giovedì 30 maggio 2019

Una lettura raffinata

La tentazione di Siracusa
(di Felice Celato)
Concludiamo questo maggio grigio di nuvole e di inquietudini con una lettura raffinata. Come sanno tutti i lettori di questo blog, chi scrive non è un filosofo (né in alcun modo gli giova aver preso 9 in Filosofia all’esame di maturità classica, peraltro sostenuto 52 anni fa, quando la maturità era una cosa molto seria). Forse non sono del tutto digiuno di letture filosofiche (specie quando trattano di argomenti legati al presente e ritenuti utili per capire dove stiamo andando, possibilmente prima che ci si arrivi); e magari anche teologiche (la teologia, però, è una ricerca di sapienza all’interno del perimetro fissato dalla Rivelazione); ma certamente, in materia di filosofia, le mie conoscenze non hanno semplici lacune, hanno piuttosto oceani di sconoscenza.
Mi sono avvicinato perciò – complice la pioggia – al breve testo che voglio segnalarvi solo perché è breve e non destinato a specialisti, trattandosi del discorso col quale Jacques Derrida accettò, nel 2001, la cittadinanza onoraria di Siracusa. Jacques Derrida è stato, come sanno in molti, il filosofo francese (di origine algerina ed  ebreo-sefardita) vissuto fra il 1930 e il 2004, ritenuto il padre del c.d. movimento decostruzionista e , mi dicono, temuto da molti lettori per il suo stile espositivo particolarmente difficile.
Dunque il breve testo di cui ho fatto lettura (Tentazione di Siracusa, Mimesis 2018) è, credo, il massimo di lui che possa consentirmi, per le ragioni già dette.
Ma, credetemi, si tratta di un breve, succosissimo e anche spiritoso testo che vale la pena di leggere (del resto, al netto di commenti e interpretazioni, non prende più di una decina di pagine).
Qual è dunque, questa tentazione di Siracusa di cui ci parla Derrida? E’ quella di ogni filosofo che crede di essere qualificato per illuminare con i suoi consigli politici un’arte o un potere di governare; come accadde persino a Platone quando (ne racconta egli stesso nella Lettera VII, che vi consiglio pure di rileggere), circa 24 secoli fa, si recò a Siracusa nell’intento di illuminare il tiranno Dionigi (che lì governava); col disastroso risultato di doversi, alla fine, sottrarre con la fuga alle mortali insidie che questo gli riservò, tanto da dover (Platone, sempre nella Lettera VII) maledire quel suo viaggio a Siracusa. 
[Del resto a Platone quel suo viaggio – il primo della sua vita – proprio non andò giù fin dall’inizio, tanto che scrisse: Una volta arrivato, non mi piacque affatto la cosiddetta dolce vita (un precursore di Fellini?) fatta di banchetti italioti e siracusani, di un'esistenza passata a riempirsi due volte al giorno, mai soli di notte, con tutto quello che consegue ad una tale condotta]. 
Ma, scrive Derrida, se il filosofo non deve più sognare di divenire il consigliere di un imperatore nudo (qui il riferimento è alla ben nota fiaba di Andersen I vestiti dell’Imperatore, citata pure da Derrida), del sovrano, del principe o del tiranno, se questa filosofia politica ha fatto il suo tempo, ciò non significa che consideri la filosofia politica morta o inutile, ancor meno la filosofia del politico. E dunque: ciò di cui abbiamo bisogno ora è un’altra figura di un’alleanza fra la filosofia e la politica…perché oggi più che mai l’esercizio del politico richiede un’esperienza filosofica, si confonde persino con essa, dal momento che bisogna pensare a ciò che accade al politico stesso, a ciò che non è più legato all’iscrizione del politico in uno Stato-nazione esso stesso radicato in un territorio, a ciò che accade dell’autoctonia che era essenziale alla filosofia greca della polis e della cittadinanza, a ciò che sopraggiunge allo spazio pubblico oggi messo sottosopra dai poteri mediatici e telecomunicativi internazionali, a ciò che affligge e rovescia il diritto internazionale europeo, laddove la sovranità è rimessa in questione – ad un tempo dalle concentrazioni capitalistiche e da tribunali penali internazionali… Una nuova era della cittadinanza cosmopolita si annuncia e forse anche nuove leggi di solidarietà, nuove leggi d’ospitalità internazionale: una nuova ospitalità per lo straniero, per lo xénos divenuto phìlos…una democrazia a venire che faccia segno al di là del concetto di cittadinanza e dunque di Stato-nazione e dunque di luogo. Forse anche al di là di ogni concetto tradizionale, se almeno la cittadinanza restasse ancora legata ad uno Stato-nazione determinato, esso stesso radicato nella stabilità insostituibile di un territorio e di un idioma.
Forse Platone non arrivò ad esternare a Dionigi concetti siffatti (del resto Platone era ben radicato nella polìs)….ma se oggi ci fosse ancora un tiranno (Dionigi o qualcun altro) capirei bene che sarebbe molto infastidito dal sentir parlare, dal filosofo, di deterritorializzazione del politico, di mondializzazione, di crisi della sovranità.
Roma 30 maggio 2019

lunedì 27 maggio 2019

The day after

27 maggio: livelli di interpretazione
(di Felice Celato)
Non è questa la sede per fare analisi del voto (e del resto i giornali ne sono e ne saranno pieni per giorni); e chi scrive non ha titolo per farne di originali: la politica è un mestiere che non ho mai fatto (e che, invece, occorre conoscere), né (per il bene dei miei concittadini) ho aspirato a fare. Mi limito a leggere i giornali (spesso con disgusto) e a coltivare gelosamente le poco modeste certezze di possedere una conoscenza del mondo economico largamente superiore a quella diffusa fra i nostri politici (e molto spesso anche fra i loro commentatori professionali), nonché di aver fatto anche qualche intensa lettura per capire come gira il mondo (anche qui, con ogni probabilità, in misura  superiore a quella usuale presso i nostri frenetici politici, che, del resto, se ne fanno, di letture,  non è mai per capire ma per parlare).
Da questo poco esperto punto di vista, posso solo dire che, mi pare, in Europa (e questo è lo scenario che più conta) non abbia prevalso l’enterofrenìa di cui parlavamo qualche giorno fa: la consultazione ha visto una percentuale di votanti in crescita (a livello Europeo, ma non in Italia); tutto sommato le forze Europeiste hanno tenuto, non ostante la pressione cui sono state sottoposte, per esempio in Francia, in Italia, in UK (per quel che serve) o in Ungheria (per quel che vale); con “ricambi” interni che non mi pare pongano in questione l’eurocentrismo della grande maggioranza degli eletti al Parlamento Europeo (e anche degli elettori Europei); diventa decisivo il ruolo dei liberali (e questa è – in principio – un’ottima cosa) e cresce molto il peso dei Verdi, che non possono essere annoverati fra i nemici dell’Europa. 
[Il Parlamento Europeo pubblica i risultati delle elezioni, raggruppati per formazione politica europea e aggiornati in tempo reale, nel sito di cui al link sotto indicato]
L’interpretazione Italo-centrica (e perciò secondaria) del voto Europeo, secondo me, è, invece,  più negativa: se, da un lato, diminuisce l’ambiguità politica della compagine di governo, a favore della parte di essa almeno più fattiva dal punto di vista economico (vedremo subito con la TAV); dall’altro, cresce – sia pure marginalmente –  il grado di febbre anti-Europea (ancorché, forse, se ne indebolisca il contesto, come avremo occasione di capire presto); quanto al tasso di fascinazioni illiberali che forse percorrono il nostro paese, resta da vedere quanto peserà la dose di realismo di cui si potrebbe anche far credito ad alcuni dei nostri governanti, se non proprio (e questo per me è il dato da osservare con maggiore ansia) agli elettori nostrani, sempre lusingati da chi, per loro conto, fa mostra di vigore. Nel breve periodo, infine, rimango molto inquieto per quello che sarà, sulla base delle indicazioni elettorali, il destino del nostro approccio al problema dell’immigrazione; problema di civiltà e di cultura, prima ancora di essere un problema solo politico (e perciò mi preoccupa). Invece, quello che poi sarà l’immediato riverbero politico del voto europeo sulle sorti materiali del governo Italiano, non mi incuriosisce più di tanto: le sue sorti vere (e quindi meta-partitiche) dipendono da quello che occorrerà fare o si farà in economia: e in questo ambito nulla è cambiato col voto, se ne è solo accorciata la scadenza. Dunque, voltiamo pagina e aspettiamo di capire (e di vedere).
Per concludere questo programmaticamente inutile post, mi viene naturale citare nuovamente, come pro-memoria culturale e punto d’appoggio della mia speranza politica, un passo del saggio di Panebianco che abbiamo segnalato qualche giorno fa: un, sia pure imperfetto, ordine liberale offre più di quanto prende, distribuisce “beni pubblici” (condizioni favorevoli allo sviluppo economico, sostegno alla democrazia e guida ai governi per consenso, preservazione della pace) il cui afflusso è nell’interesse di tutti non interrompere.
Speriamo che tutti, eletti e – soprattutto –  elettori, lo abbiano sempre presente.
Roma 27 maggio 2019 

venerdì 24 maggio 2019

Defendit numerus /27

Tristi primati
(di Felice Celato)
Avendone fatto fugace cenno ieri, (si direbbe) mi corre l’obbligo di tornare brevemente su un libro appena uscito (di Nando Pagnoncelli, La penisola che non c’è. La realtà su misura degli Italiani, Mondadori, 2019) che, peraltro, fa aggiornato seguito ad uno analogo dello stesso autore (Dare i numeri, EDB 2016) qui segnalato con la sesta puntata di Defendit numerus  di giusto tre anni fa (il 14 maggio 2016).
Il libro tratta – come si capisce dal titolo – dello sconfortante primato che l’Italia si è guadagnata da tempo e che tuttora detiene fra i paesi (certamente tutti quelli con cui amiamo confrontarci) considerati dalle indagini demoscopiche sulla disinformazione (misperception) e sulla incosciente arroganza con la quale (la maggioranza de-) i cittadini Italiani difende la propria distanza dalla realtà. L’Italia, infatti, è risultato – scrive Pagnoncelli - il primo paese per distanza fra il dato percepito di un fenomeno e l’effettivo dato numerico di quello stesso fenomeno….Siamo un paese che da tempo ha rinunciato al principio di non contraddizione, un paese in cui alberga l’assurdo, la botte piena e la moglie ubriaca, dove la mancanza di competenza è associata ad un discredito della competenza stessa, e dove, quindi, le persone si sentono legittimate ad esprimere un parere anche su questioni di cui ignorano tutto o quasi.
Questo tema, come sanno i lettori più affezionati, è quasi un’ossessione di queste nostre conversazioni asincrone, perché da tempo ci è chiara la devastante influenza di un’opinione pubblica disinformata, emotiva e incompetente, sui destini politici del nostro Paese: questa dispercezione non è indolore, non è semplice “aria fritta” ma comporta una ricaduta concreta e decisiva sul cosiddetto sentiment, sull’atteggiamento generale dei cittadini, sul senso di coesione civile, sull’indice di fiducia nel futuro, sul rapporto con le istituzioni, sulla propensione a consumare o a risparmiare – in altre parole, sulla vita di tutti noi.
Non è il caso, qui, di menzionare le tante cifre di questo disordine percettivo del paese che Pagnoncelli descrive da grande professionista della materia: dall’economia alla sicurezza, dall’incidenza delle migrazioni, alla composizione della stessa popolazione del paese, dalla salute alle credenze e ai consumi, è tutto un dilagare di percezioni clamorosamente erronee, sicché Pagnoncelli parla di fine dei fatti come punto di riferimento della realtà (e quindi come base di giudizio politico del famoso popolo sovrano).
L’autore del libro, peraltro, come è un po' la caratteristica di altri autorevolissimi indagatori della nostra società (da noi qui sempre seguiti), si sforza di essere, oltreché un lucido diagnosta, anche un medico sollecito di una sperata guarigione della nostra società malata di misperception (i sintomi: percezioni che prevalgono sulla realtà, competenze scarse, indisponibilità a mettere in discussione le proprie credenze, generale arroccamento difensivo, ambivalenze diffuse, giudizi asimmetrici, informazioni disomogenee). E prova a mettere insieme una ricetta che, partendo dalla riscoperta del senso perduto delle parole, richiama l’esigenza di una narrazione autentica, documentata e (anche) passionale…una vera contronarrazione. Sì, passionale, perché in fondo – dice Pagnoncelli – il tessuto economico, i pochi ma significativi depositi di creatività, la vitalità, il capitale sociale (qui inteso come solidaristico senso della comunità) e il patrimonio culturale di questo nostro stanco paese meritano forse, appunto, una contronarrazione appassionata dei nostri punti di forza, una specie di nuovo mito fondativo che vale la pena di coltivare per non cedere allo sconforto.
Quali che siano le reazioni dei miei lettori a questo abbozzato progetto palingenetico, il libro va letto e meditato (fra l’altro è anche ben scritto); comunque esso aiuta a capire, a correttamente dimensionare il mito corrente del popolo saggio e – forse – a non disperare.
Roma 24 maggio 2019

giovedì 23 maggio 2019

Mettiamola così

I pericoli dell’enterofrenìa
(di Felice Celato)
Sarà che la primavera (ancorché in arrivo ritardato) mi mette di buon umore, ma, con un po' di sforzo, sono riuscito, per qualche minuto, a superare il gloomy mood di questi tempi. E allora, aspettando il 26 maggio, proviamo a scherzare (sia pure amaramente) sull’imminente consultazione elettorale, nominalmente europea ma, da noi, caricata di significati politico-nazionali e di aspettative euro-palingenetiche (una nuova Europa delle nazioni che proclami il debito come una virtuosa variabile indipendente, come il salario vetero-sindacale) o addirittura epocali (la fine della civiltà europea, ha scritto qualcuno digiuno di storia). Sforziamoci, dicevo, perché sarebbe terribilmente amaro soppesare con la dovuta drammaticità quel che – leggiamo – aleggia sul palco-osceno del teatrino della politica (mi perdoneranno il saccheggio, i detentori del copyright di queste espressioni, rispettivamente il grande Frassica e l’intramontabile Berlusconi, rimpianto presidente del Milan): dalle affermazioni finanziariamente suicidarie alle sterili proclamazioni valoriali (politicamente disincarnate e prive di ogni concretezza politica), dagli internazionalismi sghembi ai proclami pseudo-mariani, e così via.
E allora, sempre per scherzare, immaginiamo quale possa essere la categoria più pericolosa dei nostri elettori (in Italia e negli altri paesi dell’Unione); ci soccorrono qualche reminiscenza di greco e qualche abuso di terminologie mediche. Dunque tutti sanno che il prefisso entero- in medicina indica tutto ciò che ha a che fare con l’intestino: dal gastro-enterologo (lo specialista di malattie  dello stomaco e dell’intestino) all’enterococco (temibile batterio, vettore di pericolose infezioni), all’enteroclisma (che ometteremo di descrivere, facendo appello alle memorie infantili dei più anziani), tutti siamo più o meno familiari con questa paroletta di origine greca che significa, appunto, sia intestino che, più genericamente, “cose interne”.
Meno familiare (e anche questo è sintomatico) ci è, forse, l’analogo lemma frèno- usato in medicina per indicare la mente o l’intelligenza, dal greco phrèn / phrenòs che, appunto, significa mente, sénno, pensiero (da qui, per esempio, l’oligo-frenico, per dire di un paziente caratterizzato da uno stato di insufficienza mentale o lo schizo-frenico, per dire di un malato psichiatrico con gravi alterazioni cognitive e percettive).
Bene: che cosa vuol dire, allora, il nostro abborracciato neologismo entero-frenìa che abbiamo usato per titolare questo post sforzatamente scherzoso? Vuol dire (e qui finisce lo scherzo) che il vero pericolo di questa tornata elettorale è proprio quello che l’elettore ragioni con il sénno nella pancia, che affidi la sua mente ai borborigmi intestinali, anzi che la rinchiuda all’interno del suo sacco addominale impedendole di guardarsi intorno, sicché essa può vedere solo ciò che stiamo digerendo. Intorno a noi, invece, c’è un mondo in fermento economico e geo-politico, rispetto al quale l’Italia, isolata dal contesto nel quale ha passato questi ultimi 70 anni, ha un peso pulviscolare sia dal punto di vista demografico (siamo lo 0,8 % della popolazione mondiale e siamo fra i paesi più vecchi), sia da quello economico (il nostro PIL è poco più del 2% di quello mondiale mentre il nostro debito pubblico è poco meno del 5% di quello mondiale). E a questo contesto dobbiamo guardare quando andremo a votare.
L’Italia – ma starei per dire il mondo – ha un disperato bisogno dell’Europa (si veda al proposito il saggio di Panebianco, qui segnalato qualche giorno fa); e, nell’Europa, deve giocare il suo ruolo con autorevolezza, rispetto degli altri e di sé stessa, con presenze adeguate per competenza e credibilità (come spesso non lo sono state). Votando seriamente per comporre la nostra rappresentanza nel Parlamento Europeo, dobbiamo saper stabilire lì le opportune alleanze per saper spiegare e poter difendere le nostre esigenze, senza chiudersi alla comprensione ed al rispetto di quelle degli altri e, soprattutto, di quelle comuni.
L’elettore entero-frenico non è disposto a questa esplorazione del reale; il suo mondo sono le interiora del proprio paese, le sue prospettive…la fine della digestione. E non c’è da sorprendersi se, lì dove si è incistata la sua mente, come dice Nando Pagnoncelli (La penisola che non c’è, Mondadori 2019) manca l’idea del futuro (che esige sguardo lungo) e dell’interesse generale (che per sua natura non abita nella pancia del singolo).
Se il risultato elettorale vedrà, a livello Europeo, l’affermazione di questo “modello” di elettorato, saranno guai per tutti, in Europa, forse nel mondo, sicuramente per quel granello di polvere che è il nostro Paese.
Roma, 23 maggio 2019 (domani il Piave, di sicuro, mormorerà)

mercoledì 15 maggio 2019

Letture

Un mondo nuovo?
(di Felice Celato)
Eccomi di nuovo con una segnalazione di letture (da me considerate) assolutamente “imperdibili”. Stavolta tocca ad un breve libro di 120 pagine (All’alba di un nuovo mondo,Il Mulino, 2019), articolato in due saggi – fra loro collegati dall’argomento e dal progetto dei due autori – su L’Europa sospesa fra Occidente ed Oriente e su La Chiesa cattolica e l’Europa, rispettivamente di Angelo Panebianco e di Sergio Belardinelli. Come si intuisce dai titoli dei due saggi, l’Europa – come patria della civiltà liberale e radice della fede e della cultura cristiana – nella tesi dei due autori è il luogo valoriale nel quale il nuovo mondo che albeggia potrebbe trovare il suo destino.
Si tratta di un testo denso di riferimenti culturali che rendono anche difficile una sintesi che non depauperi eccessivamente i contenuti argomentati dai due autori; tuttavia, come è tradizione di queste segnalazioni, solo per invogliare alla lettura, tento la consueta riduzione in pillole dei due saggi.
Panebianco traccia anzitutto una mappa ragionata e chiarissima dei vari contributi offerti dalla dottrina politica internazionale sulla crisi evolutiva delle democrazie liberali (sullo sfondo: il rischio di involuzioni illiberali, tema attualissimo, che ha trovato qui varie segnalazioni, anche recenti), raccogliendoli in base alla chiave prognostica che assumono: da un lato coloro che ritengono i cambiamenti in corso di natura congiunturale e, quindi, a certe condizioni, destinati ad essere riassorbiti; dall’altro quelli che accentuano la natura strutturale delle mutazioni intervenute negli assetti economici del mondo e delle culture, per prevedere che assai probabilmente tali mutazioni saranno irreversibili. Come che sia da prevedere il futuro (che è per definizione incerto) è invece certo che, dal 1945 ai giorni nostri, anche gli equilibri geo-politici mondiali si sono potentemente evoluti, determinando una torsione dei ruoli giocati nel tempo da USA, Europa, Russia e Cina, tale che scuotere in profondità l’ordine internazionale, almeno quello cui da tempo ci eravamo abituati. Di fronte a queste tendenze (ripeto: vale proprio la pena di seguire il percorso argomentativo direttamente sul testo), la tesi di Panebianco è che se viene meno il primato occidentale non c’è ordine internazionale possibile… con vaste conseguenze negative; dove per “ordine internazionale” si deve intendere quella particolare variante dell’”ordine sociale” che – su scala geopolitica – significa, essenzialmente, prevedibilità… dei miei comportamenti da parte degli altri e prevedibilità mia dei comportamenti altrui… E’ la condizione che permette alle persone di lavorare, fare piani di vita, sposarsi, allevare i figli, in altre parole vivere.
Bene, dice Panebianco: se ci si guarda intorno, non si vede altro candidato che il mondo occidentale al ruolo di enforcer dell’ordine internazionale. Perché solo esso ha le risorse culturali, prima ancora che politiche economiche o militari, per creare… un ordine internazionale liberale… che, proprio in quanto liberale, offre più di quanto prende, distribuisce “beni pubblici” (condizioni favorevoli allo sviluppo economico, sostegno alla democrazia e quindi ai governi per consenso, preservazione della pace) il cui afflusso è nell’interesse di tutti non interrompere.
Di qui la chiave delle azioni auspicate da Panebianco: il rilancio dei rapporti inter-atlantici, la ripresa dell’integrazione europea, la ricostruzione di un equilibrio fra la competenza dei pochi e il diritto dei più a far sentire la propria voce.
In questo quadro si comprende facilmente il senso del collegamento col discorso che svolge Belardinelli nell’accorato saggio sul ruolo della Chiesa in Europa: che cosa succede nel momento in cui in Europa, il continente che per secoli è stato il cuore della fede cristiana, la gran maggioranza degli abitanti sembra non esser più interessata a questa fede? E…. se la Chiesa cattolica sembra interessarsi sempre meno dell’Europa, rivolgendosi invece ad altri mondi, come l’America Latina, l’Africa o l’Asia?
L’autore (dichiaratamente cattolico) si rende ovviamente ben conto della natura universale, “cattolica” appunto, della Chiesa; e della assoluta coerenza della sua proiezione verso tutti i continenti. Eppure svolge molte considerazioni (nelle quali mi ritrovo perfettamente), criticando (con garbo ed acume) certe adattive derive culturali che sembrano ispirate ad una sorta di incapacità di distinguere tra religione, morale e politica (oggi sembra... che i nemici da battere siano diventati il mercato capitalistico e la globalizzazione, esemplifica Belardinelli); proprio mentre la società secolare….ha urgente bisogno che da qualche parte ci sia qualcuno che parli di Dio con una lingua che sappia trasmettere la consapevolezza che si sta sfidando l’indicibile.
La conclusione di Belardinelli, dalla sua particolare prospettiva culturale e religiosa, è forse più amara di quella di Panebianco: il fatto che l’Europa e la Chiesa cattolica si stiano estraniando… è poca cosa rispetto alla stanchezza che affligge entrambe.
Roma 15 maggio 2019

lunedì 13 maggio 2019

Sfaccettature

L’impresa di Don Corrado
(di Felice Celato)
I giornali Italiani (e non solo Italiani, cfr., per esempio, The Guardian) danno (giustamente, stavolta!) ampio spazio all’impresa di Don Corrado, più formalmente noto come il card. Krajewsky (Elemosiniere del Papa Francesco) che, ieri, rotti i sigilli apposti per morosità, ha riattivato la corrente ad un edificio abusivamente occupato da  450 persone (adulti e bambini) in povertà.
Lo dico subito: don Corrado ha tutte le caratteristiche per essermi simpatico; è polacco, è un sacerdote liturgista e cardinale di Santa Madre Chiesa e per essa – anzi meglio: per lo Stato Citta del Vaticano – esercita la fattiva missione di carità; è spiritoso, energico ed informale (almeno così appare quando comunica); è leale (narrano i giornali che abbia lasciato un suo biglietto da visita accanto al contatore riattivato, per assumersi tutte le responsabilità della violazione di sigilli legittimamente apposti) e modesto. E anche franco nella comunicazione dell’accaduto.
Detto questo però, l'impresa mi ha suscitato una serie di contrastanti riflessioni.
Vediamo prima quelle di sostanza. Non c’è bisogno di arrivare fino alle ragioni di Antigone (Non davo, o Creonte, tanta forza ai tuoi decreti che un mortale potesse trasgredire leggi non scritte, date dagli dei!); e nemmeno di soffermarsi sugli Atti degli Apostoli (4, 19-20: Pietro, davanti al Sinedrio: Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a Lui, giudicatelo voi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto ed ascoltato). Basta avere un briciolo di umanità, non corrosa dal triste spirito del nostro tempo incattivito, per capire che, la pur legittima pretesa di veder pagato un proprio credito per energia fornita a illegittimi occupanti di uno stabile, non dovrebbe consentire una ritorsione tanto pregiudizievole per l’altrui minimo vitale; tanto più se questo altrui si mostra gravato da una condizione esistenziale che non può non porre in questione gli inderogabili doveri di solidarietà sociale stabiliti dall’art. 2 della Costituzione. E dunque, nella sostanza, bene ha fatto don Corrado, a porre rimedio ad una gravissima insufficienza del nostro sistema sociale.
Ci sono però – e li pone in giusto rilevo Carlo Nordio, su Il Messaggero di oggi – delle considerazioni formali che non possono essere sottaciute. Il Card. Krajewsky è (con ogni probabilità) un cittadino di uno stato estero (la Città del Vaticano) che - pare addirittura su mandato del capo di quello Stato Estero (il papa) - è venuto in Italia a compiere un reato (per lo meno, allo stato, apparente come tale), sia pure (come del caso) per i più nobili motivi e con piena assunzione di responsabilità. E non occorre essere un liberale come me per comprendere che questo non è accettabile. Se accettassimo il principio (grossolanamente attribuito a Machiavelli) che il fine giustifica i mezzi, dovremmo anche accettare, per esempio paradossale, il fatto che la giusta tutela del diritto di un paese consenta di non soccorrere in mare una persona in grave pericolo di vita ma non pacificamente legittimata a fare ingresso in quel medesimo paese. E dunque, dal punto di vista formale, l’impresa del card. Krajewsky è, non solo esplicitamente illegittima, ma, anzi, in principio, potenzialmente pericolosa, per l’Italia, ma anche per il Vaticano.
Ci sono infine – gravate anch’esse dal principio formale appena richiamato – considerazioni lato sensu politiche: il gesto di don Corrado appare ascrivibile alla diffusa insofferenza per i recenti indirizzi securitari e cattivisti del nostro Paese, che tante perplessità suscitano in Italia (almeno a quella maggioranza di cittadini che fa mostra di non riconoscersi in essi) e anche all’estero, compreso – ovviamente – il Vaticano. Da questo punto di vista (politico, lo ripeto!), se ci pensate bene, l’impresa di don Corrado sarebbe assimilabile a quella di un capo politico Italiano che, per esempio, manifestasse la propria antipatia per un capo di un paese estero, magari solo solidarizzando, con grande clamore, con chi – in quel paese – commette reati per fini di protesta politica (è il caso del “famoso” incoraggiamento politico offerto ai gilet jaunes francesi, mentre violentemente sfilavano per Parigi).
Concludendo (si avvicina il limite delle 750 parole, ma la materia è talmente sfaccettata che meriterebbe una nuova deroga): sarebbe molto meglio – da un lato – se questo nostro paese cominciasse a mitigare gli ardori che lo spingono ad essere quotidianamente eccessivo, a provocare reazioni isolanti, a stimolare sentimenti che non sono propri della sua umanità, a favorire, anzi, una deriva antropologica italiana della quale non si può essere fieri; e – dall’altro lato –  se la Chiesa (alla quale sono contento di sentirmi toto corde attaccato) non scendesse anch’essa su una strada che non le è propria: si può dare a Dio quel che è di Dio senza sfottere Cesare (quand’anche questo faccia del tutto per meritarlo; peraltro, in questo, senza essere l'unico Cesare al mondo).
Roma 13 maggio 2019

giovedì 9 maggio 2019

La società divergente /2

L'immaginario dello sviluppo
(di Felice Celato)
Qualche giorno fa, parlando del 25 aprile, mi è capitato di usare un termine – la società divergente – che riferivo ad una sobbollente deriva collettiva della nostra società (non recentissima ma di certo recentemente irrobustita da idonee narrazioni politico-sociali) intesa a “valorizzare” i miti negativi che catalizzano il rancore e l’incattivimento, allontanando la nostra società dall’onda lunga della storia del nostro vivere sociale; e anche da un tradizionale modo di pensarsi della nostra civitas.
Bene: di questa divergenza sembra dare atto documentato – sia pure per cogliere (starei per dire: amorevolmente) i germogli di un rinnovato sogno italiano – la ricerca Censis-Conad presentata ieri a Roma col titolo Verso un immaginario collettivo per lo sviluppo.
Ne viene fuori un quadro interpretativo complesso (e per alcuni aspetti assai incoraggiante) di nuove ed antiche pulsioni positive che sembrano sgorgare da un (ancora confuso) bisogno di risanamento dell’humus valoriale del quale è intriso il nostro immaginario collettivo. 
La ricerca (facilmente scaricabile dal sito del Censis) ci dipinge un’Italia tuttora segnata da un mood negativo, caratterizzato da aspettative generali ed economiche recessive, da ampie sacche di sfiducia nella classe lato sensu dirigente del paese e da un profondo senso di insicurezza personale ed economica (la ricerca non affronta il tema del gap reale-percepito che naturalmente si correla alla corretta valutazione dei fatti e dei dati). E purtuttavia diversi dettagli dell’analisi demoscopica lasciano intravvedere una capacità di distinzione non del tutto allineata sui prevalenti indirizzi mediatici; e soprattutto un ancora robusto attaccamento ai fondamenti di una società aperta, in una chiave europeistica non del tutto obliterata. Il che, in qualche modo, sorprende, considerando il contesto delle narrazioni prevalenti.
La sezione finale della ricerca costruisce una mappa di ciò che, ad avviso degli italiani, serve per tornare a crescere. Il Censis ne dà una lettura più profonda di quanto i dati pubblicati in una slide riassuntiva consentano di fare, introducendo considerazioni di valore che ho trovato la parte più stimolante della ricerca. Confesso, tuttavia, che ho fatto fatica a distinguere quanto a fondo l’interprete abbia lavorato solo sui dati sottostanti (dei quali non conosco il dettaglio) e quanto, invece, sia frutto di sue più vaste letture del contesto sociologico italiano (e delle medicine di cui abbisogna), nelle quali, del resto, al Censis riconosco un grande scrupolo di accuratezza, non disgiunto da una profonda com-passione per il malato. Proprio per quest’ultimo motivo, mi porto volentieri a casa questi elementi di speranza che, qui, cerco di sintetizzare citando vari passi della parte finale della relazione del Censis (i miei abituali lettori non faticheranno a riconoscere quelli che hanno suscitato il mio entusiasmo; e avranno pazienza per il superamento del limite delle 750 parole che sempre cerchiamo di rispettare).
  • L’immaginario del rancore non è la naturale proiezione del carattere italiano, ma – come emerge dal punto di vista degli italiani – l’esito di una base materiale che si va restringendo…..Le radici sociali sono note: blocco della mobilità sociale, aspettative decrescenti, disillusione verso promesse di politica e di economia che hanno come esito l’incertezza pervasiva e il nervosismo sociale del quotidiano: tutto ciò̀ ha incattivito il rancore.
  • La libertà individuale conta per gli italiani più̀ dell’uguaglianza, più̀ della protezione, più̀ della generosità̀: non che queste ultime non siano importanti, ma sono interpretate come funzionali al grande sogno della ricerca individuale del benessere, della possibilità̀ di poter dispiegare la propria soggettività̀.
  • La libertà individuale per dispiegarsi non ha bisogno di un contesto conflittuale e aggressivo, e non ha certo bisogno dell’immaginario del rancore e dell’incattivimento. 
  • La politica…. non crea lo sviluppo, può̀ favorirlo o ostacolarlo.
  • La pretesa di imporre a economia e società̀ la camicia di forza del bene normativo tramite editti trasforma il ritorno della sovranità̀ della politica nell’incubo dell’invadenza che tarpa le ali ai soggetti economici e sociali. 
  • Così è importante valorizzare, promuovere, tutelare i soggetti economici e sociali che sono attivi e che hanno bisogno di un clima favorevole alla libertà individuale e di scelta e di una buona relazionalità̀ sociale. 
  • Diventa decisivo in questa fase rendere evidente e potente il nesso tra immaginario del noi e sviluppo, come alternativa globale all’immaginario dell’io egoista come volano di decrescita e stagnazione. 
  • Per ricominciare a sognare vanno resi evidenti i costi del rancore e del neopaternalismo normativo e regolatorio come vincoli allo sviluppo collettivo.
  • Sognare vuol dire forzare l’orizzonte, andare oltre il puro rifiuto di qualcosa (dagli esiti della globalizzazione al cambiamento del quotidiano), pensare in grande avendo come riferimento preciso di un immaginario dello sviluppo la libertà individuale, che è il più̀ potente motore per migliorarsi e, oggi, per generare responsabilità̀ sociale diffusa, che crea legami, valore sociale, cultura collettiva. 
  • Ancora una volta, la libertà individuale può̀ essere il solo vero motore del nuovo sogno italiano

Roma, 9 maggio 2019

martedì 7 maggio 2019

Identità

Un must read, si direbbe oggi
(di Felice Celato)
Eccoci di nuovo ad un libro che merita senz’altro la (piccola) fatica della lettura: di Francis Fukuyama, Identità (Utet, 2019).
[N.B.: Francis Fukuyama, politologo statunitense di evidenti origini giapponesi, è noto ai più per un libro del 1992 (La fine della storia e l’ultimo uomo) che viene spesso approssimativamente citato come esempio di una profezia non avveratasi: la “storia” – sembrano dimostrare i fatti, secondo i suoi detrattori – non è finita con il definitivo trionfo delle democrazie liberali, come si vuole che Fukuyama avesse predetto. Non è il caso di entrare qui sull’argomento (del resto il libro l’ho letto tanti anni fa e i miei ricordi non vanno al di là del suo senso di fondo); basterà dire che l’autore, sia nella prefazione al libro di cui oggi parliamo sia in articoli pubblicati nel tempo, ha provveduto a commentare brevemente il contenuto delle critiche ricevute, distinguendo fra quelle ragionevoli e quelle stupide o fondate su una semplice mancata comprensione del senso del suo famoso testo (del 1992) che lo ha fatto conoscere in tutto il mondo.]
Il senso del nuovo libro di Fukuyama sta tutto in una serie di considerazioni che tenterò di brevemente riassumere, in pillole; ma il testo è – ovviamente – assai più articolato di quanto si possa qui dire e ricco di considerazioni storico-sociologiche su scala globale, esposte con chiarezza e ricchezza di argomentazioni. 
Il problema dell’identità risiede nel tymos, qui inteso come la sede del giudizio di valore, una sorta di terza parte dell’anima (psyche, in greco, e terza rispetto alla parte desiderante e alla parte calcolatrice, già identificate da Socrate) nella quale alberga l’aspirazione al riconoscimento del proprio valore [da qui l’isotimìa, l’eguaglianza coessenziale alla democrazia; ma anche la megalotimìa, il desiderio di essere riconosciuti come superiori, che in qualche modo contraddice proprio la democrazia].
All’inizio del XIX secolo, la politica del riconoscimento…è giunta ad un bivio: da un lato il riconoscimento universale dei diritti individuali (..le società liberali che cercavano di offrire ai cittadini un ventaglio sempre più ampio di libertà individuali); dall’altro le asserzioni di identità collettiva, della quale le maggiori manifestazioni erano il nazionalismo e la religione politicizzata.
Le vicende di questa politica del riconoscimento, le sue ulteriori mutazioni nei vari contesti mondiali del XX secolo [la promozione sociale dell’autostima, intesa come fattore della felicità; il narcisismo; la dignità come istanza democratica; la proliferazione delle identità di gruppo; la “scoperta” delle funzioni civili dell’identità; la sua convivenza con le irrinunciabili modalità cosmopolite del nostro vivere contemporaneo; etc], unite al profondo radicamento del tymos nella psiche  (come terza parte dell’anima), fanno sì che, in fondo, non possiamo sottrarci al senso dell’identità o alla politica identitaria.
Che fare, allora? si domanda Fukuyama nel capitolo finale del suo volume. Come fare leva su questa “poderosa idea morale che ci è piovuta addosso”, preservando le nostre società dai mali delle sue involuzioni? La sua risposta sta tutta nel riconoscimento della pluralità delle nostre identità (i lettori ricorderanno le identità multiple di cui parlava il qui più volte citato Amartya Sen), anzi addirittura nella promozione di una composita identità dottrinale, una sorta di identità artificiale, costruita attorno alle idee fondanti della moderna democrazia liberale….(una visione di virtù positive, non legate a particolari gruppi, che sono indispensabili per far funzionare la democrazia liberale. Insomma non smetteremo di pensare a noi stessi e alla nostra società in termini identitari, ma dobbiamo ricordare che le identità che albergano nel nostro profondo non sono né invariabili né necessariamente fornite dalla contingenza della nostra venuta al mondo. L’identità può essere usata per dividere, ma anche, come è successo, per integrare.
Se questa super-sintesi non è riuscita a distruggere il grande valore culturale e civile del testo di Fukuyama, sono convinto che molti dei miei lettori non esiteranno a godersi lo sviluppo del pensiero dell’autore lungo tutto il testo.
Roma 7 maggio 2019

P.S.: Voglio citare integralmente un altro passo (del tutto incidentale) del libro, che mi ha veramente colpito: Pensateci la prossima volta che fate l’elemosina ad un povero senza guardarlo negli occhi: state alleviando il suo bisogno materiale, senza però riconoscere la comune umanità tra voi e il mendicante. (Fukuyama non è sicuramente cattolico, non so se sia cristiano né se sia religioso; è un americano nato negli USA da padre giapponese. Semplicemente un umano).






mercoledì 1 maggio 2019

Sollicitat numerus

Colori cangianti
(di Felice Celato)
Come forse sanno i miei lettori, sono un appassionato di statistiche e di indagini demoscopiche. Una fonte previlegiata e, mi pare, tecnicamente accurata, è costituita per me dal sito www.ourworldindata.com, fondato e diretto da Max Roser, un giovane economista e geo-scienziato tedesco della Oxford University (qui più volte citato) che ha dedicato le sue ricerche alla crescita e alla distribuzione delle condizioni di vita nel mondo. 
Così, in questo giorno dedicato al rosso (o, come io preferisco pensare, a san Giuseppe Lavoratore, maestro di santo silenzio), ho impiegato un po' di tempo a studiare i colori coi quali ourworldindata descrive la mappa del mondo per misurare, sulla base di ricerche demoscopiche, il grado di pazienza (e di altre "virtù sociali") diffuso fra i cittadini dei vari paesi del mondo (i colori indicano il grado di deviazione standard rispetto alle medie globali; e per questo sono cangianti a seconda del grado di deviazione). 
L’indagine è vasta e, chi vi avesse interesse, può leggerla (e guardarla) sul link sotto citato. Qui mi limiterò ad una super-sintesi focalizzata su alcuni dei parametri che mi sono sembrati più interessanti, riferiti ai paesi coi quali siamo soliti confrontarci (USA, Canada, Cina, UK, Germania, Francia, Spagna, Svezia). Data la pluralità degli indici e la complessità delle diverse misurazioni, mi limiterò ad un semplificato riassunto delle varie evidenze demoscopiche:

Stima della pazienza (la pazienza è definita come la disponibilità a rinunciare a qualcosa oggi in cambio di qualcosa in più, in futuro): l’Italia e la Spagna sono di gran lunga i paesi meno pazienti; USA, Canada, Svezia i più pazienti, insieme a Germania, UK e Francia.

Stima della reciprocità positiva (la reciprocità positiva è la disponibilità a rendere un favore): qui l’Italia se la cava meglio di Germania, Svezia e Francia, al livello più o meno di USA, Canada e UK ma ben sotto la Spagna e la gentilissima Cina.

Stima della reciprocità negativa (la reciprocità negativa è la volontà di trarre vendetta ove ci si ritenga trattati ingiustamente): qui siamo i più “arrabbiati” del campione da noi considerato, insieme alla Francia.

Stima dell’altruismo (inteso come disponibilità a donare, misurata quantitativamente e qualitativamente): qui siamo “buoni” più o meno come gli americani e i cinesi, più dei tedeschi, dei francesi, degli inglesi, degli spagnoli, degli svedesi e anche dei canadesi.

Stima della fiducia (intesa come tendenza ad attribuire agli altri le migliori intenzioni): qui andiamo maluccio, meglio dei francesi e tedeschi, ma assai peggio di americani, canadesi, cinesi, spagnoli e inglesi.

Se si potesse delineare uno “schizzo” da questo quadro sommario (ripeto: l’indagine è interessante e divertente e merita di essere consultata in diretta, sul sito apposito), direi che ci sentiamo, almeno a parole, altruisti e pronti a fare favori, ma siamo  impazienti, diffidenti e rancorosi (come direbbe il Censis).
Come tutte le indagini demoscopiche, anche questa va letta avendo coscienza dei limiti della rilevazione (sul sito ci sono ragguagli metodologici chiari) e, soprattutto, guardando la luna e non il dito di chi la indica.
Roma 1° maggio 2019 (festa di San Giuseppe Lavoratore)