venerdì 29 giugno 2018

Defendit numerus /20

….però il portiere m’ha detto
(di Felice Celato)

Copio dal 1° Rapporto sulla filiera della sicurezza in Italia, presentato dal Censis il 27 giugno u.s..
I dati sono relativi al 2015 (quindi non aggiornatissimi) e si riferiscono all’incidenza di alcuni reati per ogni 100.000 abitanti nei principali paesi Europei e nell’Europa a 28 stati nel suo complesso.


Omicidi
Lesioni dolose
Violenze sessuali
Furti
Rapine
Germania
0,8
155,0
33,2
1627,2
54,4
Spagna
0,7
62,6
18,6
443,0
139,1
Francia
1,5
365,9
29,9
1840,2
157,2
Italia
0,8
105,6
6,6
1723,2
57,8
U.K.
0,9
663,4
55,5
2137,9
81,4
U.E. a 28
0,9
195,4
24,7
1391,3
71,8




I dati provengono da Eurostat (forse è per questo che non sono freschissimi) e scaturiscono dalle denunce presentate in ciascuna delle aree considerate. 
I dati complessivi riferiti a tutti i reati (ovviamente compresi quelli sopra considerati), aggiornati al 2016 ed articolati per provincia (totale dei reati denunciati = 2.487.389, pari a 4,1 reati ogni 100 abitanti; fonte Ministero degli Interni), evidenziano che Milano, Rimini, Bologna, Torino, Prato, Firenze, Roma, Imperia e Pisa sono (nell’ordine) le prime 10 province con un’incidenza di reati (mediamente 6 ogni 100 abitanti) superiore a quella media Italiana (4,1).
Se si guarda all’evoluzione nel tempo di tali dati (totale dei reati denunciati), in Italia si rileva che nel periodo 2008-2017 (i dati relativi a quest’ultimo anno sono ancora provvisori), il totale dei reati denunciati è diminuito del 17,6%. I furti, per esempio, sono passati da 45.857 del 2008 a 28.912 del 2017 (questo è un dato provvisorio, come già detto), essendo quindi calati del 37% (non ostante "l'invasione" di immigrati, dovrebbe riconoscere qualcuno ancorché pieno di pregiudizi).
Conclusione (credo non percepita da quelli che hanno letto sul giornale che… o che hanno sentito dalla TV pomeridiana che… o che il portiere m’ha detto che la gente non denuncia tutti reati che subisce): l’Italia è un paese sufficientemente (e in misura ad oggi crescente) sicuro rispetto ai maggiori Europei e alla media Europea, per tutti i reati “maggiori” (omicidi, lesioni dolose, violenze sessuali, rapine) esclusi i furti, dove però siamo messi meglio di U.K., Germania e Francia (che dite, vogliamo dire anche grazie alle nostre forze dell'ordine?).
Ovviamente, se le elaborazioni Censis sono giuste, se le ho copiate bene e…salvo sempre vincente percezione contraria (contro la quale non c'è nulla da fare).
Roma 29 giugno 2018

giovedì 28 giugno 2018

Letture

Così va il mondo
(di Felice Celato)
Segnalo oggi un libro che non ho letto. Come mai questa cosciente immersione nella corrente cialtroneria? Perché del libro (che pure sta sul mio tavolo, in attesa di essere ripercorso) conosco molto bene il contenuto in quanto da molto tempo seguo il sito che lo ha “generato” (e la omonima fondazione, Gapminder, che ne cura le fonti); e quindi le analisi che contiene mi sono molto familiari. [Ne è prova – e ne sono infantilmente fiero – che ho riportato un altissimo punteggio positivo nel test col quale l’autore, all’inizio del libro, fa toccare con mano quanto poco siamo informati sulle consistenze e sulle tendenze delle “quantità” che marcano la qualità della vita nel mondo]. L’autore Hans Rosling (scomparso l’anno scorso) insieme al figlio Ola e alla nuora Anna Rosling Ronnlund, è (era) uno straordinario “divulgatore” di Factfulness (questo il titolo del libro, edito quest’anno da Rizzoli), cioè – traducendo liberamente il neologismo inglese – di fattualità, di attaccamento tenace ai fatti, contro la devastante ignoranza delle illusioni percettive prodotte, forse, da istinti drammatici che non riusciamo a tenere sotto controllo o da tendenze istintive alla infondata generalizzazione o alla polarizzazione delle “realtà” immaginate; o magari solo prodotte dalla scarsa propensione alla misurazione delle cose, per la quale “un bicchiere d’acqua ed un’onda sempre acqua sono”, anche se il primo disseta e la seconda travolge.
Avrei potuto attendere, per parlarvene, di averlo almeno completamente risfogliato, questo corposo volume; e invece sento l’urgenza di consigliarne la lettura perché la cosciente dose di fiducia nel presente che ne promana (ne spiego subito il senso) mi pare un ottimo antidoto per i nostri crucci paesani.
Il fatto è che pare proprio – come del resto credo di aver qui detto più volte – che il mondo vada meglio di quanto immaginiamo; direi di più: di quanto siamo disposti a credere. Il che non vuol dire – è fin troppo ovvio – che il “male” (nelle sue tante materiali manifestazioni crudeli come, per esempio, la mortalità infantile, la fame e la povertà assoluta, i morti in battaglia,  l’ignoranza, i decessi per calamità naturali, etc) sia scomparso dal mondo; né che il “bene” stia ovunque prevalendo ( nei suoi concreti indicatori materiali ed immateriali come, per esempio, l’aspettativa di vita, l’alfabetizzazione, l’accesso alla scolarizzazione delle bambine, il diritto di voto delle donne, la resa cerealicola, la copertura delle reti elettriche, la disponibilità di acqua da fonte protetta, l’immunizzazione vaccinale, la diffusione della democrazia, etc). I problemi irrisolti e le opportunità tuttora negate restano  un problema altamente sfidante dal punto di vista umano; vero è, però, che, non ostante la vertiginosa crescita della popolazione mondiale, la dimensione dei problemi irrisolti e quella delle opportunità negate si sono straordinariamente ridotte, negli ultimi 30-40 anni, a ritmi impensabili (o meglio: impensati dai più), al di là di ogni nostra non fattuale ed emotiva percezione.
Insomma (a questo conducono le affascinanti dimostrazioni di Rosling, nel libro e sul suo sito), la realtà effettiva del mondo è significativamente migliore di quella percepita; e, soprattutto, le tendenze rilevate negli ultimi decenni sono sicuramente confortanti, specie se rapportate al contemporaneo sviluppo quantitativo della compagine umana. 
Dicevo, dunque, che questo libro (fra l’altro scritto in maniera piacevolissima e quasi divertente) può costituire un antidoto all’ondata di pessimismo nazionale che forse ci pervade e alla montante sfiducia nella capacità dell’Europa di puntellare le sue proprie debolezze. In questi giorni – nello sfacelo degli assetti politici preesistenti – fioccano, sui giornali nostrani, ipotesi di rinascita, di palingenesi, di rifondazione di una cultura della politica, di proclamata lotta al rancore ed alle sue manifestazioni spesso irrazionali, etc.. In realtà - temo di aver enunciato qui fin troppe volte la mia convinzione – la radice del nostro presente, nella (vasta) misura in cui ci lascia perplessi, si abbevera a fonti profonde, non più partitiche né ideologiche, né genericamente culturali, né, forse, solo sociologiche (e questo mi rende oltremodo scettico su “virate” dal corto respiro). Occorre cercare nel nostro invecchiamento, nella nostra perdita di competitività culturale, nello sfiancamento antropologico del nostro sentirci collettività, nella perdita di senso del passato e di passione per il futuro, le ragioni dei nostri mali di lunga deriva (se riteniamo che siano mali).
Collegare quelle dinamiche mondiali con questa nazionale è anche un modo per ritrovare un senso nei fenomeni migratori che tentiamo, con rumoroso affanno, di contenere per non averne saputo gestire l’aspetto forse più positivo, che rifiutiamo ancora di vedere perché ci spiace trovarne l’evidenza. Ma questo è un altro discorso e, forse, lo riprenderemo in seguito.
Roma, 28 giugno 2018


giovedì 21 giugno 2018

Controcorrente

B.E.S.T. proposal
(di Felice Celato)
Da noi – chissà perché – fanno facile presa le azioni di marketing demonizzante; così il suffisso -ista [di per sé indicativo di un’attività (per esempio: il civilista, per dire l’avvocato specializzato nel diritto civile) o di un’inclinazione ideologica (per esempio: il leghista o il socialista, per dire l’aderente alla Lega o al Partito socialista) o di personali caratteristiche (per esempio: il fantasista, per indicare l’interprete di fantasie artistiche o anche calcistiche)], applicato all’aggettivo buono (corrispondente  ad una virtù, la bontà, anzi, alla somma delle virtù, attributo per eccellenza di Dio), è diventato spregevole segno di buoni sentimenti, di tolleranza  e di benevolenza, dei quali, però, apoditticamente si presume l’ostentazione ipocrita; del resto, durante il periodo delle leggi razziali Italiane (anzi: italiane, con la lettera minuscola), la stessa sorte toccò al termine pietista per indicare colui che mostrava sentimenti di pietà (o di semplice simpatia) per gli ebrei o che magari li ostentava (cfr. Giacomo Papi, su ilPostdel 27 2 17).
Così dunque, pare coniato da Ernesto Galli della Loggia nel 1995 scrivendo dell’Ulivo di Romano Prodi, l’aggettivo buonista ha assunto una connotazione talmente negativa da essere usato correntemente come insulto rivelatore di ipocrisia, flaccidezza, assenza di nerbo virile. Per carità: non è andata meglio al popolo che – poveraccio! - ha generato il populista; ma almeno il popolo se lo è meritato (col voto, intendo).
Si direbbe quasi che il “pessimo” buonista (caratterizzato come abbiamo appena detto) sia diventato il negativo dell’”ottimo” cattivista, un aggettivo che, però, non decolla come dovrebbe perché non ancora sponsorizzato da nessuna forma di marketing positivo. Non ancora, appunto; perché non escluderei che di questi tempi ce se ne innamori fino al punto di trasformarlo in un vanto politico od umano.
Il fatto è – mi pare di poter osservare con infinita amarezza – che viviamo un tempo nel quale ogni giorno amiamo sentirci più cattivi (o anche solo meno buoni) del giorno precedente; forse per sentirci veri sovrani dei nostri destini a scapito di ogni altro; perché, in fondo, così ci pare, l’essere buoni è un po' vergognoso, se non nella vita privata (anche se a Roma si dice che si sei troppo bbono passi pe’ minchione), almeno in quella pubblica, da sempre, da noi, caratterizzata dall’amore (magari a termine) per le maniere spicce, forti, da Duce o da Ducetto; o semplicemente decisioniste come si cominciò a dire ai tempi di Craxi (facendo il verso ad un’espressione nientemeno che di Carl Schmitt, per il quale – formalisticamente a ragione –  auctoritas, non veritas facit legem);  decisionista, per dire semplificatore del fare complesso, poco disposto alla fatica del tortuoso formarsi di una volontà ed all’analisi troppo elaborata delle implicazioni di essa.
Di fronte a questa amara constatazione, con ancora negli occhi lo scempio dei figli dei migranti messicani ingabbiati nell’America dei loro sogni, mi viene spontaneo formulare ai miei lettori una proposta dal sapore conservatore: se ci ribellassimo al marketing negativo del buonista; se tutti insieme scegliessimo di proclamarci orgogliosamente buonisti, rivendicando che  non può esistere una buona politica senza il bene del buon essere e del buon agire (J. Ratzinger, Omelia per i deputati cattolici del Bundestag, 26 novembre 1981); se, contrastando ogni deriva transitoriamente maggioritaria, affermassimo ad alta voce che ci sono valori…che valgono per se stessi, che  provengono dalla natura umana e perciò sono inattaccabili per tutti coloro che possiedono questa natura (J. Ratzinger con J. Habermas, in Ragione e fede in dialogo, Venezia 2005); o se semplicemente proclamassimo che vogliamo fermamente essere buoni perché buono è il Signore, Dio dell’Universo, e perché così ci hanno predicato di essere i nostri venerati genitori; se facessimo tutto ciò dichiarandoci B.E.S.T., Buonisti Europei Semplicemente Testardi; se investissimo, almeno per un po’ e fino ad evidenza contraria, sul fatto che ci si possa capire, anche quando è difficile, quasi sovrumano (G.Papi, s.c.); se facessimo tutto ciò, non saremmo forse più utili al nostro povero paese di quando accettiamo pazientemente (starei per dire: bovinamente) di essere bollati con l’etichetta perfida di una virtù beffeggiata? E soprattutto, non avremmo meno cose di cui vergognarci quando ci guarda negli occhi chi ci stende la mano? 
Proviamo, dichiariamoci fieramente B.E.S.T.!
Roma, 21 giugno 2018 (solstizio d’estate, da domani la luce del giorno comincia a raccorciarsi)

mercoledì 20 giugno 2018

Letture

Ipertrofia dei diritti
(di Felice Celato)
Ho letto con grande interesse questo libro appassionato (scritto anche benissimo) che raccomando alla attenzione dei miei lettori: di Alessandro Barbano, Troppi diritti (Mondadori, 2018).
E tuttavia, pur condividendo buona parte delle spietate analisi dell’autore (in particolare i capitoli su Il sapere senza sapienti, La dittatura della piazza, La democrazia del talk-show, Il radicalismo di massa, La leadership dei performer, La variabile giudiziaria, Il paradigma della gogna, Il pensiero securitario, La lunga notte del Sud, dove, fra l’altro, l’autore meglio mette a frutto la sua grande esperienza di giornalista); pur condividendo, dicevo, queste lucide ed acuminate analisi, rimango assai perplesso sulla scelta del titolo ambiguo e, ancor di più, del sottotitolo fuorviante: l’Italia tradita dalla libertà.  [Per la verità, il titolo  dello stesso capitolo che specificamente sembrerebbe trattarne (Il tradimento della libertà) mi è parso poco chiaro, forse anche per l’equivoco fra l’uso soggettivo o oggettivo della preposizione articolata: insomma è la politica italiana che ha tradito la libertà (come  argomentato nel capitolo) o la libertà che ha tradito (cioè ingannato?) la politica italiana, come enunciato nel sottotitolo?]. 
Il problema, secondo me, non è del numero (troppi o pochi?) dei diritti né, tampoco, dei presunti tradimenti da parte della libertà, quanto piuttosto – e lo dice magnificamente Orsina nel libro segnalato qualche post fa – nella pervasiva decomposizione della politica operata dalla democrazia del narcisismo (che è poi un concetto analogo al presentismo di matrice DeRitiana); dove il cittadino narciso assomiglia al democratico “illimitato” Tocquevilliano e all’”uomo-massa” Orteghiano: soddisfare le proprie urgenze psicologiche immediate è l’unica cosa che gli interessi, perciò vive esclusivamente nel presente [cfr. Re Rita]: ha perduto il senso del passato e, di conseguenza, non è più capace di immaginare nemmeno il futuro.
Insomma, una volta di più, la premessa culturale e sociologica mi pare preponderante sulle sue variabili estrinsecazioni politiche. In questo senso molto meglio si esprime Barbano quando, nel suo ampio argomentare, parla di ipertrofia maligna dei diritti o anche di dirittismo (questo è il fil rouge delle analisi sviluppate nel libro) come cifra illiberale di questo esito della democrazia ovvero come sottrazione di spazio ai doveri e a una religione civile della democrazia fondata sulle tradizioni sedimentate nella famiglia, nel costume e nella vita sociale. [ NB: Per non spaventare i laici, i negatori del giusnaturalismo e gli altri “cacciatori” di sdegnate censure, vale la pena di riportare quanto osservava molto chiaramente il p.Ottavio De Bertolis SJ (in Le ragioni di Antigone - La legittimazione del potere, Cittadella, 2011): le costituzioni rappresentano il precipitato “positivizzato” di quei valori diffusi nella società che costituiscono la premessa non discussa – si potrebbe dire i “valori non negoziabili” – dell’agire giuridico e politico. È vero infatti che non sono politici i fondamenti della politica come non sono giuridici i fondamenti del diritto. Piuttosto, il diritto e la politica si innestano in un complesso di valori di riferimento in mezzo ai quali essi sorgono, in un processo di reciproca osmosi. Forse, in altri tempi, si sarebbe detto: ...si innestano nella costituzione materiale].
Bene, se questa bega un po' pignola sul titolo (e sui suoi risvolti)  non ha stancato il lettore, passiamo brevemente alla pars construens del libro di Barbano, anch’essa, a mio giudizio, pur nei suoi enunciati astratti, largamente condivisibile (come lo è del resto gran parte della pars destruens, nelle sue, invece, concrete esemplificazioni dei nostri mali).Per la verità tanto vasta e sconsolante si presenta l’analisi distruttiva (spesso leggendola mi sono sentito un ingenuo ottimista) da far dubitare che ad essa possa seguire una pars construens. E invece c’è una “ricetta” Barbano (la chiama moderazione integrale), della quale però non si può dire che sia un indirizzo politico quanto, piuttosto, un quadro di riferimento culturale (nuovo ed antico allo stesso tempo) di respiro Europeo, nel quale l’ipertrofia dei diritti viene “medicata” con dosi massicce di realismo e verità, col recupero del limite e del beneficio del dubbio, con la coltivazione del merito, col rispristino della delega del potere e del sapere, col riconfinamento dello Stato nelle sua potestà regolatorie, con una sfida a tutto campo al conformismo dei luoghi comuni e del politicamente corretto, con la ri-conduzione della democrazia alla fonte di quelle esigenze ed evidenze morali che le tradizioni religiose conservano come sedimenti di valori, ovvero (si tengano forte i cosiddetti laici!) ai fondamenti etici della legge (come diceva il card. Ratzinger al filosofo Habermas, in Ragione e fede in dialogo, Marsilio, 2005).
Guardandosi intorno non si può che concludere per la vastità del programma; resta però – ad avviso di chi scrive ed ha letto – la qualità e la passione civile del libro che, perciò, di nuovo raccomando.
Roma 20 giugno 2018









domenica 17 giugno 2018

Interconnessioni

Le pubbliche opinioni
(di Felice Celato)
C’è, forse, nella concitata attività gesticolatoria di questi tempi, una dimensione sulla quale vale la pena di riflettere (sempreché questa attività non risulti ormai desueta e incompatibile con la galoppante fast democracy).
Mi riferisco all’importanza delle pubbliche opinioni ed alle loro (inevitabili) natura complessa  e interconnessa latitudine.
Come sanno i lettori di questo blog, chi scrive non ha una grande considerazione della pubblica opinione (e di quella italiana in particolare); ma certamente non perché ne sottovaluti l’importanza ai fini della determinazione della volontà democratica, importanza ovvia, naturalmente. Chi va a votare (diciamo, più o meno, attorno ai 2/3 degli aventi diritto) esprime, in forma sintetica (il voto per questo o per quello), valutazioni che riflettono certamente il punto di vista del singolo (costruito sulla base della diretta osservazione della realtà) ma, inevitabilmente, anche opinioni pre-aggregate da un partito o da un altro, sotto forma di agende, valutazioni, sensibilità, retoriche, narrazioni, scale di priorità, convinzioni generiche o specifiche su singoli temi ritenuti al momento rilevanti; complessivamente diciamo, per mera comodità, sulla base di narrazioni politiche (o, se siete affezionati ad un vecchio modo di esprimersi, di programmi politici). E fa ciò, grazie alla comunicazione che intermedia e veicola tali narrazioni-programmi politici, spesso con fedeltà, talora deformandoli (o ampliandone o riducendone il significato) sulla base delle inclinazioni, dei pre-giudizi o degli interessi dei veicolatore. Da questa catena (osservazione diretta, narrazioni politiche, veicolazione mediatica) deriva quel (spesso) disordinato guazzabuglio di percezioni e pulsioni che chiamiamo pubblica opinione (della cui fattuale rispondenza abbiamo più volte detto).
E dunque sarebbe veramente improprio sottovalutare l’importanza, appunto della pubblica opinione, ai fini della costruzione della cosiddetta volontà democratica. 
Ciò che invece sembra chiaramente sottovalutata, anzi, spesso, totalmente ignorata, è la dimensione internazionale della pubblica opinione; anzi, per i motivi che dirò subito, delle pubbliche opinioni. Chi legge abitualmente la stampa estera si può facilmente rendere conto come uno spostamento di accento che si determini in una pubblica opinione generi – nel contesto altamente interdipendente in cui viviamo –  un corrispondente (talora opposto) spostamento di accento nella pubblica opinione di un altro paese. Faccio un esempio estremo (perché estrema è la sua insensatezza): immaginiamo che prenda consistenza una qualsiasi delle varie narrazioni di tanto in tanto propinate agli Italiani sul trasferimento ad altri (in qualsivoglia forma) di parte del debito pubblico Italiano; ci sarà senz’altro, nelle opinioni pubbliche dei paesi ipotetici accollatari di questi debiti (contratti nel tempo per sostenere il benessere degli Italiani), chi si allarmerà al punto di attivare vivaci e  contrarie pulsioni miranti ad respingere in radice tali (fantasiose) soluzioni. E anche queste opinioni pubbliche, va da sé, votano, come vota la nostra; e non è azzardato prevedere che voterebbero orientando il proprio paese (o meglio: contribuendo ad orientarlo) verso una politica che tenda a prevenire e contrastare la balzana  prospettiva dell’esempio.
Tutto questo, forse troppo lungo, argomentare, serve solo a dire che – nel contesto altamente interdipendente in cui viviamo – la dinamica delle opinioni pubbliche va sempre rapportata alla dimensione della consociazione europea di cui, per grazia di Dio, siamo (ancora) parte.
Chiunque pensasse, sulla base di sovraeccitate narrative, che l’Italia possa recuperare, non solo una sovranità integrale (cioè indipendente dai trattati internazionali sottoscritti in forza di quella autolimitazione di sovranità normata dalla Costituzione, art. 11), ma anche una sovranità opinionale (nel senso che si possa, senza conseguenze, dire e far pensare qualsiasi cosa ci venga in mente) credo si sbagli profondamente (e pericolosamente). Non esiste più, almeno nell’ Europa di oggi, un confine valligiano per le nostre pubbliche opinioni. Tutto circola, tutto si muove, tutto muove; e, ovviamente, non sempre nelle direzioni che a noi più piacciono, magari suscitando reazioni ostili su argomenti diversi da quelli che hanno transitoriamente affascinato la nostra pubblica opinione. Sarebbe bene che i “formatori” delle pubbliche opinioni nostrane ne tengano conto; non occorre nemmeno innalzare il kagemusha del mercato (l’ombra del guerriero terribile di Akira Kurosawa) per far riflettere sul rapporto fra le parole  e le loro conseguenze.
Roma 17 giugno 2018

martedì 12 giugno 2018

Il popolo e le élites tecnocratiche

Domande in attesa di risposta
(di Felice Celato)
Pare che il Primo Governo della cosiddetta Terza Repubblica abbia cominciato la sua fatica…di governo forse meglio di come esso stesso Governo ama annunciarsi agli Italiani: un discreto esordio internazionale del Presidente del Consiglio, una buona intervista “governante” (Corriere della sera di domenica) del Ministro dell’Economia, un primo sbarco di profughi digerito con parole sbagliate ma con azioni non criticabili, un secondo tentato sbarco efficacemente gestito, invece, ma con parole sbagliate (e le parole sono pietre!) e con azioni criticabili. Se lo iato fra parole ed azioni è il prezzo da pagare per sperare in meglio, mi pare che sia, nel breve periodo, un prezzo tollerabile (in fondo basta solo tapparsi le orecchie). E dunque – salvo emergenze – per un po' eviteremo di occuparci di politica gridata (come abbiamo fatto, con ansia, forse con angoscia, in queste ultime settimane per più di quanto avremmo voluto), tornando ad occuparci, nelle nostre chiacchierate, di cose un po' più profonde del parlare al vento.
Ma, sembrandomi impossibile, agli albori della cosiddetta Terza Repubblica, tacere della nostra società, vorrei tentare un breve ragionamento, prendendomi il rischio di suscitare qualche sdegno, sicuramente civile (ratione loci) ma non per questo meno netto. Proviamo.
Dunque prendiamo le mosse da un assunto che, anch’esso, non sarà largamente condiviso ma del quale sono convinto (e, del resto, qui ne abbiamo accennato più volte): il nostro essere “popolo” ha attraversato negli ultimi decenni una fase di relativo degrado antropologico che vede l’impasto umano che sta alla base della nostra società risultare ad un tempo: ignorante (non è il caso di tornare sui nostri sconsolanti livelli di istruzione), invecchiato (l’Italia – dati Istat al 1° gennaio 2018 – è il secondo paese più vecchio al mondo, con una stima di 168 anziani ogni 100 giovani), mal informato (l’Italia – vedasi l’annuale studio Ipsos MORI The perils of perception, 2017, disponibile in rete – è, fra quelli censiti, il paese Europeo con maggiore scostamento fra percezioni e realtà, il Misperception Index), rancoroso (vedasi Censis, Rapporto sulla situazione sociale del Paese, 2017) e sfiduciato (sempre il Censis, ibidem, col suo linguaggio raffinato, parla di consumo, senza sostituzione di quella passione per il futuro che esorta, sospinge, sprona ad affrettarsi, senza volgersi indietro).
Si potrebbe a lungo discettare sulle modalità attraverso le quali questo degrado è stato accompagnato e favorito dalla “dieta mediatica” offerta dai tempi (e dai media nostrani), fatta apposta – così si direbbe – per sollecitare pulsioni negative e regressive; come pure si potrebbero analiticamente ricostruire le dinamiche politiche di tale corrosione progressiva. Ma sarebbero discorsi vòlti al passato (e l’esame di coscienza l’abbiamo già abbozzato col post Consenso democratico del 3 giugno u.s.) e, qui, invece, vorrei occuparmi di futuro.
Quali sono le ragionevoli vie d’uscita dal presente? De Rita, nel presentare, ieri, alcune sue riflessioni (Per una cultura del governare, nell’ambito dei tradizionali incontri del Censis di metà anno), tenacemente individua possibili strade: tre, intanto, per rifare l’establishment (le élites tecnocratiche, in altre parole) che abbiamo sistematicamente decostruito negli anni (prepararsi a vivere con cultura alta le grandi sfide imposte dai processi di globalizzazione e dai poteri sovranazionali, rivitalizzare senza complessi le appartenenze collettive, ripartire dal territorio); altre, poi, ancora tenere, per mettere a frutto la disarticolazione del welfare state, facendo rotta verso le forme (aziendali, comunitarie, integrative, categoriali, personalizzate, etc.) che hanno via via cominciato a compensare gli scricchiolii del welfare state.
Per parte mia, per quanto mi affascini tutto ciò che mira ad un salutare restringimento dello Stato, non riesco a vedere che cosa potrebbe affermare questi processi che, pure, appassionatamente De Rita identifica (forse un po' trascurando la dimensione Europea del nostro essere popolo). Dunque la mia domanda di poche righe fa (quali sono le ragionevoli vie d’uscita dal presente?) per ora mi rimane senza sicura risposta. Solo in parte mi conforta il pensiero che i processi di adattamento che il nostro Paese pur conosce (De Rita stesso ne è stato, in passato, il “cantore”) richiedono tempi lunghi e lavoro intenso; il secondo, storicamente alla nostra portata; i primi, compromessi, invece, dal nostro presentismo (l’espressione è anch’essa di De Rita, maestro del nuovo lessico sociologico, cfr. G. De Rita e A. Galdo: Prigionieri del presente, Einaudi, 2018) o, se volete rifarvi al meno ottimista Orsina, dal narcisismo delle nuove cittadinanze (in fondo i due concetti sono molto vicini). Vedremo, come pure vedremo se quelle sono le vie giuste per uscire dal presente, che mi pare necessiti di azioni.
Roma 12 giugno 2018.






domenica 10 giugno 2018

Anniversario triste

10 giugno 1940
(di Felice Celato)
“Combattenti di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili.
La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l'esistenza medesima del popolo italiano….
È la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto….
E salutiamo alla voce il Führer, il capo della grande Germania alleata. L'Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai.
La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo.”
Così tuonava il Duce, quel fatidico giorno di 78 anni fa, di fronte al popolo plaudente, entusiasta di tanto vigore che finalmente erompeva dai petti, mai come allora così distanti dalle teste.
Quella stessa sera, il Conte Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri e genero del Duce, dopo aver consegnato agli Ambasciatori di Francia e di Inghilterra la formale dichiarazione di guerra, annotava scettico, su quello che divenne poi il suo famoso Diario: Io sono triste, molto triste. L’avventura comincia. Che Dio assista l’Italia.
Come andò a finire, lo sappiamo tutti e non è il caso di tornarci sopra.
Il controverso personaggio del Conte Galeazzo Ciano incarnava la faccia mondana, garbata, salottiera, certamente non violenta, vanitosa e un po' snob  del fascismo (così scrive di lui Montanelli – che ben lo conosceva anche personalmente – in una sua rubrica sul Corriere della sera del 22 settembre del 2000). Un tipo di profilo umano e storico che – per la verità – personalmente non amo troppo, ancorché diffusissimo, specialmente nelle stanze del potere romano (ovviamente, quelle della prima e seconda Repubblica, s’intende). Eppure, bisogna riconoscerlo a merito di Ciano, anche lui, qualche anno dopo, riscattava la sua pavida soggezione al suocero, pagando con la vita la propria tardiva presa di distanza dal Duce, firmando (e alcuni dicono addirittura promuovendo)il famoso ordine del giorno Grandi che, il 24 luglio del 1943, accelerò la caduta del fascismo: processato a Verona dai “giudici” della Repubblica di Salò, fu condannato per alto tradimento e fucilato non ostanti le intercessioni della moglie Edda Mussolini e la domanda di grazia che, pare, venne addirittura tenuta celata al Duce da coloro che in tanti anni, al Conte, avevano invidiato la posizione di presunto delfino del Duce. Morì dignitosamente, come scrive Montanelli; come, forse, fino al 25 luglio, non era vissuto, per il troppo amore del suo ruolo e per un certo suo spirito cortigiano, che – dove alligna – nuoce persino a chi il cortigiano lusinga.
Così va il mondo; o meglio (per dirla con Alessandro Manzoni) così andava ai tempi di Mussolini e del Conte Ciano. Per fortuna, oggi di petti arditi non ce n’è (quanto meno in orbace); di decisioni irrevocabili nemmeno (anzi, si proclama tutto e il contrario di tutto); è vero, l’Italia è sempre forte, fiera e compatta, ma dal balcone di piazza Venezia non si vedono più adunate oceaniche (semmai  solo buche diffuse, ma nessuna camicia nera); e, quanto alle folle plaudenti in tutto il Paese, oggi c’è la rete, un succedaneo meno rumoroso e - ne sono certo - più pensoso: il popolo è al riparo da abbagli clamorosi, il suo alleato non è più il perfido Führer, il capo della grande Germania; anzi, oggi, la Germania è la nostra vera nemica, oggi abbiamo con noi Trump e Orban, perbacco! E la Russia non è più quella di Stalin, oggi c’è l’amico Putin. E dunque non abbiamo ragione di temere la rievocazione di questo triste anniversario; ci basti solo sperare, col Conte, che Dio assista l’Italia.
Roma 10 giugno 2018

giovedì 7 giugno 2018

Le disavventure del C.U.R./ 2

Pedagogia del perdono
(di Felice Celato)
Dunque eccomi qui con una nuova disavventura del vostro Camminatore Urbano Rimuginante (dopo quella del 15 novembre scorso, raccontatavi a caldo col titolo gaddiano Quer pasticciaccio de piazza di Spagna).  L’altra sera, mancandomi solo 1.800 passi per raggiungere il mio target quotidiano (10.000 passi), poco prima di cena ho deciso di fare una passeggiata integrativa del moto pregresso. E così mi sono avviato lungo una strada alberata nel quartiere dove abito; e, mentre camminavo,  ovviamente rimuginavo, stavolta su un libro appena finito di leggere, di uno degli scrittori contemporanei che più amo: Eric Emmanuel Schmitt. Il libro (La vendetta del perdono) è appena uscito per i tipi delle Edizioni e/o e sviluppa, in quattro lunghi racconti, una tesi paradossale: come, cioè, il perdono possa, in certe situazioni, finire per costituire una raffinata forma di vendetta.
Mentre ragionavo sul tema, passando sotto un albero rivestito di denso fogliame, davo una solenne craniata su un ramo nascosto fra le foglie a distanza da terra non compatibile col mio quasi un metro e novanta (coi tacchi), sconciandomi orrendamente il cranio, per il quale – per prevalenti ragioni non estetiche – ho di solito molta cura. Confesso di essermi, lì per lì, abbandonato ad espressioni poco lusinghiere (e forse anche poco urbane) nei confronti dell’Amministrazione Comunale di Roma, impersonificata – come ormai è deplorevole uso nella nostra città – dalla nostra (poco amata ma graziosa) sindaca Virginia Raggi.
Dopo tale traumatico impatto con la realtà dell’ordinaria incuria cittadina, tamponandomi con un fazzoletto il sangue, ho accorciato il programmato percorso è ho fatto di nuovo vela verso casa (per almeno disinfettarmi). Con l’attenuarsi del dolore ed il placarsi del verboso sdegno, mentre camminavo mi sono tornate in mente le considerazioni che stavo facendo sul libro di Schmitt e – da (aspirante) buon cattolico – ho cercato dentro di me le ragioni per perdonare l’ottima Virginia.
E, effettivamente, le ho trovate (confesso: attingendo più alla ragione che al dettato evangelico; che però coincidono, ma sarebbe lungo discettare al riguardo). Insomma, mi sono detto, povera Virginia! Mentre stanno ancora arrivando i branchi di pecore che – nella sua squisita sensibilità ecologica – ha destinato alla tosatura dei giardini pubblici, come volete che possa ancora aver attuato l’altra parte del suo geniale programma: l’acquisizione di giraffe per la potatura dei rami più alti! Le giraffe non si trovano facilmente da noi, le avrà ordinate dall’Africa, le staranno ancora imbarcando in diverse giraffe-carriers, le apposite navi che riforniscono tutti i paesi europei dei preziosi mammiferi artiodattili per curare le piante di mezzo continente! Ci vuole un po' di pazienza, i romani possono aspettare ( e poi quelli alti quasi uno e novanta non sono molti, andiamo! E non tutti sono pelati!), e dunque: pazienza e perdono!
Nei pochi passi che mi separavano da casa, poi, mentre mettevo un piede in fallo su una delle numerosissime buche che hanno trasformato ogni camminata romana in un percorso di guerra, ho sviluppato un’altra applicazione della nuova policy mammifero-centrica: le deiezioni, le (inutile nasconderselo) inevitabili deiezioni delle giraffe, non potrebbero essere utilmente applicate alla copertura delle buche? Prima di passare l’idea alla nostra solerte Virginia, però, ho voluto mettervi a parte delle mie riflessioni, perché, magari, qualche altra idea viene anche voi (per esempio: delle nutrie, che uso se ne potrebbe fare?) e, insieme, potremmo mettere a punto il piano di salvataggio di Roma di cui anche l’ottima sindaca potrebbe avvantaggiarsi nella seconda parte della sua sovrana reggenza dell’Urbe. Se vi vengono idee, non esitate a segnalarmele, voglio farmi perdonare le espressioni usate nell’immediatezza dello sfregio del capo, fornendo un contributo di pensiero di umili cittadini.
Roma 7 maggio 2018

martedì 5 giugno 2018

Risfogliando

Ortega y Gasset
(di Felice Celato)
Il libro di Giovanni Orsina di cui abbiamo accennato negli ultimi due post mi ha suscitato la curiosità di riprocurarmi il libro di Josè Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, che avevo letto tanti, tanti anni fa (ne sono certo, perché ce lo "prescrisse" un nostro professore: primo anno di Università, dunque cinquant'anni fa). E risfogliandolo a caso, mi è balzata agli occhi la pagina che vi trascrivo, presa dal capitolo Il maggior pericolo: lo Stato.
Prima, però, per coloro che non conoscano Ortega, giova spendere due parole sul personaggio: nato a Madrid sul finire dell’800 e morto nel 1955, il filosofo spagnolo, visse, in gioventù, sotto la dittatura di de Rivera, assistette alla salita al potere di Mussolini (1922) e, scrivendo il suo libro fra il 1927 e il 1930, fiutò nell’aria la strada che avrebbe preso la Germania (dove, fra l’altro, studiò ed insegnò). Cattolico di formazione (studiò dai Gesuiti), è stato uno dei maggiori intellettuali della prima metà del secolo scorso. Non occorre legge[re La ribellionecon troppa attenzione (scrive Orsina) per constatare come, se in effetti [Ortega] è fermamente convinto che nessuna società possa vivere senza aristocrazie, egli riconduca la crisi di cui è testimone al fallimento delle élite.
E’ stata proprio questa citazione ad indurmi a ri-sfogliare il libro, sulla scia di quanto mi pare implicato dal nostro presente; so che alcuni di voi non mi crederanno: è stata solo una fortunata coincidenza che vi abbia trovato questo brano, che mi pare ”scolpisca” con grande efficacia il senso di una parola (statolatria) che, qui, mi è capitato di usare più volte riferendomi ai nostri (non recenti) mali. Ecco che cosa scrive Ortega: Nel nostro tempo, lo Stato è giunto a essere una macchina formidabile che funziona prodigiosamente, di una meravigliosa efficienza per la quantità e la precisione dei mezzi impiegati. Piantata nel mezzo della società, basta schiacciare un bottone perché agiscano le sue enormi leve e operino fulmineamente sopra qualsiasi parte del corpo sociale. Lo Stato contemporaneo è il prodotto più visibile e clamoroso della civiltà. Ed è particolarmente interessante, e rivelatore, capire l’atteggiamento che dinanzi ad esso assume l’uomo-massa. Costui vede lo Stato, lo ammira, sa che c’è, perché gli assicura la vita; ma non ha coscienza che è una creazione umana, sostenuta da determinate virtù, da determinati presupposti che ieri vissero nel cuore degli uomini e che domani potrebbero svanire.
D’altra parte, l’uomo-massa vede nello Stato un potere anonimo, e sente anche se stesso come anonimo - volgo - e crede che lo Stato gli appartenga. Immaginiamo che nella vita pubblica di un paese qualsiasi nasca una difficoltà, un conflitto, un problema: l’uomo-massa pretenderà che immediatamente se lo assuma lo Stato, che si incarichi direttamente di risolverlo con i suoi giganteschi e invincibili mezzi.
Questo è il maggior pericolo che oggi minaccia la civiltà: la statificazione della vita, l’interventismo dello Stato, il suo assorbimento di ogni spontaneità sociale, ossia l’annullamento della spontaneità storica che in definitiva sostiene, nutre, vivifica il destino degli uomini. Quando la massa avverte l’incombere di qualche sventura, o semplicemente quando nutre qualche forte appetito, subisce la grande tentazione di questa permanente, sicura possibilità di avere tutto - senza sforzo né lotta, né dubbio, né rischio - senza far altro che premere un bottone e far funzionare la portentosa macchina. La massa dice a se stessa: “ lo Stato sono io”, e questo è un clamoroso errore. Lo Stato coincide con la massa soltanto nel senso in cui può dirsi che due uomini sono identici per il semplice fatto che nessuno dei due si chiama Giovanni. Stato contemporaneo e massa coincidono solo nel loro essere anonimi. Ma l’uomo-massa crede effettivamente di essere lo Stato, e tenderà sempre più a farlo funzionare, con qualsiasi pretesto, per schiacciare ogni minoranza creatrice che possa perturbarlo nella politica, nelle idee, nell’industria.
[Per chi fosse preso da curiosità, l’ultima riedizione italiana de La ribellione delle masse, credo sia quella edita da SE nel 2001, dalla quale ho copiato il brano, pg 143-144, nella traduzione di Salvatore Battaglia e Cesare Greppi]
Roma 5 giugno 2018

domenica 3 giugno 2018

Consenso democratico

Esame di coscienza
 (di Felice Celato)
Il consenso è l’essenza della democrazia. E – credo di poter dire – pochi governi nella storia Italiana più recente hanno goduto di un consenso così robusto come quello di cui si giova l’attuale governo. Robusto non tanto in senso numerico (che pure lo è, in Parlamento e, quel che è più importante, nel Paese); quanto, piuttosto, nel senso etimologico della parola [robusto = dal latino robustus, derivato da robur, cioè quercia; e quindi: vigoroso, duro, forte, sodo] che rimanda, appunto, alle radici primigenie del vigore (che su noi Italiani hanno spesso suscitato entusiasmi; del resto, non c’era di questo anche nel fascismo?), magari a discapito delle complicate alchimie liberali del “comprendere per deliberare”, che – da noi – hanno spesso assunto un flavour…poco virile, finendo per apparire indugio dell’azione risoluta.
Torniamo alla robustezza del consenso di cui sembra godere l’attuale governo: vigore nel consenso e consenso nel vigore. Il consenso, si sa, per sua natura, ha bisogno anzitutto di una sua larga base (il cosiddetto popolo, che poi, nel caso concreto, è duplice, il popolo del Sud e il popolo del Nord, ciascuno con le proprie istanze, in parte sovrapponibili, non foss’altro per il metodo di dragaggio del consenso su cui sono costruite; in parte “filosoficamente” contraddittorie); ed ha anche bisogno di un suo durevole supporto: i media e soprattutto la TV lo hanno “culturalmente” assicurato da tempo (vedasi l’articolo di Andrea Minuz su Il Foglio del 2/3 giugno, che ben descrive quel che è “passato” nelle televisioni Italiane nei tempi recenti; la crisi antropologica del paese affonda le sue radici anche in questo). Ma – inutile negarlo – il consenso postula anche un suo fondamento diffuso, un suo punto di appoggio: nel nostro caso, credo di poter dire, il disagio socio-economico, effettivo (basta guardare i dati sulla povertà in Italia, di cui, qui, al post Defendit numerus/17 del 21 gennaio u.s.) o percepito che sia ( Der Spiegel, l’altro giorno, metteva a malizioso raffronto la ricchezza media delle famiglie Italiane con quella delle famiglie tedesche, facendo notare come, in realtà, siamo messi meglio, noi che ci professiamo vessati dal rigore tedesco sulle regole del bilancio pubblico); è un fatto però che non ci sarebbe il diffuso rancore che pervade la società Italiana (De Rita) se non ci fosse disagio mal curato (e magari mal capito)  e anche oscura paura, del presente o del futuro; anche questa: relativamente fondata o infondata che sia. E non c’è dubbio che la questione immigrazione (a torto o a ragione connessa col confuso concetto di globalizzazione, come del resto avviene non solo da noi) abbia decisivamente concorso a coagulare questa oscura paura, naturalmente (perché il fenomeno è comunque serio) o mediaticamente (perché la percezione che se ne è creata deforma largamente il senso dei numeri e della sostanza).
E’ doveroso, allora, domandarsi chi abbia favorito il nascere di questa profonda inquietudine che ha trasformato in pochi anni, tanto per fare un esempio eloquente, la quarta regione rossa d’Italia (le mie Marche) in una roccaforte della Lega e del Movimento 5 Stelle. Non può non balzare agli occhi la responsabilità di coloro che, magari proclamandosi popolo, hanno finto di essere élites senza esserlo, né dal punto di vista intellettuale né da quello fattuale; che, fingendosi europeisti, hanno minato con parole, opere ed omissioni il nostro senso dell’Europa; che fingendosi guide non hanno saputo esercitare nessuna solida leadership: per intenderci, i  Renzi e i Berlusconi degli ultimi anni. Se ci troviamo a vivere, come notava Panebianco sul Corriere della sera di ieri, una variante italica delle “forti” esperienze politiche del Sud America, la responsabilità politica del presente non può che ricondursi al loro futile dominio delle polarità italiane negli anni scorsi; ma anche al mancato, tempestivo e deciso smarcamento delle cosiddette élites dalle pretese di ricomprenderle in quelle polarità.
Da questo esame di coscienza, certamente da approfondire e da affinare (e non ne mancherà il tempo, visto che il presente ha tutta l’aria di non essere transitorio, perché l’esercizio del potere può anche diluire le differenze “filosofiche”), da questo esame di coscienza, dicevo, dipende largamente, secondo me, la possibilità di un riequilibrio dei sensi e delle ragioni e – quel che è essenziale nel presente dell’Europa – di un recupero di una vocazione Europea che – perbacco! – non può essersi dissolta nel rancore per la nostra stessa incapacità di gestire la nostra appartenenza e nei nostri complessi cisalpini.
Scrive Orsina - nel libro qui segnalato con l’ultimo post – che occorre un certo ottimismo antropologico per coltivare la speranza che quanti abitano le democrazie conservino un patrimonio sufficientemente consistente di realismo, ragionevolezza, pazienza e moralità. Non mi viene naturale appoggiarmi su tale ottimismo antropologico, che vale – beninteso – anche per le forze che si apprestano a governare il paese, auspicabilmente deponendo per un po' i loro slogan di bandiera. Ma è necessario. E forse non impossibile. 
Roma, 3 giugno 2018








venerdì 1 giugno 2018

Letture con antidoto

2 giugno 2018
(di Felice Celato)
Nel giorno che precede il 72° compleanno della nostra Repubblica (che, non ostante l’età, continua a partorire figlie delle quali non potrà che essere… orgogliosa) e, appunto, nel 1° giorno di vita della sua terzogenita (la Terza Repubblica, perbacco!), parliamo di due libri, di natura e segno  completamente diversi fra loro ma entrambi “utili” – in diverso modo – in questi tempi turbati.
Cominciamo con La democrazia del narcisismo di Giovanni Orsina (Marsilio, 2018), una breve storia dell’antipolitica, come recita il sottotitolo: si tratta, secondo me, di un libro intelligente nel senso letterale della parola, che si sforza cioè di capire la degenerazione della nostra politica, anzi della nostra antropologia  politica, dai primi anni del ‘900 fino ai dì nostri. E lo fa, attraversando la storia politica di questi cent’anni nella “compagnia” di tre “monumenti” della cultura (quasi) contemporanea: La democrazia in America, di Alexis de Tocqueville (scritto fra il 1835 e il 1840), La ribellione delle masse di Josè Ortega y Gasset (scritto nel 1929) e, infine, Massa e potere di Elias Canetti (pubblicato nel 1960 ma scritto durante i quarant’anni precedenti) [NB: preciso per onestà culturale: non ho mai letto direttamente Tocqueville, ho letto con interesse Ortega e, invece, ho letto e molto amato il libro di Canetti, qui più volte citato]. Il “viaggio” di Orsina (lui stesso lo sintetizza nell’Epilogo) muove dalla “promessa” democratica del pieno controllo di ciascuno sulla propria esistenza, ne individua l’insita contraddizione (per far sì che gli individui controllino la loro esistenza…è necessario che la comunità alla quale essi appartengono governi la propria…di modo che chi ne fa parte rinunci ad una quota della propria autonomia) e la postulate condizioni (che parole quali “rinuncia” e “servizio” abbiano un senso; che vi sia una visione condivisa del futuroe che identità, ragione ed interessi non si chiudano esclusivamente dentro lo spazio isolato di ciascuna monade individuale). Ed arriva, infine, attraverso varie vicende che Orsina rivisita con grande acume, all’avvento del narcisista, al cittadino centrato su sé stesso, incapace di percepire la propria persona e la realtà come due entità separate e autonome l’una dall’altra, di distinguere il dentro dal fuori, l’oggettivo dal soggettivo, interessato solo a soddisfare le proprie urgenze psicologiche immediate, impotente e pauroso, ricco di tutti i talenti meno il talento di usarli. Il narcisista in conclusione – scrive Orsina– è un disgraziato: rifugiatosi dentro un “sé minimo”, il suo vero modesto scopo è la pura e semplice sopravvivenza, in un mondo che trova oramai del tutto privo di senso. Egli vive in un eterno presente: ha perduto il legame con le generazioni precedenti e, di conseguenza, non può che disinteressarsi di quelle successive.
Da qui alla decomposizione della politica, risoltasi in tutela delle aspettative del narcisista, il passo è breve; come è breve – ma vale la pena di leggere Orsina, anche su questi passaggi – quello che conduce al dilagare dell’antipolitica e alla conseguente dinamica delle masse di Canettiana memoria che tanti segni (non commendevoli)  ha lasciato nel nostro paese.
Un libro dunque (come dicevo) intelligente, colto e ben scritto; certo non consolante, come in fondo anche l’autore finisce per ammettere quando avanza quattro timidi possibili sbocchi. Ma, del resto, consolazioni dall’antropologia politica, di questi tempi, non ne aspettiamo.
E dunque, per affidare a pietose mani il nostro sconforto, eccoci alla seconda lettura, in qualche modo antidotica, questa, da gustarsi con lentezza perché il libro non sviluppa una tesi da cogliersi nella sua interezza, ma lancia bagliori di luce a vasto raggio, da leggere anche (ma non solo) con l’occhio della fede. Si tratta di una lunghissima intervista a Joseph Ratzinger raccolta da Peter Sewald nel 2000, quando il card. Ratzinger era ancora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e questa ancora non si occupava di high frequency trading, di securitizations, di compliance, di tassazione delle transazioni finanziare e di consimili banalità, ma di Dio, di Gesù Cristo e della Verità. Dio e il mondo (questo è il titolo del libro, pubblicato nel 2001 dalle edizioni san Paolo) è una testimonianza di una vita dedicata allo studio, alla riflessione e allo sviluppo della fede; non è un libro di teologia e può essere letto anche solo guidati dalla curiosità per questo grande cristiano che ha guidato la Chiesa, per un breve tratto della sua bi-millenaria storia,  con amore, cultura profonda e raffinata, mitezza, umiltà  e salda certezza che il Signore non abbandonerà la Sua Chiesa, anche se a volte – come ebbe a dire più tardi, da papa emerito – la barca di Pietro si è riempita fino quasi a capovolgersi.
Roma 1° giugno 2018

PS: Toh! non abbiamo parlato di quanto ci ha occupato, in Italia, negli ultimi cento giorni. In fondo però il libro di Orsina può aiutarci a capire il senso di quello che accade; e quello di Sewald a beneficamente distrarcene.