Pedagogia del perdono
(di Felice Celato)
Dunque eccomi qui con una nuova disavventura del vostro Camminatore Urbano Rimuginante (dopo quella del 15 novembre scorso, raccontatavi a caldo col titolo gaddiano Quer pasticciaccio de piazza di Spagna). L’altra sera, mancandomi solo 1.800 passi per raggiungere il mio target quotidiano (10.000 passi), poco prima di cena ho deciso di fare una passeggiata integrativa del moto pregresso. E così mi sono avviato lungo una strada alberata nel quartiere dove abito; e, mentre camminavo, ovviamente rimuginavo, stavolta su un libro appena finito di leggere, di uno degli scrittori contemporanei che più amo: Eric Emmanuel Schmitt. Il libro (La vendetta del perdono) è appena uscito per i tipi delle Edizioni e/o e sviluppa, in quattro lunghi racconti, una tesi paradossale: come, cioè, il perdono possa, in certe situazioni, finire per costituire una raffinata forma di vendetta.
Mentre ragionavo sul tema, passando sotto un albero rivestito di denso fogliame, davo una solenne craniata su un ramo nascosto fra le foglie a distanza da terra non compatibile col mio quasi un metro e novanta (coi tacchi), sconciandomi orrendamente il cranio, per il quale – per prevalenti ragioni non estetiche – ho di solito molta cura. Confesso di essermi, lì per lì, abbandonato ad espressioni poco lusinghiere (e forse anche poco urbane) nei confronti dell’Amministrazione Comunale di Roma, impersonificata – come ormai è deplorevole uso nella nostra città – dalla nostra (poco amata ma graziosa) sindaca Virginia Raggi.
Dopo tale traumatico impatto con la realtà dell’ordinaria incuria cittadina, tamponandomi con un fazzoletto il sangue, ho accorciato il programmato percorso è ho fatto di nuovo vela verso casa (per almeno disinfettarmi). Con l’attenuarsi del dolore ed il placarsi del verboso sdegno, mentre camminavo mi sono tornate in mente le considerazioni che stavo facendo sul libro di Schmitt e – da (aspirante) buon cattolico – ho cercato dentro di me le ragioni per perdonare l’ottima Virginia.
E, effettivamente, le ho trovate (confesso: attingendo più alla ragione che al dettato evangelico; che però coincidono, ma sarebbe lungo discettare al riguardo). Insomma, mi sono detto, povera Virginia! Mentre stanno ancora arrivando i branchi di pecore che – nella sua squisita sensibilità ecologica – ha destinato alla tosatura dei giardini pubblici, come volete che possa ancora aver attuato l’altra parte del suo geniale programma: l’acquisizione di giraffe per la potatura dei rami più alti! Le giraffe non si trovano facilmente da noi, le avrà ordinate dall’Africa, le staranno ancora imbarcando in diverse giraffe-carriers, le apposite navi che riforniscono tutti i paesi europei dei preziosi mammiferi artiodattili per curare le piante di mezzo continente! Ci vuole un po' di pazienza, i romani possono aspettare ( e poi quelli alti quasi uno e novanta non sono molti, andiamo! E non tutti sono pelati!), e dunque: pazienza e perdono!
Nei pochi passi che mi separavano da casa, poi, mentre mettevo un piede in fallo su una delle numerosissime buche che hanno trasformato ogni camminata romana in un percorso di guerra, ho sviluppato un’altra applicazione della nuova policy mammifero-centrica: le deiezioni, le (inutile nasconderselo) inevitabili deiezioni delle giraffe, non potrebbero essere utilmente applicate alla copertura delle buche? Prima di passare l’idea alla nostra solerte Virginia, però, ho voluto mettervi a parte delle mie riflessioni, perché, magari, qualche altra idea viene anche voi (per esempio: delle nutrie, che uso se ne potrebbe fare?) e, insieme, potremmo mettere a punto il piano di salvataggio di Roma di cui anche l’ottima sindaca potrebbe avvantaggiarsi nella seconda parte della sua sovrana reggenza dell’Urbe. Se vi vengono idee, non esitate a segnalarmele, voglio farmi perdonare le espressioni usate nell’immediatezza dello sfregio del capo, fornendo un contributo di pensiero di umili cittadini.
Roma 7 maggio 2018
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