Esame di coscienza
(di Felice Celato)
Il consenso è l’essenza della democrazia. E – credo di poter dire – pochi governi nella storia Italiana più recente hanno goduto di un consenso così robusto come quello di cui si giova l’attuale governo. Robusto non tanto in senso numerico (che pure lo è, in Parlamento e, quel che è più importante, nel Paese); quanto, piuttosto, nel senso etimologico della parola [robusto = dal latino robustus, derivato da robur, cioè quercia; e quindi: vigoroso, duro, forte, sodo] che rimanda, appunto, alle radici primigenie del vigore (che su noi Italiani hanno spesso suscitato entusiasmi; del resto, non c’era di questo anche nel fascismo?), magari a discapito delle complicate alchimie liberali del “comprendere per deliberare”, che – da noi – hanno spesso assunto un flavour…poco virile, finendo per apparire indugio dell’azione risoluta.
Torniamo alla robustezza del consenso di cui sembra godere l’attuale governo: vigore nel consenso e consenso nel vigore. Il consenso, si sa, per sua natura, ha bisogno anzitutto di una sua larga base (il cosiddetto popolo, che poi, nel caso concreto, è duplice, il popolo del Sud e il popolo del Nord, ciascuno con le proprie istanze, in parte sovrapponibili, non foss’altro per il metodo di dragaggio del consenso su cui sono costruite; in parte “filosoficamente” contraddittorie); ed ha anche bisogno di un suo durevole supporto: i media e soprattutto la TV lo hanno “culturalmente” assicurato da tempo (vedasi l’articolo di Andrea Minuz su Il Foglio del 2/3 giugno, che ben descrive quel che è “passato” nelle televisioni Italiane nei tempi recenti; la crisi antropologica del paese affonda le sue radici anche in questo). Ma – inutile negarlo – il consenso postula anche un suo fondamento diffuso, un suo punto di appoggio: nel nostro caso, credo di poter dire, il disagio socio-economico, effettivo (basta guardare i dati sulla povertà in Italia, di cui, qui, al post Defendit numerus/17 del 21 gennaio u.s.) o percepito che sia ( Der Spiegel, l’altro giorno, metteva a malizioso raffronto la ricchezza media delle famiglie Italiane con quella delle famiglie tedesche, facendo notare come, in realtà, siamo messi meglio, noi che ci professiamo vessati dal rigore tedesco sulle regole del bilancio pubblico); è un fatto però che non ci sarebbe il diffuso rancore che pervade la società Italiana (De Rita) se non ci fosse disagio mal curato (e magari mal capito) e anche oscura paura, del presente o del futuro; anche questa: relativamente fondata o infondata che sia. E non c’è dubbio che la questione immigrazione (a torto o a ragione connessa col confuso concetto di globalizzazione, come del resto avviene non solo da noi) abbia decisivamente concorso a coagulare questa oscura paura, naturalmente (perché il fenomeno è comunque serio) o mediaticamente (perché la percezione che se ne è creata deforma largamente il senso dei numeri e della sostanza).
E’ doveroso, allora, domandarsi chi abbia favorito il nascere di questa profonda inquietudine che ha trasformato in pochi anni, tanto per fare un esempio eloquente, la quarta regione rossa d’Italia (le mie Marche) in una roccaforte della Lega e del Movimento 5 Stelle. Non può non balzare agli occhi la responsabilità di coloro che, magari proclamandosi popolo, hanno finto di essere élites senza esserlo, né dal punto di vista intellettuale né da quello fattuale; che, fingendosi europeisti, hanno minato con parole, opere ed omissioni il nostro senso dell’Europa; che fingendosi guide non hanno saputo esercitare nessuna solida leadership: per intenderci, i Renzi e i Berlusconi degli ultimi anni. Se ci troviamo a vivere, come notava Panebianco sul Corriere della sera di ieri, una variante italica delle “forti” esperienze politiche del Sud America, la responsabilità politica del presente non può che ricondursi al loro futile dominio delle polarità italiane negli anni scorsi; ma anche al mancato, tempestivo e deciso smarcamento delle cosiddette élites dalle pretese di ricomprenderle in quelle polarità.
Da questo esame di coscienza, certamente da approfondire e da affinare (e non ne mancherà il tempo, visto che il presente ha tutta l’aria di non essere transitorio, perché l’esercizio del potere può anche diluire le differenze “filosofiche”), da questo esame di coscienza, dicevo, dipende largamente, secondo me, la possibilità di un riequilibrio dei sensi e delle ragioni e – quel che è essenziale nel presente dell’Europa – di un recupero di una vocazione Europea che – perbacco! – non può essersi dissolta nel rancore per la nostra stessa incapacità di gestire la nostra appartenenza e nei nostri complessi cisalpini.
Scrive Orsina - nel libro qui segnalato con l’ultimo post – che occorre un certo ottimismo antropologico per coltivare la speranza che quanti abitano le democrazie conservino un patrimonio sufficientemente consistente di realismo, ragionevolezza, pazienza e moralità. Non mi viene naturale appoggiarmi su tale ottimismo antropologico, che vale – beninteso – anche per le forze che si apprestano a governare il paese, auspicabilmente deponendo per un po' i loro slogan di bandiera. Ma è necessario. E forse non impossibile.
Roma, 3 giugno 2018
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