domenica 30 luglio 2017

Stupi-diario del caldo torrido

Il libro dei Re e i Rampolli
(di Felice Celato)
Narra il Primo libro dei Re (il brano – 3, 5 e sgg. – ha costituito la prima lettura per coloro che oggi sono andati a Messa) che, a Gàbaon, il Signore apparve in sogno a Salomone (siamo, secondo la cronologia biblica, attorno al 970 a. C. e il Primo Tempio – il cosiddetto Tempio di Salomone, appunto – non era stato ancora costruito a Gerusalemme) dicendogli: “Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda.” Il buon re Salomone, figlio di Davide, Gli rispose: “….Signore, mio Dio, Tu hai fatto regnare il Tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene, io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi…. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al Tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo Tuo popolo così numeroso?”.
La vigorosa predica del solito p. De Bertolis ha spaziato su altri temi; ma le molte suggestioni del suo franco argomentare non mi hanno impedito – dopo la Messa e nel caldo torrido romano – di vagare con la fantasia… per altri lidi, complice il pisolino pomeridiano.
Così ho immaginato che il Signore voglia, di notte, apparire, magari in quel di Rignano sull’Arno, ad un nostro insonne aspirante al regno, giovane anche lui come Salomone, rampollo di una nobile schiatta di governanti e desideroso, anche lui, di edificare un tempio, stavolta però a Roma e a sua propria e perenne glorificazione. Certo il povero Signore avrà dovuto aspettare a lungo che l’insonne, agitato rampollo prendesse sonno, così agitato com’ è sempre per via delle sue verbose fatiche quotidiane; ma alla fine – come è ovvio, perché quel che il Signore si mette in testa alla fine Gli riesce – alla fine dicevo il Rampollo prese sonno e il Signore riuscì a porgli in sogno la richiesta di una domanda.
Che cosa avrà chiesto, il Rampollo? Un cuore docile, per rendere giustizia al…. popolo e …. distinguere il bene dal male? Temo di no, perché il Rampollo, come ogni Rampollo che oggi si rispetti, certamente - per quanto giovane - ritiene di sapere come governare…. un popolo così numeroso; e quanto al distinguere il bene dal male certamente ritiene di sapere già il fatto suo, senza dover ricorrere ad aiuti di chicchessia (e del resto, si sa, distinguere il bene dal male è cosa facile!). Quello che, invece, gli serve ( e lui sa bene quello che gli serve) è il bene prezioso cui aspira da qualche tempo ma che ora gli pare continuamente sfuggente, nonostante lo insegua ogni giorno, con indomita costanza. “Se il Signore potesse (e si sa che può!), se il Signore volesse (e questo è più difficile da capire!) beh, certamente, anche a questo indegno Rampollo (un po’ di modestia ci vuole sempre, almeno col Signore!), qualcosa  gli servirebbe: una faccia credibile, una faccia nuova, che cancelli quella patina di scaltrezza (c’è un termine romano per dirlo meglio, ma davanti al Signore non oserei mai prendere prestiti dal volgo) che io stesso Rampollaccionemi sono dato a piene mani sul volto per prendere un tono che – così pensavo – sarebbe tanto piaciuto ad un popolo così numeroso e da sempre  così affascinato dagli….scaltri. Ecco, Signore, dammi questa nuova faccia e, vedrai che poi a distinguere il bene dal male me la cavo da solo, magari mi faccio dare una mano da qualche amico mio compaesano.”
Non sappiamo ancora come il Signore abbia preso questa strana richiesta, che deve esserGli parsa una tipica istanza del mondo delle immagini. E quindi non facciamo pronostici, chè, poi, col Padreterno non ci si azzecca mai (le sue vie non sono le nostre vie).
Comunque, ho pensato poi al termine di questa curiosa divagazione para-onirica, il Rampollo non scriverà Salmi (non mi pare proprio portato, come invece lo era il buon Re Salomone); ma, ne sono certo, con una nuova faccia (se il Signore lo esaudirà) e quindi senza la patina di scaltrezza che si era data, farà sua la frase che il libro dei Proverbi (10,19) attribuisce a Salomone: Nel molto parlare non manca la colpa, chi frena le labbra è saggio. Ne sono certo, la farà sua. Voi no?

Roma, 30 luglio 2017

sabato 29 luglio 2017

Fili contorti

Impressioni da una vacanza
(di Felice Celato)
Difficile dire, dopo una breve incursione in terre per me sconosciute e anche culturalmente assai trascurate, che cosa riporto da questi sette giorni, senz’altro piacevoli, di vacanza Dalmata e Bosniaca: l’apparente tolleranza di una città ancora segnata dalla guerra recente, Sarajevo; il cimitero ebraico sefardita che la sovrasta, deserto completamente (solo due cuccioli di cane ci hanno fatto compagnia); il tunnel (in piccola parte ancora percorribile) scavato a mano per sfuggire all’accerchiamento dei feroci compatrioti; tanta gente in giro, donne vestite secondo il costume mussulmano più severo, accanto a donne vestite (meglio: svestite) all’occidentale; l’impronta turca, anche nel cibo; in molti ristoranti non si servono alcolici; la piena modernità del centro commerciale dove si trovano tutte le cose che ci sono da noi.
Poi, il ponte di Mostar e le strade terribili per andare verso la costa Montenegrina, le bellissime Bocche di Cattaro (Kotor), anche queste piene di gente, depositata a valanghe da enormi navi crociera, l’isola con la chiesa del miracolo, l’isola col cimitero, Perast, gente simpatica. E poi, su verso la Croazia del gioiello veneziano Ragusa (Dubrovnich), iper-affollata, tenuta benissimo, persino le pietre che lastricano le strade storiche sono lucide; e infine Spalato, moderna e affollata anch'essa, un porto turistico vivace ma cresciuta attorno al mausoleo del più feroce persecutore dei cristiani, l’Imperatore Diocleziano (nato lì vicino), diventato santuario dei martiri (splendide ironie della storia, sottolinea un depliant venduto alla porta della chiesa); ovunque tanta gente, masse di turisti che ci ricordano quanto la massa sia diventata la naturale dimensione del viaggiare; le memorie della guerra, finita meno di venticinque anni fa, un po’ dovunque, nei tanti cimiteri, nei confini arcigni, in qualche traccia ancora visibile di quella straordinaria esplosione di odio fratricida che vorrò ri-studiare quest’inverno.
In questi sette giorni assolati e affollati, pochi contatti con l’Italia, giusto una scorsa frettolosa ai giornali Italiani (i gazzettini del quotidiano sconforto) e qualche bega di lavoro che riemergeva dall’operosità di coloro che ancora erano restati a mandare avanti la baracca.
Riprendo i contatti con la nostra realtà, senza rimpianti per l’assenza: è finito l’amore per Macron, i vaccini sono legge, l’acqua manca, il lago scende, il fuoco impazza, l’Atac – con nostra grande sorpresa – non va bene; è morto Pasquano, il medico legale di Montalbano; ma per fortuna abbiamo Fede (intesa per tale la Federica Pellegrini, che tutto  il mondo ci invidia); non ci manca nemmeno Speranza (inteso per tale l’astro nascente della galassia PD che aspira a trascinare le folle); però con la Carità siamo ai ferri corti, troppi immigrati (e poi l’Europa ci ha abbandonati!). Pazienza, ci metteremo d’accordo con la Libia;  e poi c’è papa Francesco, che ci invita alla coerenza (come dice una suora mia amica). E’ morto anche Enzo Bettiza, italiano nato a Spalato, giornalista colto e scrittore di peso, che seguivo tanti anni fa, quando era liberale.
Poveri noi! Ora, dopo qualche coda di lavoro da sbrigare in settimana, ci aspettano le smanie d’agosto; potrei farne fin d’ora una cronaca dettagliata, del parlare accaldato sul parlare accaldato. Se mi va commenterò entro luglio ciò che dirà Renzi a Ferragosto; ma spero che non mi vada. Per fortuna ho qualche libro in mente da studiare con concentrazione. Resteremo in contatto (non temete!).

29 luglio 2017

giovedì 20 luglio 2017

Democrazia continua

Ius rumoris
(di Felice Celato)
Che gli Italiani amino il rumore non è cosa nuova. Uno dei classici stereotipi sugli italiani (e nello stereotipo c’è sempre qualcosa di vero) li vuole instancabili parlatori ad alta voce (oggi magari al cellulare), amanti della risata rumorosa (oggi per la verità direi dello sghignazzo rumoroso; in realtà nessuno più ride di niente, in questo paese, ma si sghignazza di tutto), gorgheggiatori appassionati e indomabili suonatori di clacson. 
Uno stereotipo, dicevo: in fondo, fermo il resto, da noi chi gorgheggia più?
Forse nemmeno nuova è l’associazione – diffusamente nostrana – di ogni manifestazione pubblica al rumore, sia che si tratti di “oceaniche” folle plaudenti al capopopolo di turno, sia che si tratti di manifestazioni sindacali (dove la regola è: più banale è l’enunciato, più forte lo strillato), sia infine che si tratti di “ludiche” manifestazioni “musicali” potenziate da migliaia di watts rombanti e da woofers ossessivi (come del resto si fa anche fuori d’Italia).
E certamente non nuova mi pare l’applicazione sistematica del rumore all’ottundimento delle menti (basti pensare – come ci ricorda persino Elias Canetti in Massa e potere, già citato qui – alle antiche Haka dei maori, oggi prestate al mondo del rugby): anzi quando le masse (le folle, le greggi, il popolo, chiamatelo come volete) si addensano sulle piazze per plaudere a qualcuno in ogni modo (qualsiasi cosa si appresti ad enunciare, persino tragiche decisioni irrevocabili) si tocca con mano l’uso del rumore (la folla in delirio osannante, persino alla prospettiva della guerra) addirittura come strumento di governo, basato, appunto, sull’ottundimento delle menti.
Più nuovo invece mi pare (e poi dite che in Italia non si fa innovazione!) è l’uso del rumore come indiscusso canone del dover fare e anche del non dover fare ( e quindi come irresistibile guida della politica, lato sensu): le cose che si devono fare sono quelle più strillate, quelle da non fare le più contro-strillate, a prescindere dal merito. Il rumore diventa così un canone di democrazia continua, affidata cioè alla verifica in diretta di ogni mandato a governare, e quindi uno strumento sovra-ordinato persino alle votazioni: si vota nel silenzio della cabina ma si decide nel rumore dello strillo. Non importa quale sia il luogo dove ciò avviene: può essere il Parlamento, magari con l’ostensione di cartelloni o striscioni per dare allo strillo anche una dimensione visiva, anzi tele-visiva; oppure possono essere i media magari ad opera di giornalisti prestati alla più becera politica militante; o anche, perché no?, le aule giudiziarie dove le grida dei parenti delle vittime (vogliamo giustizia!) vengono fatte risuonare come una giusta appropriazione di un sommario ius puniendi. Non importa dove, l’importante  è che si strilli, l’importante sono i decibel; a costo di palesi fesserie (si pensi a tutte le innumerevoli manifestazioni di populismo legislativo in materia di diritto penale d’occasione); a costo di strumentalizzazioni emotive che nulla hanno a che fare con materia del decidere (si pensi alla canizza sullo ius soli, abbaiata nel contesto di allarmi migratorii, con i quali lo ius soli ha veramente poco a che vedere); a costo di evidenti contraddizioni con la storia e con i numeri del nostro vivere (si pensi all’uso casuale dei random-numeri – guarda caso, gridati o sparati in improbabili grafiche – per abbagliare anziché per pesare).
Ecco, questo diritto del rumore (ius rumoris) di impadronirsi del senso del nostro agire continua a sembrarmi una cosa molto, molto difficile da accettare, pur in un tempo in cui il mio modo di  vedere ha già subito tante dolorose sconfitte. Ma mi pare inevitabile accettarlo perché….così va il mondo (o perlomeno quella parte del mondo che è il nostro rumoroso ed incolto paese). E così capitoliamo, un pezzo per volta, a brani, lasciando indietro pezzi di una civiltà del ragionare, del conoscere per deliberare, del provvedere di conseguenza. Forse è normale, data l’età; il fatto è, però, che lo spirto guerrier ch’entro mi rugge mi sollecita al resistere! resistere! resistere! di Orlandiana memoria (nel senso di Vittorio Emanuele Orlando, all’indomani della ritirata del Piave: il senso dell’onore e la ragione dell’utilità, concordemente, solennemente ci rivolgono un ammonimento solo, una sola via di salvezza: resistere! resistere! resistere!). Nell’impossibilità di trovare sfoghi nell’azione (le giunture dolgono, si sa, ad una certa età), ne subiranno le conseguenze i lettori di questo blog; ai quali offro quindi, per mitigarne le fatiche, una settimana di vacanza dalle lagnanze.
Roma, 20 luglio 2017  (Anniversario dello sbarco sulla silente Luna; che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?.....Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli?)








domenica 16 luglio 2017

Stupi-diario onirico

La notte del polpo
(di Felice Celato)
Pare che Synthesizing Obama sia un progetto, ormai compiutamente sviluppato dall’Università di Washington, attraverso il quale, mediante l’impiego di un sistema di intelligenza artificiale, sarebbe possibile generare un video realistico nel quale un personaggio (nella fattispecie l’ex Presidente degli USA Obama) pronuncia un discorso perfettamente intonato al lessico e alla oratoria del personaggio stesso. Parimenti, pare che un sistema di intelligenza artificiale sia stato posto in grado di riprodurre un quadro dipinto alla Rembrandt, senza nulla copiare da pre-esistenti opere del grande pittore fiammingo ma adottandone perfettamente lo stile e applicandolo al soggetto che gli si richiede di dipingere.
Suggestionato dalla lettura di queste (spaventose) notizie, stanotte, dopo una cena un po’ impegnativa, nel fresco insolito di una ventilata notte romana, ho lasciato andare la fantasia arrivando a concepire quella che, lì per lì, mi era apparsa un’ottima soluzione per rianimare il deserto della nostra politica: incrociare le due novità tecnologiche per riprodurre, anzi, generare ex novo, un discorso politico di un novello Alcide De Gasperi applicato ai temi che ci occupano (e preoccupano) oggidì. Nella mia suggestionata immaginazione, questa nuova possibilità mi è parsa subito una straordinaria trovata, utile a spazzare via i nanerottoli del nostro politicame, solo con l’ombra mediatizzata di un gigante della nostra storia dell’ultimo secolo. Mi immaginavo i Renzi, i Salvini, le Meloni, i Di Maio, e tutte le altre comparse della nostra quotidiana commedia tragica, ruzzolare travolti dal successo del De Gasperi synthesized.
Purtroppo la suggestione para-onirica è scomparsa alla prima luce dell’alba: e gli italiani dove li metti? mi sono detto. Pensi che i rancorosi italiani dei dì nostri possano lasciarsi convincere da un discorso alla De Gasperi pronunciato dal  synthesized padre della patria, abituato a parlare ai nostri genitori? Per esempio, chessò, che i guastati italiani possano lasciarsi convincere a voltare le spalle agli odierni mercanti di disprezzo e di deficit sentendosi dire (appunto alla De Gasperi) la verità sulle nostre condizioni e indicare le faticose vie per uscirne?
Già, forse no. Forse bisognerebbe anche simulare gli italiani, una specie di synthesized new italian, facendolo (di nuovo) in grado di percepire il reale e di protendersi con determinazione e costanza verso un domani desiderabile.
Ma allora tutto il synthesized scenario sarebbe falso come un video gioco e quella che mi era sembrata, di notte, un’ ottima idea, diventerebbe un ennesimo artificio, in fondo funzionale al rumoroso commercio delle illusioni.
No, non c’è verso di immaginare – nemmeno col concorso dell’intelligenza artificiale – un corso dei prossimi mesi diverso da quello che ci si prepara: grida, menzogne, promesse, illusioni, condite con piccantissimo disprezzo reciproco; nemmeno se, per avventura, riuscissimo a generare un synthesized padre della patria. Ci tocca andare avanti coi nipotastri della parrocchietta.
Roma 16 luglio 2017
PS: un altro filone dell’immaginazione pre-mattutina è stato inevitabilmente quello del synthesized new italian. Tutti quelli ai quali è nota la presunzione intellettuale di chi scrive avranno pensato che lo abbia immaginato con quelle che crede essere le sue (migliori)  features mentali. E infatti, per breve spazio di tempo – lo confesso – così ho immaginato. Anche qui però, con l’alba mi è venuta in sacrosanto soccorso l’ironia: e poi, se potessimo riprogettare tutti gli Italiani sul modello di questo divagatore notturno, chi gli rimarrebbe a contestarlo quotidianamente e a quotidianamente edificarlo dandogli torto su tutto? Effettivamente sarebbe una noia mortale. Questa è stata l’ultima conclusione di quella che inevitabilmente (data la cena un po’ pesante) ho chiamato la notte del polpo; conclusione che ho considerato il segno inconfondibile che la faticosa digestione era terminata.


martedì 11 luglio 2017

Il "pensiero" semplicista

Interconnessioni
(di Felice Celato)
Una costante del “pensiero” semplicista – lo notavamo qualche giorno fa – è la negazione delle interconnessioni (cfr La nausea del presente, del 2 luglio u.s.), un concetto che forse vale la pena di espandere (come, del resto, qualcuno mi ha chiesto di fare).
Che cos’è la negazione delle interconnessioni, una delle colonne portanti del “pensiero” semplicista? Mi verrebbe voglia di definirla icasticamente facendo riferimento ad un  oggetto di uso comune: il rubinetto: ecco, la negazione delle interconnessioni è una specie di nevrosi del rubinetto.
Pensano, i semplicisti, che, solo che lo si voglia, noi – noi Italiani, poi, per paradosso quasi ridicolo – potremmo regolare il flusso delle cose che ci spiacciono solo aprendo o chiudendo un rubinetto. Così con gli immigrati, con le importazioni di prodotti concorrenti coi nostri (che tutto il mondo ci  invidia, naturalmente), con i prodotti che costano meno dei nostri, con i servizi che impoveriscono il contenuto del lavoro nei nostri servizi, etc; e persino coi turisti (che una volta consideravamo un tesoro regalatoci dalla nostra storia). Di tutti questi flussi, i semplicisti pensano che noi deteniamo un libero rubinetto, manovrabile a piacimento e in piena libertà da limiti e conseguenze.
Purtroppo così non è; né  è mai completamente stato; ma tanto più non è oggi, che tutto il mondo vive – ormai da più di vent’anni – in una dimensione globalizzata dove persone, beni, servizi e capitali circolano per il mondo senza significative barriere né fisiche né economiche. Si dirà: ma delle sane barriere doganali esistevano fino a non molti anni fa! Vero, ma ora, in buona parte, non esistono più; e, dove esistono, esistono anche complessi meccanismi bilaterali o multi-laterali che ne assicurano la misura. Così quei 5 miliardi di persone dalle quali ci “proteggevano” ora sono diventati nostri clienti e nostri fornitori, detentori di nostre valute con le quali abbiamo pagato i loro prodotti  (o materie prime), nostri concorrenti nella crescita dei livelli di istruzione, frequentatori di nostre spiagge e di nostre città e nostri ospitanti lungo le loro spiagge e nelle loro città; ed inoltre si sono legati a noi nello sviluppo di lunghe GVC (Global Value-Chains), catene globali del valore dove i vari fattori della produzione (energia, materie prime, capitale, lavoro, etc) si distribuiscono nello spazio creando interdipendenze mutue e dove le singole fasi della produzione si frammentano e si realizzano in molti luoghi diversi. Fra i due immensi, immaginari silos (da un lato il vecchio mondo con 1 miliardo di persone, dall’altro il “nuovo” mondo con 6 miliardi di persone) si è installata una fittissima rete di tubi dove scorrono continuamente enormi flussi di persone, beni, servizi e capitali. Questo sistema ha tirato fuori dalla miseria estrema più di un miliardo di persone negli ultimi 20 anni, ha portato a scuola miliardi di persone e, infine, ha allungato la vita media di miliardi e miliardi di persone, anche abbattendo drasticamente la mortalità infantile.
Ecco la nevrosi del rubinetto consiste nell’illusione di poter regolare a nostro piacimento la quantità di questi flussi che costituiscono il sistema sanguigno del mondo; anzi, di uno qualsiasi di questi flussi, quello che più ci fa comodo, naturalmente, fino ad escluderne totalmente la circolazione;  e ciò senza che tutto il sistema si blocchi. Se poi la nevrosi del rubinetto si spinge fino ad immaginare la libera manovra dei singoli rubinettini che presiedono ai minuscoli tubicini che partono e arrivano nel nostro piccolissimo paese, la nevrosi diventa addirittura follia pura.
Per carità, non voglio dire che la globalizzazione (che è all’origine di tante buone cose ma anche di molti dei complessi fenomeni che ci affannano) sia destinata ad essere intrinsecamente ingovernabile; che non possano – per esempio – (faticosamente) stabilirsi delle regole di fairness nella integrazione internazionale degli scambi, non foss’altro per impedire o limitare – anche questo è un esempio – fenomeni di estremo dumping sociale o addirittura di dumping dei diritti umani.
Voglio solo dire che il mondo è diventato più complesso che mai, anche perché il progresso tecnologico lo ha reso, ad un tempo, più piccolo e più denso, mentre esplodeva il numero dei suoi abitanti (oggi siamo più del doppio di quanti eravamo solo cinquant’anni fa). E i fenomeni complessi mal si conciliano con soluzioni semplicistiche e con l’illusione della natura monadica di ciascun fenomeno (in questo come in altri campi di quello che l’altro giorno abbiamo chiamato il mercato delle risposte).
Sarebbe bene, secondo il mio debole parere, che noi tutti che semplicisti non vorremmo essere, lo avessimo costantemente presente.
Roma 11 luglio 2017