sabato 24 novembre 2018

Auguri

Cristo Re
(di Felice Celato)
Siamo troppo stanchi quest’anno (stanchi di delusioni, di parole sprecate, di percezioni di sventure che contraddicono la consueta inaffidabilità delle percezioni, di osservazioni sconfortanti, di fatiche inutili e di inutili contese); siamo troppo stanchi, dicevo, per non salutare con speranza la fine dell’anno liturgico (che precede di poco la fine dell’anno civile) e l'avvento del nuovo: la festa di Cristo Re (dalla quale, appunto, ogni anno, riprende le mosse l’Avvento, tenace scommessa sull’uomo ed eterna promessa di nuovo), nella sua solennità forse desueta (lo stesso appellativo di Re sembra tratto da un tempo lontano), richiama una verità per noi fondamentale: Cristo è il Signore della storia e del cosmo. Noi cristiani Lo adoriamo nell’immagine della Sua umana sconfitta (il Crocefisso) e in quella della Sua regalità (il Cristo Pantocratore dell’arte paleocristiana), che, insieme, “spaccano” la storia: prima della Sua morte e resurrezione e dopo la Sua morte e resurrezione.
Spacchi, dunque, il Cristo Re, anche la nostra storia di uomini stanchi, facendoci sentire il dominio del Suo regno sulle figure del mondo e sui simulacri dei nostri regni che passano, come in Lui passano le angosce delle loro vicende che ci affannano e ci sconfortano. 
Lo so che abbiamo inventato troppe ragioni per farci ogni tanto anche gli auguri più banali; ma per la festa di Cristo Re vale veramente la pena di farci il più caldo augurio di ritrovare il senso di quella Signoria, di sentirla come il pegno fedele della nostra salvezza. Nonostante tutto. Buon Cristo Re a tutti!
Roma 24 novembre 2018

mercoledì 21 novembre 2018

Defendit numerus / 26


Futuro o passato?
(di Felice Celato)
Si deve ad un giovane economista italiano (Claudio Baccianti) il lavoro dal quale traggo la tabella che segue, secondo me veramente istruttiva e, purtroppo, chiaramente indicativa delle nostre prospettive.
In sostanza il tema è quello qui più volte accennato ma ora posto in evidenza numerica: quanto denaro pubblico spende per la pubblica istruzione ogni cittadino dei paesi considerati e quanto per interessi sul debito pubblico; in altri termini e più precisamente: quanta spesa pubblica pro-capite è stata dedicata, mediamente nel triennio 2015-17, dai vari paesi oggetto della rilevazione per finanziare la pubblica istruzione e quanta ne viene assorbita dagli interessi passivi generati dai rispettivi debiti pubblici (i dati sono in dollari USA a parità di potere d’acquisto, per gli esperti USA $ PPPPurchasing Power Parity).
Io ho semplicemente ordinato i dati per differenziali calanti (prima i Paesi che hanno maggior margine differenziale fra le due categorie di spesa e poi quelli che ne hanno meno; in termini politici: prima quelli che investono sul futuro e dopo quelli che…"investono" sui deficit accumulati nel passato e nel presente) e li ho esposti in una tabella estratta da un grafico (*) che, come è noto ai lettori di questo blog, non trovo né facile né utile trasferire in un post destinato anche a chi non è aduso a leggere grafici. I paesi presi in considerazione, come al solito, sono quelli con i quali più spesso amiamo confrontarci.

(Valori pro-capite, dollari USA PPP, media 2015-2017)
Paese
Istruzione
Interessi sul Debito Pubblico
Differenza
Svizzera
3562
130
+3432
Danimarca
3410
338
+3072
Finlandia
2628
93
+2535
Olanda
2645
422
+2223
Belgio
2951
1150
+1801
USA
3481
1691
+1790
Germania
2032
405
+1627
Austria
2472
849
+1623
Francia
2219
733
+1486
Giappone
1408
184
+1224
UK
2002
927
+1075
Irlanda
2336
1556
+780
Spagna
1445
917
+528
Grecia
1152
833
+319
Portogallo
1495
1210
+285
Italia
1474
1446
+28

La conclusione è nota e sconfortante: spendiamo per interessi sul debito pubblico più o meno quanto spendiamo per l’istruzione (pubblica). E forse i risultati si vedono.
Roma, 21 novembre 2018

(*) Disponibile su:  https://www.italiadati.com/




lunedì 19 novembre 2018

Defendit numerus / 25

Ineguaglianza
(di Felice Celato)
Una delle opinioni correnti più diffuse è sicuramente quella che le disuguaglianze economiche stiano dilagando nel mondo. Se si affronta il problema per macro-aree di umani “residenti” sulla terra, forse, istintivamente, si percepisce anche che lo straordinario sviluppo conosciuto negli ultimi decenni dalle economie dei paesi più popolati (Cina ed India, per esempio) ha in fondo prodotto un generalizzato avvicinamento delle condizioni di vita nel mondo, come del resto suggeriscono tutte le rilevazioni concernenti le aree di povertà estrema, la durata della vita, le condizioni sanitarie, la diffusione dell’istruzione, etc.; ma se si affronta il problema partendo dall’ottica “atomistica” dei singoli paesi più sviluppati, certamente l’opinione prevalente è che, appunto, le disuguaglianze economiche stiano dilagando.
Con l’aiuto dei dati elaborati da Our World in Data (di seguito OWiD), ho provato a farmi un’idea quantitativa delle tendenze rilevate nell’ultimo quarto di secolo (fra il 1990 e il 2015) nei paesi ai quali più frequentemente guardiamo (in nota c’è il link dello studio appena uscito). 
La conclusione è che non esiste un trend uniforme e che, anzi, sussistono ampie differenze (anche di segno) fra i vari paesi, a conferma del fatto – nota l’ottimo sito che torno a raccomandare alle vostre ripetute visitazioni – che l’ineguaglianza non è affatto una conseguenza inevitabile della globalizzazione. Fra i maggiori paesi Europei  coi quali siamo soliti paragonarci, l’Italia ha il livello di disuguaglianza più elevato (insieme alla Spagna), però in conseguenza delle variazioni rilevate nel quarto di secolo in discorso (il che quadra perfettamente con le dinamiche sociologiche più volte discusse e getta un’ulteriore ombra sulla qualità delle politiche fiscali seguite in questi anni). Infine, va da sé che, su scala globale, ponderando le variazioni per il numero di abitanti di ciascun paese, finiscono per essere dominanti le tendenze rilevate nei paesi più popolosi; se si prescinde, invece, da tale ponderazione – segnala OWiD –  si può ritenere l’indice globale sostanzialmente stabile nel quarto di secolo in esame.
Prima di presentare il risultato di questa mia artigianale ricerca, vale la pena di spendere due parole sull’indice comunemente usato nel mondo economico per valutare la distribuzione dei redditi all’interno di un dato paese. Si tratta dell’indice Gini (dal nome dello statistico Italiano del secolo scorso, Corrado Gini, che lo mise a punto): più l’indice sale verso il 100%  maggiore è la disuguaglianza (se in un paese l’indice fosse 100, significherebbe che tutto il reddito del paese è in mano ad una sola persona); più l’indice scende verso lo 0 minore è la diseguaglianza. Certo quest’indice, come ogni altro indice complesso, ha i suoi limiti (che si sommano con quelli correlati alla scala storica e geografica dei dati); ma fra i pro c’è sicuramente quello di essere l’indice di diseguaglianza più diffuso nella letteratura economica.
Per gli (improbabili) amanti dei numeri, segue la mia tabella, senza la quale… mi sento perso (dico mia perché l’ho ricostruita aprendo i dati forniti da OWiD; e quindi eventuali errori sono da addebitarsi solo a me).
Roma 19 novembre 2018

Variazioni dell'indice Gini in alcuni paesi del mondo (1990-2015) 

Paese
2015
1990
Tendenza (*)
USA
41
38
+ 3
Germania
32
29
+ 3
UK
34
34
=
Francia
29
28
+ 1
Spagna
35
28
+ 7
Svezia
33
24
+ 9
Portogallo
34
39
-  5
Olanda
29 
28
+ 1
Italia
35
29
+ 6
Cina
49
35
+14
India
35
30
+ 5
Russia
38
48
- 10
Argentina
42
48
- 6
Brasile
51
60
-  9
Canada
34
31
+ 3
Israele
41
36
+ 5
Australia
35
33
+ 2

(*) più = disuguaglianza cresciuta nel periodo; meno = disuguaglianza diminuita nel periodo; uguale = disuguaglianza stabile nel periodo



sabato 17 novembre 2018

I "signori sul ponte" / 4

Letture
(di Felice Celato)
Un ottimo articolo sul Corriere della sera di oggi (di Alberto Serravalle, avvocato e professore di Diritto dell’Unione Europea : La maggioranza silenziosa comincia a farsi sentire) attribuisce un valore segnaletico alla manifestazione pro-Tav di cui abbiamo parlato nell’ultimo post (I “signori sul ponte” /3). Non è il caso di tornarci sopra; e forse, a mio giudizio e purtroppo, non è nemmeno il caso di sopravvalutare tale valore segnaletico.
Nel testo dell’articolo, però, è citato un bellissimo libro (di Eric Vuilllard : L’ordine del giorno, edizioni e/o, 2018, Prix Goncourt 2017) che ho letto qualche settimana fa e che, fino ad oggi, non ho qui segnalato per evitare possibili fraintendimenti sulle riflessioni che mi ha suscitato; vengo a parlarne oggi perché, evidentemente, anche l’occasionale articolista del Corriere deve avervi intravisto un monito che vale la pena di riprendere, nel solco di queste nostre piccolissime esplorazioni della…residua vitalità delle classi sociali presunte depositarie di ingenti porzioni del capitale umano Italiano.
La storia che è raccontata nel libro (in questo caso non una storia di pura fantasia ma – si direbbe oggi – una docu-fiction letteraria) prende le mosse da una riunione segreta del 20 febbraio 1933, quando (alla vigilia delle elezioni che attribuirono la maggioranza al Partito Nazionalsocialista Tedesco) ventiquattro esponenti dell’alta borghesia industriale della Germania   vennero convocati da Göring per una raccolta di fondi a sostegno della campagna elettorale di Hitler. “Per quanto un po' impertinente, l’invito non era certo una novità per quegli uomini. La riunione…nella quale si potrebbe vedere un momento unico della storia padronale, un compromesso inaudito con i nazisti, per i Krupp, gli Opel e i Siemens è solo un episodio abbastanza ordinario della vita affaristica, una banale raccolta di fondi…. Erano abituati a tangenti e bustarelle; e così la maggior parte dei convenuti versò, chi qualche centinaio di migliaia di marchi, chi addirittura un milione e in questo modo venne messo insieme un bel gruzzoletto… I ventiquattro individui presenti nel palazzo del Reichstag quel 20 febbraio [l’incendio del palazzo “occorse” solo sette giorni dopo] non sono altro che….il clero della grande industria. Sono i sacerdoti di Ptah. E sono lì impassibili come ventiquattro macchine calcolatrici, alle porte dell’inferno
Il seguito è fin troppo noto perché valga la pena di riassumerlo; e, del resto, la storia raccontata da Vuillard parla dell’ Anschluss e finisce nella primavera del 1944.
Per nostra fortuna – lo scrive ben chiaro anche Serravalle – la situazione del nostro paese è ben lungi dall’essere quella Tedesca degli anni ‘30-‘40 del secolo scorso. E tuttavia la storia raccontata nel libro ha un che di emblematico riferito al nostro presente: le [nostre] politiche economiche – scrive duramente Serravalle – potrebbero causare una grave crisi che potrebbe mettere in ginocchio il Paese, isolandolo dai nostri partner europei, e tutto ciò potrebbe a sua volta scatenare reazioni e processi politici non più in linea con la nostra tradizione dello Stato di diritto; una compiuta valutazione di tali rischi, proprio da parte di coloro che (anche senza essere l’alta borghesia industriale del Paese) hanno la fortuna (e spesso anche il merito) di detenere gran parte del capitale umano nazionale, non è compatibile con ulteriori silenzi. Per tornare alla nostra immagine della barca senza vènti a favore (cfr. I “signori sul ponte” / 1, del 26 ottobre u.s.),  non stupisce che le larghe sacche di persone che, della barca comune, conoscono solo la stiva, il buio interno della carena, possano non percepire l’assenza di una rotta chiara e la conseguente futilità di ogni vento. Le classi sociali che, alla fine, quando le vele non si gonfiano, saranno chiamate a spezzarsi la schiena per remare, non possono che ascoltare con speranza le notizie che vengono giù dal boccaporto, se sono notizie di sollievo alla loro fatica; quand’anche ingannati, non possono che essere pienamente compresi. Ma ai “signori sul ponte”, che vedono la rotta e percepiscono il vento, non è consentito invocare una carenza di rappresentanza: se non si riconoscono nella rotta intrapresa, hanno il dovere di dirlo, chiaro e forte, senza isterismi ma anche senza ritegni; il fatalismo dell’alta borghesia industriale tedesca (di cui racconta Vuillard) non rientra nelle opzioni a loro disposizione: se per quelli confinati nella stiva una rotta erratica può – purtroppo – significare un doloroso supplemento di fatica, per i “signori sul ponte” è certo che tornare in carena e rimettersi ai remi sarà assai più duro.

Roma 17 novembre 2018.

lunedì 12 novembre 2018

I “signori sul ponte” /3

Roma e Torino
(di Felice Celato)
Fra sabato e domenica a Roma e a Torino si sono svolti due eventi che – per loro natura – mi erano sembrati potenzialmente simili: a Torino la manifestazione pro-Tav, a Roma il referendum sulla liberalizzazione del trasporto pubblico urbano (per brevità, chiamiamolo rozzamente il referendum anti-Atac). Entrambi mi sembravano l’occasione per i "signori sul ponte" (cfr. i post I “signori sul ponte” del 28 e 29 ottobre u.s.) di farsi vedere, per dire qualcosa che affondasse le sue radici nella loro capacità di vedere dove si dirige la barca e di cogliere dunque qual è il vento al quale orientare le vele. Non a caso, commentando l’evento Torinese, Vladimiro Zagrebelsky scrive (su La stampa di oggi): certo, l’insieme dei 30.000 singoli che si sono radunati riflette probabilmente (un’indagine sarebbe utile) la comune, prevalente appartenenza a un ceto che si può dire di borghesia produttiva, non parassitaria; noi, qui, col nostro linguaggio da osservatori dilettanti e non dilettati (né dilettevoli, lo riconosco), avremmo detto  che l’insieme dei singoli che si sono radunati riflette probabilmente, la comune prevalente appartenenza ai ceti presso i quali è depositata la massima concentrazione di capitale umano (nel senso appunto detto nel secondo dei post di cui sopra). Ma la questione lessicale non importa affatto. Ciò che importa è che a Torino i “signori sul ponte”si sono fatti sentire.
A Roma invece…. 
[Qualche numero, prima: aventi diritto al voto referendario 2,4 milioni, percentuale votanti 16% cioè 390.000; dei 2,4 milioni, applicando le percentuali Eurostat 2016 su base nazionale di laureati (16%) e diplomati (43%) – le più basse in Europa, ma pur sempre rilevanti – possiamo supporre che oltre 1,4 milioni di elettori abbia maturato un grado di istruzione superiore e che quindi potenzialmente faccia parte della schiera dove si concentra massimamente il capitale umano della città; di questi 1,4 milioni supponiamo che – come da dati delle elezioni comunali 2016, primo turno – il 35%, pari a circa 500.000 elettori, militi convintamente nelle schiere dei difensori della politica comunale sull’Atac (conservare, mantenere, proteggere, semmai ristrutturare; sopire, troncare, troncare, sopire direbbe il Conte Zio di Manzoniana memoria). Dobbiamo quindi supporre che almeno il rimanente 65% (900.000 elettori) non si sia sentito vincolato da linee politiche da sé stesso approvate o volute. E’ facile che questi 900.000 elettori, non ostante il vergognoso comportamento della RAI che ha “oscurato” la consultazione, sia stato in grado di sapere che c’era un referendum e su che cosa ci si consultava (in fondo i pochi lettori di giornali di cui ci parla il Censis è facile che si concentrino in questa area sociologica dei detentori di importanti quote di capitale umano). ]
A Roma, invece - dicevo poc'anzi - mezzo milione di "signori sul ponte" (i 900.000  meno i quasi 400.000 che sono andati a votare) ha ritenuto di non voler dire la sua, ha fatto finta di non vedere dove si dirige la barca e di non capire quale sarebbe il vento propizio.
Concludo: (1) la cosa non mi sorprende: questi sono, questi siamo noi, "signori sul ponte" di una barca scassata che imbarca acqua da tutte le parti; (2) io prendo raramente i bus dell’Atac, qualche volta il tram, mai la metro. Non mi lamento del tram, ma sono andato a votare: conservo quindi il diritto (morale) alle eventuali lamentele; (3) fra Nord e Sud ci sono ancora rilevanti differenze di senso civico.
Roma  12 novembre 2018

giovedì 8 novembre 2018

Defendit numerus / 24

Le previsioni economiche dell’UE
(di Felice Celato)
Dopo tante schermaglie, sono usciti i dati economici previsti dall’Europa per il triennio 2018-2020 (Autumn 2018 Economic forecast *).
Soffermiamoci solo sul 2019 (del resto le cose, secondo l’UE, non andranno molto diversamente nel 2020), nell’assunto (statisticamente possibile) che nel corso del nuovo anno saremo ancora qui per verificare le previsioni. E consideriamo solo la crescita, la disoccupazione e il deficit di bilancio, con riferimento alla cosiddetta Area Euro.
  • L’Italia è l’ultimo paese dell’Area Euro (ma anche dell'Europa a 28 stati) per tasso di crescita (Prodotto Interno Lordo Reale +1,2 % contro una media dell’Area dell’1,9%); 
  • il terz’ultimo (dopo Grecia e Spagna) per tasso di disoccupazione (10,4% contro 7,9% medio dell’Area);
  • il peggiore per entità del deficit pubblico (-2,9% del PIL contro il -0,8% dell’Area).

Le previsioni Europee sono contestate dal nostro Governo che accusa la UE di non aver valutato correttamente gli effetti della manovra economica Italiana.
Poiché, come dicevo, potrebbe anche darsi che nel 2019 saremo ancora qui, vedremo (forse) chi ha ragione.
Roma, 8 novembre 2018

(*) Il documento è disponibile qui:
https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/economic-performance-and-forecasts/economic-forecasts/autumn-2018-economic-forecast_en


In margine ad una lettura

Stato o mercato
(di Felice Celato)
Queste poche righe prendono le mosse da un bell’articolo pubblicato da Aggiornamenti Sociali, per la penna del suo direttore, p Giacomo Costa SJ, intitolato Oltre Stato o mercato: alla radice del “pubblico”.
Che dice in sostanza A.S.? Meglio senz’altro leggere l’articolo (in A.S., Nov.2018); ma in estrema sintesi mi pare si possa dire che – secondo l’autore – occorre immaginare modalità di regolazione [della soddisfazione dei bisogni dei cittadini] che non passano [ solo] dall’autorità (Stato) o dal prezzo (mercato); e che occorre concedersi il lusso di pensare che accanto agli interessi privati….vi sia anche lo spazio per provare a costruire una qualche forma di progetto comune…dove quella modalità di regolazione è affidata all’autogoverno di azioni collettive che assicurano la piena partecipazione degli utenti ma anche delle imprese disponibili a prendere sul serio… la prospettiva della responsabilità sociale. [I lettori più attenti di questo blog ricorderanno il tema, in qualche modo affine, dei commons collaborativi di cui abbiamo parlato qui quattro anni fa, commentando un bellissimo libro di J Rifkin, La società a costo marginale 0 ].
Il testo di Costa è ampio e, come dicevo, merita di essere letto, anche per l’approccio ragionante e sistematico al tema. E dunque ne prendo solo lo spunto per tornare sul “pallino” politico con cui ho già tormentato i miei lettori: “restringere lo Stato!”; e per aggiungere una…postilla al “pallino”.
La mia ormai stagionata convinzione (da ultimo ne abbiamo parlato però solo pochi giorni fa)  è che uno Stato che sappia fare bene i suoi mestieri (difesa, giustizia, tutela dei più deboli, ambiente, ordine pubblico, istruzione, previdenza pubblica, tassazione, etc. e, in economia, tutela e controllo della libertà degli scambi e disciplina dei mercati) sarebbe già un ottimo Stato (di cui noi siamo tuttora ben lungi dal godere); assegnargli compiti più larghi è altamente pericoloso, soprattutto in un paese con scarsa cultura (tout court e dello Stato in particolare).  Del resto, per un po' di esperienza professionale, potrei fare un lungo elenco delle occasioni in cui quel pericolo (dello Stato che si infila sul mercato) è diventato danno e deformazione della cultura sociale (si pensi solo al caso Alitalia).
Allora che cosa suggerisce l’articolo da cui abbiamo preso le mosse? Beh, suggerisce una sottigliezza che sottigliezza non è: esiste la via del pubblico non statale; dove pubblico ha una connotazione non soggettiva (pubblico non vuol dire Stato) ma sociologica (dove pubblico significa rispondente a interessi collettivi, ivi chiamati “beni comuni”). E, pur da convinto…restrizionista, sono certamente disposto ad accettare questa apparente sottigliezza purché – nella mia prospettiva – questa non sia la porta surrettizia per riesumare, sotto mentite spoglie, uno Stato con ambizioni di onnipresenza; e purché la soddisfazione pubblica di interessi collettivi non significhi prerogative ingiuste a danno di chi sul mercato opera senza protezione (del resto, credo, nessuno si sognerebbe di immaginare, per esempio, speciali protezioni per la grande distribuzione esercitata in forma cooperativa invece che in forma prettamente privatistica).
Roma 8 novembre 2018