vocali! 

Non sono un esperto di ecologia e men che meno di igiene idrologica; ma dai racconti di Tucidide ho appreso che persino l'Atene di Pericle forse fu travolta da pozzi avvelenati (dagli Spartani, argomenta lo storico della Guerra del Peloponneso).

Roma 1° settembre 2020

P.S.: sento già (anzi mi pare di vederli!) alcuni amici desolati e deploranti: Eh! Ma che persona negativa sei diventato! 

Attenzione però: in tempi di Covid, meglio evitare le persone positive!

Diceva poi un mio indimenticabile capo: quando due persone corrono al buio, affiancate, se incontrano un muro si fa meno male chi se l’aspettava!

 

 

 

domenica 23 agosto 2020

Paradossi agostani / 2

I bersaglieri del referendum

(di Felice Celato)

I paradossi d’agosto, si sa, ispirati dal caldo canicolare e – talora – dal canto delle cicale (quelle vere, intendo!), non meriterebbero che fosse loro attribuita troppa importanza: intanto perché trattasi appunto di paradossi (dal Dizionario Treccani: affermazione, proposizione, tesi, opinione che, per il suo contenuto o per la forma in cui è espressa, appare contraria all’opinione comune o alla verosimiglianza e riesce perciò sorprendente o incredibile ); e poi perché, come dicevo, ispirati dal caldo e dalle cicale.

Eppure il post di qualche giorno fa (1° agosto) ha suscitato fra gli amici lettori diverse (ed in parte inattese) reazioni: alcune evidentemente dettate dalla scarsa confidenza coi testi Vetero-Testamentari (e così ho provveduto privatamente a far pervenire ai curiosi il bellissimo passo dall’A.T. - Gn. 18, 20-33 -  dal quale avevo tratto la citazione Abramitica; nell’occasione ho anche promesso di regalare una Bibbia a chi ne fosse sprovvisto); altre, invece, dettate dalla (benedetta!) voglia di amici/lettori di disputare sul senso del paradosso (e anche qui ho provveduto a mantenere vivo il discorso con mail e telefonate, spero non sgradite).

Ma, per la verità, non era mia intenzione di ritornarci sopra in questa sede, almeno fino a referendum celebrato; senonchè…

Senonché, sul Corriere della Sera di oggi mi è capitata sott’occhio una intervista della giornalista Paola Di Caro ad un esponente del PD (di non secondario livello e di non trascurabile profilo intellettuale), l’ex Ministro Maurizio Martina, nella quale l’ex Ministro ed ex Segretario del partito, per cercare – con generosità e coraggio – una logica all’oscillante e poliedrico parere del suo partito sulla legge oggetto del referendum, usava un’espressione che vale la pena di riportare per intero: "È vero che sarebbe stata preferibile una riforma più ampia e strategica, ma tra non cambiare nulla ancora una volta e aprire una breccia che porti a un Parlamento riformato io scelgo la seconda via" (cioè quella della breccia).

Forse (anzi, senza forse: ne sono sicuro) l’ex Ministro non si è reso conto del fatto che, per la consultazione del 20 settembre, sarebbe stato meglio proprio non usare la parola breccia, che evoca ben altra breccia di storica memoria, quella sempre del 20 settembre ma del 1870, quando, appunto, i bersaglieri del generale Cadorna entrarono nella Roma Papalina aprendosi un varco sulle mura di Porta Pia. 

E ancora una volta il paradosso agostano è riapparso alla mia mente: alla breccia di Porta Pia si fa risalire la nascita della Questione Romana, cioè la controversia sul ruolo della città di Roma fra lo Stato risorgimentale e la Chiesa Cattolica, alla cui soluzione si applicarono con diversa lena Presidenti del Consiglio del calibro di Depretis, Crispi e Giolitti e Papi quali Pio IX, Leone XIII, Pio X e Benedetto XV; finché un uomo della Provvidenza (il cav. Benito Mussolini) non vi pose fine, nel 1929, quasi 60 anni dopo l’apertura della breccia, firmando – con Pio XI – i famosi Patti Lateranensi, entrati poi (siamo nel 1947, cioè 77 anni dopo la breccia) a far parte, sia pure per relationem, della nostra Costituzione (art 7).

Speriamo che i vigorosi bersaglieri del referendum intravveduti (ed auspicati) dall’ottimo onorevole Martina non abbiano obbiettivi di così lunga durata e di così complesso cammino; e, soprattutto, che non suscitino nostalgie di analoghi eventi “provvidenziali” sui quali costruire l’evoluzione della Costituzione.

Roma 23 agosto 2020

 

mercoledì 19 agosto 2020

Babele / 4

Debito pubblico sostenibile

(di Felice Celato)

Ci voleva la competente e fulminante chiarezza di Mario Draghi per mettere un dito sulla piaga degli  (studiati) fraintendimenti che vengono accuratamente nutriti sulla natura del debito pubblico (italiano, nel caso di specie).

Andiamo con ordine: quante volte abbiamo sentito affermare, anche con fierezza spesso fuori luogo, che il debito pubblico italiano è sostenibile?

Allora vediamo di capire che cosa vorrebbe dire la (apparentemente confortante) paroletta sostenibile; e proviamo a farlo, come facciamo spesso, partendo dal Dizionario Treccani, stavolta nella sua edizione specialistica costituita dal Dizionario di Economia e Finanza: la sostenibilità, nelle scienze ambientali ed economiche, è quella condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità di quelle future di realizzare i propri

Naturalmente il concetto può essere sviluppato ed articolato in forme un po' più tecniche di quelle appena enunciate (e, chi si senta desideroso di farlo, sempre con riferimento al debito pubblico italiano, può leggersi l’ottimo e chiarissimo volume di Carlo Cottarelli Il Macigno, Feltrinelli 2016, già segnalato qui nel post Letture del 26 maggio 2016); ma fin d’ora è chiaro che la sostenibilità di un debito pubblico presuppone, in buona sostanza, la semplice capacità del debitore di rimborsarlo, ovviamente distribuita nel tempo (quello previsto dai piani di rimborso impliciti in ogni emissione di debito pubblico); ma, in qualche modo, vi sottolinea il concetto di corresponsabilità inter-generazionale, cioè fra la generazione che lo ha contratto, quel debito, per soddisfare i propri bisogni/progetti e quella che lo erediterà, come componente negativa del capitale (umano, fisico, patrimoniale etc., e finanziario)  che riceverà – appunto, in eredità – dalla generazione precedente. 

Dunque il debito pubblico, in sé, costituisce la somma di quanto abbiamo preso in prestito, con la promessa di rimborsarlo, noi o i nostri eredi, a valere sui redditi che produrremo o che produrranno.

Bene: veniamo dunque alla semplice ed efficacissima distinzione proposta (o forse solo opportunamente riesumata) da Draghi nel corso di un suo intervento all’inaugurazione del Meeting dell’amicizia fra i popoli 2020, proprio ieri, a Rimini: il “debito buono” (quello contratto per fini produttivi, cioè per investimenti, cioè – ancora più chiaramente – per finanziare esborsi che generano nel tempo flussi di cassa positivi superiori agli esborsi stessi) versus il “debito cattivo” (quello contratto per fini improduttivi, che, privi di adeguati ritorni, semplicemente consumano il capitale preso a prestito). Una distinzione, questa, di cruciale importanza per il concetto che ci occupa (la sostenibilità del debito); eppure – così pare a chi scrive – costantemente trascurata nella nostra Babele quotidiana, anche se, in fondo, è patrimonio comune di ogni buon padre di famiglia, che ben conosce la differenza fra un debito contratto, chessò, per andare in vacanza in Australia e quello contratto, chessò, per acquistare una licenza di taxi per il proprio figlio disoccupato. Ecco, ricorda in sostanza Draghi, la sostenibilità di un debito dipende, in larga misura, dalla percezione della sua qualità, buona o cattiva, nel senso appena indicato.

Quindi, quando diciamo che il nostro debito è sostenibile diciamo, in sostanza, che esso è (nel suo complesso) “debito buono”, cioè contratto per fini produttivi; un’affermazione, direi, quanto meno coraggiosa, visto che da anni continuiamo imperterriti ad accrescerlo pur proclamando di volerlo ridurre; anzi, molto coraggiosa, se si considera il concetto di sostenibile dal quale abbiamo preso le mosse e  quand’anche si voglia tener presente – come è doveroso –  che la natura dei ritorni (attesi) è, in macroeconomia, più vasta e complessa di quella propria dell’economia aziendale (basti pensare, per esempio,  ai ritorni talora assicurati dal sostegno della domanda, specie in momenti di crisi).

Conclusione: se vogliamo mantenere all’aggettivo sostenibile il significato che sappiamo, possiamo tranquillamente seguitare ad usarlo (come sempre: avendone chiaro il significato); ma la mia proposta sarebbe quella di costringere i nostri garruli annunciatori di sempre nuove provvidenze (finanziate a debito) ad adottare il più efficace linguaggio del Draghi (stiamo facendo debito buono o debito cattivo?) perché, in fondo, è più …chiaro.

Roma, 19 agosto 2020

 

sabato 8 agosto 2020

Letture agostane

Per lettori di gusti diversi

(di Felice Celato)

Eccomi qua per tre brevi segnalazioni destinate a lettori con diversi interessi (o con i miei stessi diversificati interessi). Tre libri altamente raccomandabili nel loro diverso genere.

Cominciamo col primo dei tre saggi in segnalazione oggi. Di Paolo Borruso segnalo agli appassionati di storia Debre Libanos 1937- Il più grave crimine di guerra dell’Italia (Laterza, 2020). Si tratta di un saggio storico, scritto con tutte le attenzioni dello storico di mestiere (scrupolosa analiticità, documentazione solida, attenta valutazione delle fonti, etc), su un episodio poco noto della nostra storia di aspiranti colonizzatori, incentrata – stavolta – sulla conquista dell’Etiopia sul finire degli anni ’30 del secolo scorso (dunque meno di 100 anni fa!). Un libro da leggere con attenzione, specie da chi abbia dimenticato le colpe del fascismo e il travolgimento dei sensi dei cittadini quando l’ideologia cattura la società, e per chi ancora coltivi il mito degli “Italiani brava gente”: gli Italiani come ogni altro popolo nel corso della sua storia sono stati capaci di efferatezze che, per la loro natura, non ci distinguono molto da quelle che oggi amiamo collettivamente attribuire al nazismo (il degno compagno del fascismo nel secolo breve); e il massacro di Debre Libanos (un paio di migliaia di etiopici uccisi “a sangue freddo”, in gran parte religiosi cristiani, una violenta propaganda razziale, profanazioni e ruberie, con una coda non trascurabile di successive persecuzioni ed esecuzioni sommarie) ne è una drammatica testimonianza. Il libro va anche letto con attenzione alla storia ed ai personaggi inquietanti che vi si aggiravano. Non è il caso di tentarne una sintesi. Mi limiterò a riportare, per il suo valore morale, così come è citata nel testo, la raccomandazione rivolta ai suoi sudditi dall’imperatore Hailé Selassié – un figlio del cristianesimo etiopico, che la propaganda fascista aveva dipinto come un ras dispotico e selvaggio – non appena reinsediatosi sul trono (gennaio 1941) dal quale era stato rovesciato dai feroci “colonizzatori” fascisti: Io vi raccomando di accogliere in modo conveniente e di prendere in custodia tutti gli italiani che si arrenderanno con o senza le armi. Non rimproverate loro le atrocità che hanno fatto subire al nostro popolo. Mostrate che siete dei soldati che possiedono il senso dell’onore e un cuore umano [..] In modo particolare, vi raccomando di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi. Non saccheggiate beni altrui anche se appartengono al nemico. Non bruciate case. Quando vi ordino di rispettare tutto ciò, lo faccio perché il mio cuore mi dice che il popolo etiopico non è inferiore a nessun altro nel rispetto delle leggi di guerra; leggi che l’Italia fascista aveva orgogliosamente e sanguinariamente calpestato.

Seconda segnalazione, per gli appassionati di rapporti fra fede e cultura: di Michel Paul Gallagher SJ e Gabriele Palasciano: Credere e non credere - La fragilità della fede nel mondo di oggi (EDB, 2017). Si tratta di un testo molto complesso che ripercorre, con profondità e attenzione dialogica, le vicende degli ateismi nel mondo contemporaneo, facendone una sintesi dal punto di vista culturale e teologico, senza trascurarne la prospettiva pastorale. Anche qui, una sintesi sarebbe molto  difficile, tale è la vastità degli approcci; mi limito a segnalare due capitoli che ho trovato, fra gli altri, di grande qualità: il primo, Per una teologia dell’ateismo – L’elaborazione di Karl Rahner e di Joseph Ratzinger è – a mio giudizio – una magnifica sintesi del pensiero in materia dei due grandi teologi (che mi sono particolarmente cari), assai sensibili al tema della fede non mondo d’oggi, cui hanno dedicato pagine indimenticabili; il secondo, Per una pastorale rinnovata, disegna, seguendo il pensiero del teologo americano James Fowler, una traccia di storia della sensibilità religiosa nella psicologia dell’uomo contemporaneo, associabile, più in generale, alla storia della cultura a proposito del suo rapporto con la fede.

Infine una terza segnalazione destinata ai cultori della libertà (anche) economica (ai quali mi ascrivo senza esitazioni): di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro: Contro il sovranismo economico (Rizzoli, 2020, e-book). Un testo sereno ed argomentato sulle varie forme di statalismo che il mondo ha via via sperimentato senza averne valutato appieno le implicazioni di lungo termine; ma anche un testo inquietante quando si volge ad esplorare cosa c’è dietro l’angolo, soprattutto a valle dell’esperienza pandemica che viviamo  e delle “ricette” che si diffondono  per uscirne dal punto di vista economico.

In margine a questa lettura (che raccomando come analettico respiratorio, assai utile in questi tempi soffocanti) mi viene in mente una considerazione che mi sono trovato a fare con alcuni amici che mi chiedevano la mia opinione sull’ormai noiosa questione della ideale quantità massima e minima di presenza dello stato nell’economia, considerandomi, forse, non certo un ammaccato eroe dei due mondi ma almeno un pellegrino nei due mondi (in fondo i molti anni di lavoro nel mondo delle imprese a controllo pubblico e, poi, nel mondo di quelle super-private, il titolo di “pellegrino nei due mondi” un po' lo giustificano). A mio parere il problema ha cessato di essere (almeno per ora) un problema di politica economica per diventare, appieno, un problema sociologico: con le modalità di selezione della classe politica che ci troviamo, quanto più lo stato viene ristretto alle sue essenziali funzioni (difesa, giustizia, scuola, tassazione, tutela della libertà dei mercati, protezione dei più deboli, etc) tanto più potrà prosperare la nostra stanca società e tanto meglio verrà conservata la libertà.

Orbetello, 8 agosto 2020

 

NB: tre segnalazioni in un solo post….imponevano qualche parola in più delle consuete 750 (circa). Ne domando scusa ai lettori.

sabato 1 agosto 2020

Paradossi agostani

Il prossimo referendum

(di Felice Celato)

La mia cultura filosofica è – l’ho detto più volte – molto limitata: al di là di un bel 9 (sia in storia che in filosofia) alla maturità classica (a.D.1967, quando la maturità era una cosa seria!) e di qualche successiva lettura, prevalentemente di impronta liberale, non sono andato (con l’unica eccezione per più di una lettura teologica, che, peraltro, poco rileva nell’ambito di questa nota vagamente pro-vocatoria, come viene naturale nel caldo oziare d’agosto).

Con questa premessa preventivamente auto-assolutoria, vengo alla pro-vocazione vera e propria incentrata sul referendum che, a scuole appena riaperte e (presumibilmente) subito richiuse per le operazioni di voto, siamo chiamati ad affrontare nella generalizzata assenza di un vero e proprio dibattito (si badi bene: per confermare o annullare la legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari, approvata a larghissima maggioranza nell’ottobre 2019).

Dunque: attingendo alle poche letture filosofiche, mi pare di poter pensare che il potere (e la delega al suo esercizio che la ragione consiglia) costituisca per la libertà dell’individuo il classico malum necessarium; del resto, diceva John Locke che essendo gli uomini  [….] tutti per natura liberi, eguali e indipendenti, nessuno può essere tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. Il solo modo in cui un uomo si spoglia della sua libertà naturale e assume su di sé i vincoli della società civile, consiste nell’accordarsi con altri uomini per associarsi e unirsi in una comunità al fine di vivere gli uni con gli altri in comodità, sicurezza e pace, nel sicuro godimento della sua proprietà e con una maggiore protezione contro coloro che non vi [alla comunità, N.d.A.] appartengono.

Questo malum necessarium è – come ogni veleno – più malum quanto più è concentrato: ai due estremi della concentrazione, stanno, evidentemente, la tirannia (il potere concentrato in un solo uomo, il massimo del malum) e la democrazia (il potere diffuso fra i cittadini, il minimo del malum, di cui tante volte abbiamo detto i sommi benefici e i grandi rischi).

La nostra Costituzione ha fortunatamente adottato (art. 1) la formula della minore concentrazione del potere, stabilendo a chiare lettere che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, cioè nella forma tecnica della democrazia rappresentativa senza vincolo di mandato (art.67: ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato). Questa rappresentanza della nazione (non quindi dei singoli elettori o dei singoli gruppi di essi che hanno votato il singolo candidato o il partito di cui fa parte!) attribuisce ad ogni singolo rappresentante della nazione il terribile potere di concorrere a determinare, attraverso le leggi, i limiti alla libertà del singolo che, come diceva Locke, costituiscono i vincoli della società civile (cioè il malum necessarium del potere).

Bene. Non voglio affrontare il tema (secondo me abusato) della granularità della rappresentanza (secondo il quale 600 rappresentanti per 50 milioni di elettori garantirebbero una meno efficace rappresentatività di 945 per 50 milioni di elettori); non credo che esista più in natura un rapporto diretto (per lo meno confessabile) fra eletto (o aspirante all’elezione) e i suoi elettori: e dunque lasciamo cadere questo pur suggestivo argomento. Voglio invece tornare al concetto di poche righe fa, quello della concentrazione del potere (NB: del terribile potere e dell’enorme responsabilità di fare le leggi!): che interesse può avere il cittadino, geloso amante della libertà, a veder concentrato tale enorme potere nelle mani di 600 anziché di 945 rappresentanti?

Io non lo vedo, questo interesse; anzi forse li aumenterei, i rappresentanti del popolo, non foss’altro per aumentare la probabilità che fra di essi si trovino almeno i 10 giusti che, se consentirono ad  Abramo di “mettere in crisi” l’ira di Dio contro Sodoma ed i suoi abitanti, farebbero tanto bene anche al nostro Parlamento.

Per queste ragioni, voterò – insieme ad altri 7 o 8 “apoti” di Prezzoliniana memoria – un bel No al referendum confermativo.

Orbetello, 1° agosto 2020 (temperatura esterna “percepita” vicina ai 40 gradi!)