martedì 6 novembre 2018

Il non anniversario

4 novembre 1918, firmato: Diaz
(di Felice Celato)
Non so se ci avete fatto caso, ma mi pare che un anniversario importante come quello dell’altro ieri, 4 novembre, sia passato quasi inosservato, certamente celebrato con toni minori di quelli che il secolo tondo avrebbe fatto supporre: in fondo ai 100 anni dalla vittoria nella prima guerra mondiale ( l’ultima e la definitiva affermazione del territorio della repubblica, quasi una guerra risorgimentale, una guerra alla quale, come dice Clark, avremo anche partecipato da sonnambuli in mezzo ad altri sonnambuli; e che anche ci ha visto maltratti in sede di trattato di pace; ma che, alla fine, dopo dolorose traversie, abbiamo combattuto con dignità, valore e vittoria) è stato dedicato “solo” un bel discorso del Presidente della Repubblica, una sua intervista sul Corriere della Sera, una frettolosa menzione - sui media distratti - di qualche corona lasciata su qualche monumento ai caduti. Per carità, saranno stati complici anche i disastri del maltempo e la fulminante scoperta della “centralità” del problema idrogeologico Italiano, ma, mi pare, i patriottici leaders politici, così sensibili ai valori della nazione unita e sovrana sul suo territorio, qualche parola avrebbero potuto anche spenderla (fra le tante di resistenza, di non arretramento, di pugnace autonomia dall’Europa, etc.) per celebrare la definizione di questo territorio su cui vogliamo tanto sentirci assoluti sovrani; una definizione che è costata anche tante vittime proprio fra il popolo al quale tanto spesso ci richiamiamo. O no? E forse anche i media avrebbero potuto sacrificare allo scopo qualcuna delle pagine destinate alle banalità quotidiane.
Eppure, cento anni fa, come scriveva il generale Diaz nel famoso Bollettino della Vittoria del 4 novembre 1918, i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, respinti dai nostri fanti, erano stati costretti a risalire  in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza. Ci sarebbero stati molti spunti per rispolverare e celebrare la nostra sovranità finalmente stabilita sull'intero arco alpino; magari anche solo ricordare gli oltre un milione di nostri caduti per la patria ci avrebbe fatto riflettere sulle meraviglie della vecchia Europa delle nazioni.
Il fatto è, credo, che, in mezzo a tanto parlare del parlare, si intravvede (oltreché il tramonto della nostra identificazione europea) l’usura inesorabile del senso di una collettività nazionale, lentamente sostituito dal rancore che fermenta come collante unico di aggregazioni disomogenee, in equilibrio instabile sulle loro diversità sociologiche; e che, nel suo complesso, sembra dominare l’intera compagine politica, compresa quella che esprime una confusa opposizione fatta di proclami vuoti e rabbiosi, del tutto privi di proposte alternative.
Forse sarebbe stato meglio non celebrarlo per niente l’anniversario della vittoria; magari ci avrebbe stimolato di più un altro 8 settembre, perché in fondo sarebbe stata la festa dei nostri rancori.
Roma 6 novembre 2018

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