Ragionando di musiche
(di
Felice Celato)
Stavolta un tassista anziano mi ha dato da pensare. Mentre davanti a noi infuriava un
litigio fra automobilisti (per banali motivi di traffico, direbbe il buon
giornalista), l’anziano tassista mi fa: “Dottò,
il fatto è che qui nun semo più bboni a annà a tempo; e si nun vai a tempo nun
poi sta nell’orchestra!”
Non
sono un esperto di musica e, forse, nemmeno un musicofilo; sì, mi piacciono
molti bei brani di musica, qualche opera, qualche sinfonia, alcuni anche mi
commuovono. Ma tutto lì; di qui ad intendersi di musica ci corre un mare (di
ignoranza). Però fino a formulare questa
analogia per dar corpo alla sentenza
del tassista ci arrivo: immaginate un’opera dove ognuna delle singole
componenti della fusione musicale abbia
un suo tempo, diverso da quello delle
altre; prestissimo il coro, ma grave i bassi e presto i tenori del coro stesso, andante
i violini dell'orchestra ma adagio gli ottoni e allegretto i solisti in voce, etc.etc..
Immagino (ripeto: non mi intendo di musica) che quella fusione musicale che dà corpo all’opera, quel tessuto armonico che la compone, ne sarebbero devastati.
Bene:
e se, come in fondo scriveva qualche giorno fa Orsina su La stampa a proposito dei dissidi fra singoli stati ed Europa,
avesse proprio ragione il tassista? Se, allontanandoci dalla contingenza che ha
dato luogo alla sua sentenza, il
nostro problema fosse veramente un semplice problema di tempo, di tempi? Se, cioè, fosse il tempo o, meglio, la diversa idea del tempo, la chiave della nostra discordia? Il tempo che ciascuna componente della nostra società (se c’è ancora,
da noi, una società!) immagina necessario per trovare le soluzioni ai problemi
dei quali il tempo ci è sfuggito; il tempo del quale ci affrettiamo
continuamente a tirare le somme, perché oramai siamo divenuti incapaci di dare
ai rimedi i tempi che abbiamo dato ai
guasti per prodursi; il tempo nella
sua dimensione qualitativa (il kairos dei
Greci) estraniata dalla sua estensione quantitativa (il kronos )? Se fosse solo questa la chiave della nostra discordia
(non a caso, il cuore, cui allude l’etimo della discordia, ha i suoi ritmi!)
forse potremmo dirci meno disperati di come sembriamo. Forse ci è semplicemente
sfuggito il ritmo dei passi: aspirazioni da scattisti su un percorso
necessariamente fatto per maratoneti; a distruggere questo paese ci abbiamo
messo tempo, abbiamo disceso la china
con passo sicuro ma cadenzato; ora vorremmo vederlo rinascere, questo paese, a
grandi scatti, senza memoria della lunga corsa fatta in discesa, senza nessuna
voglia di correre a lungo per risalire.
Beh!
se fosse solo un problema di tempi per inseguire fini condivisi, forse il
nostro problema, i nostri problemi sarebbero facilmente risolvibili: basterebbe
forse solo riportare ad unicità le ordalie elettorali, su scala nazionale e,
meglio ancora, europea. Un election day
ogni cinque anni, per amministrazioni locali, nazionali, europee: le azioni
politiche avrebbero il tempo necessario per essere giudicate, non ci sarebbero
continue isterie da verifiche vere o presunte, e i cittadini ritornerebbero
forse in grado di giudicare con la serenità e l’equilibrio che ogni azione
politica postula perché se ne possano minimamente valutare gli effetti. Le
promesse di crescita uscirebbero dalla logica dello zero virgola per ogni trimestre; la riduzione del debito cesserebbe
di essere una promessa rinviata di semestre in semestre; i frutti delle
cosiddette riforme avrebbero tempo di maturare e di rivelare il loro vero
valore, al riparo dagli hurrah e dalle
deprecazioni quotidiane; i flussi dei migranti acquisterebbero la misura del
tempo ragionevolmente necessario per valutarne l’impatto ed attuarne la
gestione; e così via, secondo i ritmi fisiologici propri di ogni azione, specie
di quelle di restauro dei danni accumulati nel tempo (per usare un’altra
metafora: per far sparire le rughe non basta applicare una crema per tre
giorni).
Ma
temo che non sia solo un problema di tempo per riaccordare l’orchestra; il
problema vero, ahimè, non è solo del ritmo ma dello spartito: non solo non
riusciamo più ad annà a tempo, come
l’orchestra del nostro tassista filosofo, ma addirittura teniamo di fronte a
noi spartiti diversi e ne confondiamo le pagine; sicché alcuni pensano di
suonare l’adagio di Albinoni ma hanno
davanti la quarta pagina dell’Inno alla
gioia, mentre altri intonano un crescendo
rossiniano o la marcia dell’Aida cercando con gli occhi le note sullo spartito
dell’Intermezzo della Cavalleria rusticana. Il risultato è
davanti agli occhi (e agli orecchi) di tutti.
Roma
7 maggio 2016
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