domenica 29 maggio 2016

Foche e vaccini

Un popolo di applauditori
(di Felice Celato)
Se Mussolini fosse oggi ancora vivo, sono certo che nel descrivere gli Italiani (un popolo di poeti, di artisti, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, etc) sarebbe tentato – lui che amava tanto gli applausi – di aggiungere: un popolo di applauditori.
E in effetti, basta guardare alla rappresentazione che fa del paese quel mega distributore di fiction e di reality che è diventata la televisione (anche quando non trasmette propriamente una  fiction o un reality) per rendersene conto appieno: intere trasmissioni fatte di applausi, dove l’applauso è diventato contenuto, metro di giudizio insindacato, o dove la gente applaude se stessa come fossimo un popolo di foche che batte le pinne uggiolando compiaciute al sole (già, ma le foche uggiolano o abbaiano o che altro?); basta solo che l’addestratore delle foche (sia esso un presentatore o un conduttore di talk-show) sappia dare il segnale esplicito (un bell’applauso!) o implicito in qualche retorica suggestiva e banale, di solito popolar-populista o falso-progressista.
Anche alle cerimonie di matrimonio o di battesimo ormai si applaude, spesso su invito di un prete teleutente giuggiolone; e talora anche ai funerali, dove nessun uomo meriterebbe di ricevere applauso alcuno nella casa di Dio.
Così va il mondo, e forse non da poco tempo! Se ci pensate bene, da molto tempo la politica misura il suo consenso con l’applausometro (si tratti di un comizio o di un programma elettorale, magari destinato a restare un programma). Di qui l’importanza istrionica o battutistica del capo, sia che sappia essere salace (come accade, per esempio, al nostro toscanissimo premier); sia che abbia la mania – tanto per tornare a Mussolini – di annunciare ore solenni, non importa quanto tragiche; sia che – tanto per non farci mancare l’immancabile Berlusconi – usi la scansione delle altrui fisime per stimolare la derisione collettiva delle stesse. Non parliamo poi dei sindacalisti e delle loro piazze oceaniche, dove basta strillare con voce stentorea un’ovvietà anche paradossale (vogliamo più soldi e meno fatica!) per strappare applausi entusiastici.
Del resto l’applauso è una tipica manifestazione di folla (nessuno applaudirebbe da solo!), omologante per natura, privo di sfumature, digitale per funzione come un pollice ritto o un pollice verso di romana memoria, diventati poi i simboli (like o dislike) del consenso “espresso” sui social.
E non a caso scriveva Gustave Le Bon (Psicologia delle folle, 1921, ampiamente citato da Sigmund  Freud in Psicologia delle masse, dello stesso anno, Newton Compton, 2012) in una folla ogni sentimento, ogni atto è contagioso, come in fondo è proprio dell’applauso, spesso proprio per questo gestito da claques interessate (non solo a teatro, ma anche nei mass media).
L’applauso, diceva qualcuno, è l’eco di ogni luogo comune; e come tale è venuto a far parte della nostra “cultura”, oggi con ancora maggior forza di sempre, ora che i luoghi comuni hanno avuto anche la possibilità di viaggiare con tanta potenza come accade sulla rete. Quando Elias Canetti, più di cinquant’anni fa, scrivendo Massa e Potere (tradotto in Italia da Adelphi nel 1981), individuava nella muta la più antica unità della massa e ne diceva che il suo più intenso desiderio è essere di più, non aveva idea di quanto la rete possa soddisfare questo intenso desiderio è essere di più. Così, come si dice oggi, talora l’applauso diventa virale.
E coi virus, si sa, non c’è antibiotico che tenga. Ci vogliono, come insegnano i medici seri, i vaccini. Gli amici medici mi perdoneranno questa incursione forse approssimata nel loro campo, ma mi pare di ricordare che i vaccini funzionino inoculando al paziente il virus (morto o attenuato) per stimolare le sue (del paziente) difese naturali. Oggi, irresponsabilmente, si mette in dubbio la politica delle vaccinazioni di massa, dimenticando che anche le malattie sconfitte (come, forse, il vaiolo) sono sempre in agguato, come la peste  di Camus.
Che vaccino propongo, dunque, contro l’applauso? Eccolo qua: prima di recarci in un posto dove si attendono i nostri applausi, chiudiamoci nella nostra stanza (o in bagno) e inoculiamoci il virus: battiamo da soli, a lungo, le mani, come ogni foca fa con le pinne. Il senso del ridicolo, grande difesa naturale, farà il resto.

Roma 29 giugno 2016 (festa del Corpus Domini)

giovedì 26 maggio 2016

Letture

Il macigno
(di Felice Celato)
Eccomi qua, come promesso (Spigolature / 3, del 22 maggio u.s.), ritorno un po’ più estesamente sul libro di Carlo Cottarelli Il macigno – Perché il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a liberarsene ( Feltrinelli, 2016). Si tratta di un libro, come dicevo, esemplare per chiarezza e lucidità, ragionante e anche completo nella trattazione del tema, pur con le semplificazioni di una trattazione destinata non proprio a specialisti ma a cittadini e politici che vogliano veramente capire qualcosa  di un tema che – anche a parer mio – costituisce non un problema per l’Italia ma, in un certo senso, il problema. Si legge quindi, per ampi tratti, benissimo anche se non si è specialisti della materia (per questo ne consiglio vivamente la lettura). Qualche difficoltà in più si sperimenta in un paio di capitoli tecnicamente più complessi per la natura della materia trattata; ma l’autore si fa scrupolo di esser sempre estremamente chiaro, pur senza ricorrere a banalizzazioni o semplificazioni eccessive, anche quando tratta materie oggettivamente complicate, come per esempio la spiegazione delle regole fiscali dell’Europa. [Fra queste ho avuto modo di trovare – lo dico senza entrare nel dettaglio tecnico e per mera onestà intellettuale – una correzione ad un mio errato convincimento sull’interpretazione della norma che disciplina il ritmo di rientro dal debito eccessivo che ci caratterizza. Pur essendo da tempo un attento osservatore di questo tema avevo dato un’interpretazione più rigida del dovuto del percorso da fare per portare il debito pubblico al livello europeo; poco male, però, perché tanto da noi si discute di come fare debito – o, come altrimenti si dice, della flessibilità – e non di come ridurlo e a che ritmo].
Il merito fondamentale del libro, al di là di un’efficace sistematizzazione del tema, è quello di affondare, uno dopo l’altro, tutti gli slogan che riempiono i discorsi dei politici (e anche i commenti di molti giornalisti) e frollano le menti della Pubblica Opinione che viene spesso spinta ad immaginare scorciatoie che non esistono o che, se anche esistessero sul piano teorico, sarebbero più ardue della strada maestra (per esempio: uscire dall’euro, ripudiare il debito,  o magari  solo “europeizzarlo”, immaginare di continuare una stentata crescita a debito nascondendosi l’esistenza di un macro-problema, etc. etc. etc. ).
Mi fa una certa rabbia constatare che in fondo le “ricette” che Cottarelli propone non siano poi così difficili da capire e da far capire: non si tratta, come dicono gli americani, di rocket science; si tratta semplicemente di far esercizio del buon senso e dell’ equilibrio che sono, in fondo, la “semplice” filosofia di queste ricette: una ragionevole austerità fiscale (il pareggio di bilancio senza aumentare le tasse) praticabile soprattutto in un periodo per tanti aspetti così favorevole (tassi di interesse eccezionalmente bassi), un oculato blend di dismissioni e riforme  focalizzate sull’economia, una certa pazienza e costanza di indirizzo. Nulla di diverso da quello che si potrebbe fare se solo ci dicessimo la verità e volessimo prenderne concretamente atto.
Roma 26 maggio 2016


PS: Avendone forse accennato altre volte su questo blog, mi viene in mente una notazione meramente cronachistica. Dopo la lettura di questo bel libro rimango convinto che una mia più radicale idea di qualche tempo fa non era sbagliata: patrimoniale una tantum, massiccio trasferimento di beni dello stato in un fondo da liquidare nel tempo e da distribuire in compensazione a coloro che hanno pagato la patrimoniale, contemporanea riduzione significativa delle imposte sui redditi (prima delle imprese e poi dei privati) e riduzione del perimetro dello stato (e quindi delle sue spese).  Ma non è questo il luogo (e forse non è più il tempo) per sperimentarne ulteriormente l’impopolarità.

martedì 24 maggio 2016

Spigolature / 4

La vedova di Zarepta
(di Felice Celato)
Appunti dalla camminata mattutina: chiesa di santa Maria in Via, Cappella del Pozzo. Sosta breve, di passaggio. Entra un mendicante, messo proprio male: alto ma curvo, vestito sommariamente, pantaloni da donna a fiori, di cotone, palandrana, ciabatte, faccia segnata da qualche rissa, piedi trascinati pesantemente. Chiede l’elemosina rumorosamente ai devoti di santa Maria del Pozzo (passanti, turisti, yuppies, funzionari della vicina Presidenza del Consiglio, badanti e colf immigrate, qualche signora ben pettinata, un militare in divisa; checché se ne pensi, c’è sempre una vasta umanità che passa dalla Cappella del Pozzo!); tutti lo allontanano (devo dire: garbatamente; "ma stiamo pregando! Dai,  mettiti fuori della chiesa!").
Chiede ad alta voce una bottiglietta d’acqua ( normalmente sono lì a disposizione, oggi non ce n'erano); l’addetto lo allontana ( devo dire: con grazia): "non ce ne sono!"
Il mendicante ripete con voce alta e  impastata: "solo l’ acqua!".
Una orientale, forse una colf o una badante o chissà, si alza, tira fuori dalla sua borsa di plastica una bottiglia di plastica piena a metà di acqua e la porge al mendicante. Poi si mette a piangere.
Fine della scena. Riprendo a camminare. Fuori c’è un vento fresco, oggi; direi anche gagliardo.

Roma, 24 maggio 2016 ( forse il Piave mormora ancora e magari ha ragione)

domenica 22 maggio 2016

Spigolature / 3

Appunti da letture
(di Felice Celato)
Traggo da un’eccellente libro di Carlo Cottarelli (Il macigno, Feltrinelli, 2016) queste due citazioni per proporvi un duplice indovinello. Su questo libro, che considero – fin dove l’ho già letto (poco meno di metà) – esemplare per la lucidità e la chiarezza, tornerò presto, a lettura ultimata. Intanto però….giochiamoci sopra.
Citazione n. 1
L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora e che ci ha portato alla gravissima crisi i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta….. in tutta la sua drammatica portata.
Citazione n. 2
Il debito pubblico è abbastanza grande da badare a se stesso.
Il gioco: indovinare gli autori di queste memorabili considerazioni.
Ragioniamoci sopra: la paternità della prima considerazione potrebbe essere, chessò, di un Monti o di una Merkel o forse di un Junker. La paternità della seconda potrebbe essere, invece, di Fassina o di Varufakis o magari di un Renzi in una delle sue uscite brillanti nelle quali si esalta con toscanissimo compiacimento.
Voi che dite?
Beh! non vi sforzate: il primo era Enrico Berlinguer, il secondo Ronald Reagan.

Roma 22 maggio 2016, la bellissima festa della Trinità.

sabato 21 maggio 2016

Coccodrilli

Pannella, laici e laicisti
(di Felice Celato)
A leggere i giornali di questi giorni si direbbe che gli Italiani siano un popolo di coccodrilli. Tutti (destri e sinistri, laici e cattolici) piangono, inconsolabili, la morte di Marco Pannella, “un gigante della politica” – così ho sentito – cui però “il popolo sovrano” non ha mai concesso che briciole di sporadico consenso elettorale, non ha mai assegnato una carica politica né uno straccio di potere istituzionale; addirittura – come lamentava lui stesso – gli è stato negato un accesso ai media proporzionato al peso e alla presa delle sue posizioni, in materie difficili e talora elitarie quanto si vuole ma pur sempre – quando misurate dal mitico voto referendario – a largo spettro di consenso.
Si può pensare – almeno io così penso – che Pannella abbia sprecato una buona parte delle buone “battaglie” culturali che ha agitato a causa di una sua retorica logorroica dall’ipotassi  labirintica, di un suo narcisismo più da attore che da politico (credo che questo concetto l’abbia enunciato, con grande acume, Assunta Almirante), forse  di un suo amore della contesa per la contesa; e anche – dicono – di certe “bizzarrie” del suo carattere.
Ma, al netto di tutto ciò, riconosco volentieri che Marco Pannella è stato – come ha scritto qualcuno – l’uomo politico italiano che più ha influenzato il modo di pensarsi degli Italiani senza aver mai occupato una posizione di potere sulla quale far leva per esercitare tale influenza. Poi, per carità, i lettori di questo blog sanno bene quello che penso del modo di pensarsi degli Italiani; e quindi un inciso del tipo “nel bene o nel male” sarebbe stato prudente a fianco della riconosciuta influenza di tante epiche “battaglie” di Pannella.
Del resto potrebbe apparire proprio difficile che un cattolico paolotto e (almeno per lungo tempo anche) papista possa, volendo restar serio,  d’un colpo cancellare le tante memorie di radicali distanze ideali da Pannella in alcune – e importanti – controversie che ha lanciato; invece lo faccio volentieri perché del pannellismo ho sempre condiviso almeno il principio ispiratore, lo spirito libertario, liberista e legalitario che in Pannella si associava con un laicismo ideologico, talora – lo ammetto – per me irritante, specie quando mi appariva ( e magari non lo era) preconcetto.
Certo, al di là di questa pur forte condivisione di principio molto spesso non me la sono sentita di andare, riconoscendomi piuttosto in un’antropologia cristiana alla quale attribuisco l’insuperabile vantaggio di pensare, dell’uomo, che è immagine e somiglianza di Dio; e di aver fondato la separazione dei piani valoriali. Si dirà: ma quella della piena separatezza ed autonomia dei valori è una tipica posizione laica! Vero, “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”; ma è meramente laicista il pretendere che, solo perché ispirata da una antropologia cristiana, una visione dell’uomo e della società non possa democraticamente prevalere.
Dunque, Pannella riposi in pace; forse, come ha delicatamente scherzato Giannelli, l’accesso diretto al paradiso gli sarà negato solo perché lì è vietato fumare. In fondo, come ha detto lui stesso, non riusciva più a separarsi dal Crocefisso che credeva di Romero (e non lo era, come ha precisato mons. Paglia); e sono certo che questo suo sentimento in limine mortis dica più assai di qualunque altra cosa si possa dire, fra gli uomini, del suo transito nel mondo. E, quindi, forse davvero rimpiangeremo il suo amore per la libertà e la giustizia, nonché la generosità con la quale si è impegnato per esse. Il resto, forse, ha poca importanza.
Roma 21 maggio 2016