Un popolo di applauditori
(di
Felice Celato)
Se
Mussolini fosse oggi ancora vivo, sono certo che nel descrivere gli Italiani (un popolo di poeti, di artisti, di santi, di
pensatori, di scienziati, di navigatori, etc) sarebbe tentato – lui
che amava tanto gli applausi – di aggiungere: un popolo di applauditori.
E in
effetti, basta guardare alla rappresentazione che fa del paese quel mega
distributore di fiction e di reality che è diventata la televisione (anche
quando non trasmette propriamente una fiction o un reality) per rendersene conto appieno: intere trasmissioni
fatte di applausi, dove l’applauso è diventato contenuto, metro di giudizio
insindacato, o dove
la gente applaude se stessa come fossimo un popolo di foche che batte le pinne
uggiolando compiaciute al sole (già, ma le foche uggiolano o abbaiano o che
altro?); basta solo che l’addestratore delle foche (sia esso un presentatore o
un conduttore di talk-show) sappia
dare il segnale esplicito (un
bell’applauso!) o implicito in qualche retorica suggestiva e banale, di
solito popolar-populista o falso-progressista.
Anche
alle cerimonie di matrimonio o di battesimo ormai si applaude, spesso su invito
di un prete teleutente giuggiolone; e talora anche ai funerali, dove nessun
uomo meriterebbe di ricevere applauso alcuno nella casa di Dio.
Così
va il mondo, e forse non da poco tempo! Se ci pensate bene, da molto tempo la
politica misura il suo consenso con l’applausometro
(si tratti di un comizio o di un programma elettorale, magari destinato a
restare un programma). Di qui l’importanza istrionica o battutistica del capo,
sia che sappia essere salace (come accade, per esempio, al nostro toscanissimo premier); sia che abbia la mania – tanto
per tornare a Mussolini – di annunciare ore
solenni, non importa quanto tragiche; sia che – tanto per non farci mancare
l’immancabile Berlusconi – usi la scansione delle altrui fisime per stimolare
la derisione collettiva delle stesse. Non parliamo poi dei sindacalisti e delle
loro piazze oceaniche, dove basta
strillare con voce stentorea un’ovvietà anche paradossale (vogliamo più soldi e meno fatica!) per strappare applausi
entusiastici.
Del
resto l’applauso è una tipica manifestazione di folla (nessuno applaudirebbe da
solo!), omologante per natura, privo di sfumature, digitale per funzione come
un pollice ritto o un pollice verso di romana memoria, diventati poi i
simboli (like o dislike) del consenso “espresso” sui social.
E
non a caso scriveva Gustave Le Bon (Psicologia
delle folle, 1921, ampiamente citato da Sigmund Freud in Psicologia
delle masse, dello stesso anno, Newton
Compton, 2012) in una folla ogni
sentimento, ogni atto è contagioso, come in fondo è proprio dell’applauso,
spesso proprio per questo gestito da claques
interessate (non solo a teatro, ma anche nei mass media).
L’applauso,
diceva qualcuno, è l’eco di ogni luogo comune; e come tale è venuto a far parte
della nostra “cultura”, oggi con ancora maggior forza di sempre, ora che i
luoghi comuni hanno avuto anche la possibilità di viaggiare con tanta potenza come
accade sulla rete. Quando Elias Canetti, più di cinquant’anni fa, scrivendo Massa e Potere (tradotto in Italia da Adelphi nel 1981), individuava nella muta la più antica unità della massa e ne diceva che il suo più intenso desiderio è essere di più,
non aveva idea di quanto la rete possa soddisfare questo intenso desiderio è essere di più. Così, come si dice oggi, talora
l’applauso diventa virale.
E coi virus, si
sa, non c’è antibiotico che tenga. Ci vogliono, come insegnano i medici seri, i
vaccini. Gli amici medici mi perdoneranno questa incursione forse approssimata
nel loro campo, ma mi pare di ricordare che i vaccini funzionino inoculando al paziente il virus (morto o attenuato) per stimolare le sue (del paziente) difese naturali. Oggi,
irresponsabilmente, si mette in dubbio la politica delle vaccinazioni di massa,
dimenticando che anche le malattie sconfitte (come, forse, il vaiolo) sono
sempre in agguato, come la peste di Camus.
Che vaccino
propongo, dunque, contro l’applauso? Eccolo qua: prima di recarci in un posto
dove si attendono i nostri applausi, chiudiamoci nella nostra stanza (o in
bagno) e inoculiamoci il virus: battiamo da soli, a lungo, le mani, come ogni foca fa con le pinne. Il senso
del ridicolo, grande difesa naturale, farà il resto.
Roma 29 giugno
2016 (festa del Corpus Domini)
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