venerdì 30 dicembre 2011

Addio 2011!

Lasciamoci così, senza rancore


 
(di Felice Celato)

 
Dunque si chiude il 2011, un anno denso di cose non buone; proviamo solo ad elencarle (forse ne dimentico qualcuna):

 
 l’incendio del Mediterraneo (l’abbiamo chiamato subito Primavera araba, ma….vedremo);

 
 la tragedia di Fukushima;

 
 la guerra di Libia;

 
 le violenze in Egitto e Siria;

 
 la strage di Oslo;

 
 la crisi dei debiti sovrani;

 
 la crisi Greca ed i balbettii dell’Europa;

 
 la crisi Italiana e le 5 manovre;
  1. il “decreto sviluppo” (maggio, Governo Berlusconi)
  2. la “manovra” di luglio (Governo Berlusconi)
  3. la “manovra” di agosto (Governo Berlusconi)
  4. la “legge di stabilità” (Governo Berlusconi)
  5. la “manovra” di Natale (Governo Monti)
 Fra le poche cose “buone” (per me): lo scudetto del Milan. Fra le poche cose buone, senza virgolette e sicuramente per tutti: l’allontanamento inglorioso del Governo ridanciano e godereccio che non credeva alla crisi, la gestione della crisi da parte del Presidente della Repubblica, il discorso del Papa al Bundenstag, la nomina di Draghi alla BCE.
Come al solito, basta una cosa buona per farne dimenticare tante cattive; e poi di cose cattive che possono diventare buone col tempo ce ne sono pur state: l’incendio del Mediterraneo che, appunto, può rivelarsi un’autentica primavera araba; ma anche la crisi del debito sovrano europeo può diventare una cosa buona, se l’Europa si sveglierà dal suo torpore istituzionale (diceva Monnet: “l’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni applicate”). Dalle poche cose buone del 2011, invece, non credo che possiamo aspettarci evoluzioni negative.

 
Ce ne è abbastanza per non portare rancore al 2011, che pure non abbiamo amato; temo non sarà facile nemmeno amare il 2012 (anno bisesto), per così come si prospetta; ma bisogna provarci!

 
Auguri a tutti gli amici lettori.

 
30 dicembre 2011

 

mercoledì 28 dicembre 2011

Stupi-diario di Natale

Grandi, piccole notizie
(di Felice Celato)



A conferma che in questa rubrichetta ( che, fin dal suo inizio, gioca sull’ambiguità fra stupore e stupidità) ogni tanto ci si stupisce anche di belle cose, copio,dal Corriere.it di oggi, questa notiziola:


Prima l'hanno denunciata e poi l'hanno portata a cena. I militari di Torgiano (Perugia) sono intervenuti in un supermercato dove i titolari avevano pizzicato una donna a rubare carne per un valore di 20 euro. L' intervento dei militari ha consentito di fermare la donna che stava tentando di allontanarsi e di recuperare l'intera refurtiva. Una volta condotta in caserma, la donna, una pensionata 60enne, ha ammesso con un certo imbarazzo le proprie responsabilità. Ma la storia non è finita con la stesura del verbale. Dopo aver raccontato ai carabinieri la dinamica del furto, ha spiegato i motivi del suo gesto, dettato dal fatto di non avere i soldi per fare la spesa e di non sapere come fare a sbarcare il lunario con la magra pensione. I militari, commossi dalla sincerità della donna, dato anche il periodo di feste, prima hanno fatto una colletta per farle la spesa e poi l'hanno invitata a pranzo. La pensionata, pur consapevole dell'errore commesso e per il quale risponderà di furto davanti alla magistratura di Perugia, non ha mancato di ringraziare i Carabinieri per l'umanità, la vicinanza e la gentilezza dimostrati.


Non ci sarebbe nemmeno da stupirsi, essendo ben noti il profilo umano dei nostri Carabinieri e le condizioni di effettiva indigenza di molti nostri pensionati; ma..... mi sono stupito lo stesso perché, sullo stesso giornale, pochi titoli più sotto, c’era anche quest’altra notiziola (che – mentre temiamo per la rabbia che serpeggia nel Paese – mi fa credere per un po’ che Natale non sia passato invano!):


Una famiglia già numerosa, un solo lavoro, una gravidanza inaspettata in un periodo di crisi. Ma l'aborto, già deciso con tanto di appuntamento fissato in clinica, è stato fermato dopo l'intervento di «padre Nike», al secolo don Maurizio De Sanctis, il sacerdote-ballerino al quale la coppia aveva deciso di comunicare la loro decisione. È successo a Livorno, nel quartiere «rosso» della Rosa, dove sarà la parrocchia ad adottare il nascituro. «La mia comunità parrocchiale ha un mutuo di 200 mila euro, ma un cuore più grande: oggi abbiamo salvato la vita di un bambino» ha scritto padre Nike sulla sua bacheca di Facebook il 20 dicembre, raccontando poi la storia ai fedeli della chiesa di Santa Rosa durante la messa di Natale.


La coppia abita proprio in zona, alla Rosa, storicamente tra le più a sinistra della città quando si aprono le urne, ma intorno alla cui chiesa gravitano almeno cinquemila persone. «Compreremo noi ciò che serve al bambino: la carrozzina, l'abbigliamento, il biberon. Tutto ciò che serve quotidianamente - assicura don Maurizio, laureato peraltro in psicologia, oltre che in filosofia e teologia - Solo così sono riuscito a convincere i genitori». Il dialogo tra il prete e la coppia è durato per ore, ma pur condividendo le idee del parroco sul valore della vita, i due erano rimasti scettici: lui lavora, lei no e le spese con tre figli sono già considerevoli. «Così mi sono giocato l'ultima carta e ho detto loro che li avremmo aiutati. Abbiamo fatto di questo Natale il nostro Natale - chiosa padre Nike - È stato come accogliere Gesù».


Due notizie “tenere” nello stesso giorno, in questi tempi amari sono fonte di stupore.

28 dicembre 2011

sabato 24 dicembre 2011

Lyssavirus rabies

La rabbia e la cognizione del male


(di Felice Celato)


Il Lyssavirus rabies, insegnano i veterinari, è il virus della rabbia (apprendo che la parola viene dal sanscrito “rabbahas” che vuol dire”fare violenza”), “malattia contagiosa che causa encefalomielite ad esito inesorabilmente mortale in tutti i mammiferi, uomo compreso”. L’Italia, però, dicono sempre i veterinari, dal 1997 è considerata paese indenne.


Mah! Sicuramente i veterinari, nel loro campo, hanno ragione e non c’è da temere dal punto di vista medico; ma io temo che il 2012 conoscerà una nuova epidemia della terribile malattia, nella sua manifestazione più pericolosa, distruttiva e pandemica: quella sociologica.


La situazione in cui per lunghi anni ci siamo crogiolati incoscienti e festosi è esplosa nel 2011 con le conseguenze che tutti sappiamo; le misure tardivamente adottate (ammesso, ma non concesso, che bastino, per entità e natura!) hanno colpito con durezza inattesa, producendo ulcerazioni sociali ed economiche che sarà lento guarire e delle quali sarà difficile lenire il dolore. Bene, anzi male: se fossimo stati meno cialtroni (Devoto Oli: cialtrone, dicesi di “persona volgare e spregevole, priva di serietà e di correttezza nei rapporti umani o che manca di parola negli affari”) non ci saremmo trovati nelle condizioni di dover fare quanto, frettolosamente, siamo stati costretti a fare con asprezza inusitata. Ma tant’è! Ora non ci resta che stringere i denti e guardare con speranza alle nostre risorse interiori, ai nostri stamina,come dicono gli inglesi per riferirsi alla capacità di resistenza, alla fibra, al vigore. E ci sarebbero ragioni, storiche ed umane, per credere che, anche stavolta, gli italiani possano farcela a trarsi dalla melma; se non ci fosse il Lyssavirus rabies (socialis).


Che invece c’è ed è già all’opera. Basta seguire i giornali (anche i più sorvegliati nel linguaggio) o i “dibattiti” sulla fiducia o le prese di posizione dei sindacati o gli yelling show televisivi. Anche i “buoni” politici (alla cui gestione del paese dobbiamo la situazione che ora è in atto) affilano le armi “dialettiche” in vista del posizionamento elettorale, con usurati “argomenti” di sapore radical-islamico (l’articolo 18 “non si tocca”, come una sura del Corano o come uno iota del Vangelo, il solo parlarne “è roba da matti”, la patrimoniale mai! etc. Già, anche le pensioni “ non si toccano”, l’età pensionabile, l’esenzione delle imposte sulla prima casa, i diritti acquisiti, etc., nulla si poteva toccare, prima che lo si dovesse toccare e toccare con mano pesante! E come se quella approvata, anch’essa a grande maggioranza, non sia una patrimoniale, sia pur rateizzata!). Non è bastata, per alcuni nostri politici, la paura del crack, è già dimenticata l’ansia per i (sempre più prossimi) rifinanziamenti del debito pubblico: ora, come dicono i miei amici di sinistra, “occorre tornare a fare politica”,ovvero, come lasciano intendere a destra, gestire “lo stacco delle spina”. Mah! Speriamo bene, anche se i risultati di un certo “fare politica” (dal governo o dall’opposizione) sono davanti agli occhi di tutti e la spina, quando era attaccata, non ha portato energia.


Ma quello che mi preoccupa non sono certo i vuoti proclami, presi in sé e letti alla luce delle mille retromarce (anche nell’ambito della stessa giornata) di cui possiamo anche ridere amaramente (o solo pensare, come fa un mio amico più indulgente di me, che siano la manifestazione di una non ancora superata adolescenza della nostra democrazia). All’origine della mia ansia sta, credo ben più fondatamente, il senso di rabbia rancorosa che serpeggia, anche comprensibilmente ma non per questo saggiamente, nella società ulcerata e che rischia di prendere rapidamente il posto di una diffusa e profonda (per dirla alla Gadda) cognizione del male, del male social-culturale che ci ha corroso per anni. La diffusione di un’idea continuista che “occorra tornare a fare politica” (intendendosi per ciò non decidere nulla e lasciare che il male avanzi, solo accompagnandolo col rumorare sincopato delle dichiarazioni tonitruanti o autoingannatrici ), che chi prende misure forti è l’espressione di poteri forti banco-pluto-cratici e anti-popolari, è un potente incentivo a questo scambio esiziale fra rabbia e cognizione del male, una nuova iniezione di populismo incosciente: nulla, di questa nostra politica, dovrà e potrà più essere come prima, dopo questa tempesta (che non è ancora cessata); se questa occasione di verità e di presa di coscienza che stiamo dolorosamente vivendo sarà anch’essa persa, se alla ragionata forza del comprendere dove abbiamo sbagliato (come paese e come cittadini) verrà sostituita la festosa o falsamente concettosa riproposizione dei vecchi stilemi politichesi, allora saranno guai e guai anche più seri di quelli ,seri, in cui già ci troviamo.


Ci pensino bene, i politici per bene: occorre isolare i portatori insani di Lyssavirus rabies: non ci serve la rabbia, anche se ci sorregge nei sondaggi, ci serve la comprensione del male e la sua cura tenace, ragionata e pietosa ( sì, pietosa!). E ci servono da subito i toni adeguati alla fase di cura (e questo vale anche per i politici per bene).


Jeffrey D. Sachs, eminente professore di economia e direttore dell’Earth Institute presso la Columbia University, commemorando Vaclav Havel (di cui era stato amico) scrive (Ilsole24ore.it del 22 dicembre): “Il potere di dire la verità, quell’anno (1989) creò un abbagliante senso di possibilità”.


Ebbene, in questo cruciale momento della nostra storia recente, sappiano i nostri migliori politici riscoprire il gusto di dire la verità che per tanti anni è stata negata, nascosta, adulterata: l’Italia ha vissuto per anni al di sopra delle sue possibilità, finanziando l’insensatezza dei suoi cittadini (o anche solo dei suoi politici) con svalutazioni e debito pubblico (anche la tanto sbandierata solidità patrimoniale delle famiglie e, quando c’è, il loro apparente benessere hanno lì le loro radici); ora ricominciamo da capo, non “a fare (la vecchia) politica” ma a fare sacrifici per i nostri figli, come hanno fatto i nostri genitori all’indomani della guerra perduta.


E sappiano farlo, i politici, rinunciando a slogan vacui e pomposi, finti sdegni e focosi quanto effimeri slanci retorici: la rabbia,“malattia contagiosa ad esito inesorabilmente mortale in tutti i mammiferi, uomo compreso”, non è fonte di verità ma di confusione delle menti e dei sentimenti; l’unico modo per combatterla è la amorosa (sì, amorosa!) medicazione delle morsicature e l’ immediata somministrazione del siero (della verità).






24 Dicembre 2011, Vigilia di Natale


PS: leggendo, in questi giorni che hanno preceduto il Natale, alcuni indirizzi augurali (quello di Benedetto XVI ai cardinali della Curia, quello del card. Martini ai lettori del Corriere, ed altri) mi sono convinto – e per questo le ho sottolineate – che in alcune parole (pietosa e amorosa) che ho usato istintivamente e senza merito alcuno, può stare il senso di ciò di cui abbiamo più bisogno.









domenica 18 dicembre 2011

Humiles ad cunas

Natale 2011
(di Felice Celato)

Natale turbato quest’anno, ma non per questo non è Natale, anzi forse lo è più veramente.


Questo sofferto passaggio della nostra storia recente sta lasciando il segno pesante di ogni brusco risveglio: d’improvviso sulla estate rumorosa di troppi anni nei quali ci siamo nascosti l’evidenza dei nostri problemi (sì, l’evidenza!) è calato il gelido inverno del redde rationem.


E come sempre, quando il redde rationem arriva con foga violenta, forse non tutti i conti erano pronti per essere regolati secondo il giusto computo del dare e dell’avere (ci torneremo sopra, magari ad anno nuovo).


Ma, insomma, è pur sempre Natale, una festa che ci ricorda l’eterna scommessa di Dio sull’uomo, che ogni anno cancella il passato con il nuovo Bambino che riaccende la storia con vece mai doma, nuova ed eterna.


E per quanto turbato, il Natale è festa della speranza, speranza di un mondo nuovo, di una svolta vera e profonda, di una palingenesi umana, nel segno di Betlemme.


Non è proprio pensare, in questi giorni, ai rumori di fondo, ai gorgogliare osceni delle nostre pance che fanno temere che il nostro piccolo mondo non sarà del tutto nuovo come oggi – dalla festa – siamo chiamati a sognarlo, che il fondo oscuro dei nostri confusi pensieri ritorni a farci egoisti e grossolani.


Non pensiamoci, oggi, e, come il Bambino che nasce, guardiamo al mondo con fiducia ed incanto.


Auguri a tutti ma soprattutto ai nostri figli perché il Natale è la festa della loro speranza ed il nostro mondo il luogo del loro futuro (noi, più vicini al tramonto, abbiamo già goduto di lunghe giornate di sole, non sempre meritandone i raggi).


18 dicembre 2011

domenica 11 dicembre 2011

Racconti sul potere

Un libro (o forse due) da leggere



(di Felice Celato)

Sembra passato un secolo, ma solo poche settimane fa, nell’accennare, oscuramente, ai suoi rapporti col Premier, l’allora ministro Tremonti, che sembra si sentisse spiato, segnalò una lettura istruttiva: Il Presidente di George Simenon. Come è inevitabile in questi casi, deve esserci stata, nelle librerie, una forte domanda, curiosa di questo libro, se l’Adelphi, che lo aveva pubblicato nel 2007, lo ha ristampato e le librerie l’hanno posto al centro del banco di solito dedicato alle novità o all’esposizione della (eccellente) collana di cui Il Presidente fa parte.


Bene; a parte la curiosità suscitata dalla citazione, vale proprio la pena (o meglio: il piacere) di leggere questo romanzo, scritto da Simenon oltre mezzo secolo fa (1957) ma di straordinaria attualità ed anche di illuminante lucidità rivolta ai recessi del potere, dove l’informazione segreta, còlta lungo il confine esistenziale che ne determina l’irrilevanza, diviene, essa stessa, oscuro strumento del potere,


La storia (ambientata in Normandia) è costruita attorno alla (stupenda) figura di un vecchio ex Presidente del Consiglio (si disse, negli anni successivi alla sua uscita, che il libro alludesse a Clemenceau) che, giunto in prossimità della morte, si arrovella attorno all’uso di informazioni riservate accumulate durante la sua lunga carriera politica. Nella macerazione emotiva che ne consegue, il Presidente rivive le pagine, non tutte commendevoli, del suo lungo esercizio del potere, provandone un distaccato disgusto non disgiunto da una vaga indulgenza che l’approssimarsi della morte rende pietosa.


Analogamente ad un altro ben più recente romanzo sul potere (Elogio del silenzio di Boris Biancheri, Feltrinelli editore ) – di cui pure raccomando la lettura – il libro di Simenon costituisce una meditazione sulla natura ambigua e controversa dei modi attraverso i quali gli uomini si governano; qui (ne Il Presidente) con una chiave di lettura concreta e sofferente, lì (nell’Elogio del silenzio) in forma più paradigmatica e decontestualizzata, quasi metaforica; in entrambi però con commossa partecipazione.
11 Dicembre 2011




mercoledì 7 dicembre 2011

Outlook

Caute speranze

(di Felice Celato)
Attendendo le nuova manovra ci eravamo detti che eravamo certi che sarebbe stata dura (e dura, fors’anche durissima, è stata), che speravamo fosse equa ( e possiamo dire che si è tentato di essere equi senza, forse, esserci sempre riusciti), che confidavamo che fosse risolutiva (e qui non sappiamo ancora) e che infine temevamo che potesse essere depressiva (come sicuramente lo sarà, in larga misura in maniera inevitabile). Avremmo preferito una patrimoniale durissima one shot, invece si è andati verso una patrimoniale a rate (ICI, bollo, superbollo,scudati, etc) che manterrà più a lungo gli effetti depressivi, del resto propri di ogni tassa che comprime il reddito disponibile. Sulle pensioni si è andati giù con la mannaia, come forse era inevitabile dopo le stupide demagogie dei tanti anni passati. Sui costi della politica (rilevanti in gran parte solo a fini del costume) si è imboccata la strada giusta, ma siamo solo all’inizio; speriamo soprattutto che scompaia la cachistocrazia che ci ha afflitto negli ultimo anni.


La manovra è arrivata in tempi brevi, ancora è, secondo me, incompleta e carente sul lato propulsivo; ma, mi pare che la svolta nella coscienza dei problemi, nello stile proprio per risolverli, nella urgenza delle soluzioni ci sia stata e, per fortuna, prima che dovesse deflagrare lo shock che da tanto tempo pensavamo fosse necessario per svegliare il paese (avevo più volte pensato, con terrore, ad un’asta di titoli di stato che andasse deserta; per fortuna l’evento è stato solo evocato e lo scenario conseguente solo delineato a beneficio di chi non capisca che cosa vorrebbe dire).


Non è questa la sede per parlare delle misure; c’è abbondanza di analisi e di sintesi su molti giornali. Mi piace invece – nella presunzione di azzeccare le mie previsioni, rafforzata dalle esperienze di questa per me prevedibilissima crisi – abbandonarmi alle congetture sul dopo: che succederà quando la scena sarà restituita ai politici (diciamo marzo /aprile 2013)?


E’ pensabile che gli italiani, svegliati dalla “botta”, ritornino sui percorsi usati? Che siano disposti a rimettere in gioco chi è stato all’origine dei nostri mali? Che si perdonino le triviali banalità populiste e gli sciocchi demagogismi? Non lo so, ma non credo: l’operazione verità è appena cominciata; vediamo come prosegue e come saranno le reazioni di chi si vede inoculata una scarica di adrenalina dopo anni di tranquillanti euforizzanti. Ci sono due possibili linee di reazione: quella del costruttivo tutti a casa, piazza pulita, ritentiamo ex novo; ma anche quella temibilissima della foga rabbiosa becera ed irrazionale, focalizzata su fantasmi appositamente inventati. Credo che questa seconda ci sarà (la stimolazione frenoclastica e fantapoietica è già cominciata) ma non sarà prevalente (non praevalebunt; gli italiani sono superficiali e spesso giocherelloni ma non cretini; e già hanno letto sui propri libri di storia che cosa vuol dire abbandonarsi alle facili emozioni di piazza, o di prato, si direbbe oggi); credo anche che la prima avverrà solo in parte ma anch’essa avverrà, necessariamente (speriamo che avvenga almeno con precisione chirurgica la selezione fra chi assolutamente deve andare a casa, sia essa in Sardegna, in Brianza o alle Antille, e chi invece può restare, magari in prova di ravvedimento operoso). Dunque, per dirla nel convenzionale politichese, credo che ci ritroveremo con estreme più dure e, se possibile, più becere e un centro nuovo rafforzato, ancorché, forse, bicefalo: il tutto, speriamo, nel contesto di un' Europa che abbia saputo uscire dalla crisi più forte e più centralista almeno nelle politiche finanziarie e di bilancio (la cessione di sovranità in materia, lungi dall’essere un fantasma contro cui batterci, sarà un grosso passo avanti!).


Quanto c’è di irenico in questo esercizio di previsione? Non saprei dire, mi riservo di aggiustare il tiro nelle settimane a venire. Intanto è già una cosa da notare che la nuova situazione mi abbia indotto a formulare aspettative meno deprimenti di quelle che, però giustamente, avevo fino a qualche settimana fa.


Perché tutto ciò funzioni, però, occorre che la politica del denominatore (quello, cruciale, del rapporto Debito/PIL) dia i suoi frutti, anche se ancora non è fiorita. Se la sveglia resterà solo politica e non invece anche e soprattutto produttiva, imprenditoriale e temperamentale (o culturale, come scrive Zingales), allora non ci sarà manovra che tenga, il declino sarebbe irreversibile (il peso del debito, già opprimente, sarebbe insopportabile per chi non produce mezzi di rimborso). Vedremo, presto.


PS: mi sono divertito a formare parole nuove o quasi (cachistocrazia, frenoclastico, fantapoietico, etc); ma dati i tempi che tanto ci hanno avvicinato alla Grecia …. attingendo proprio al greco.


7 dicembre 2011, Sant'Ambrogio









domenica 4 dicembre 2011

En attendant Godot

"Lo scheletro contadino"
(di Felice Celato)

Aspettiamo trepidanti le misure del Governo, sapendo che dovranno essere dure, sperando che riescano ad essere eque (chi più ha più paghi), confidando che siano risolutive (come lo sarebbero misure patrimoniali per problemi patrimoniali), temendo che possano essere (involontariamente) depressive,auspicando che comunque vengano varate subito. Nel frattempo osserviamo, gelidi, forse spietati, il travaglio dei partiti (che non sanno più che cosa dire) e dei sindacati (che scelgono di dire vacue ovvietà, del tipo: contrasteremo le misure sbagliate, e quindi, aggiungerei a complemento “logico”, siamo favorevoli a quelle giuste!). Buona parte di ciò  che doveva accadere, sta accadendo; vedremo nelle prossime settimane come reagirà il Paese all’operazione verità che i partiti, nei troppi anni incoscienti e folli, non hanno saputo fare e che le circostanze hanno delegato a questa pallida Europa.


Nel frattempo, è arrivata la consueta boccata di ossigeno intellettuale e di passione civile che, come ogni anno, ci viene dall’annuale Rapporto del Censis (il 45°, quest’anno). A parte la congerie di dati molto interessanti (alcuni dei quali, se attentamente studiati, eviterebbero a molti di sparare pericolose panzane) sul modo di essere e di evolvere di questa nostra confusa società, ci sono, come sempre da leggere integralmente, le Considerazioni Generali nelle quali si coglie la colta mano sensibile, tagliente e pietosa, di Giuseppe De Rita.


Provo a sintetizzarne il senso, in larga parte usando (in corsivo, le  sottolineature sono mie) alcuni dei passi che mi sono sembrati più significativi:


Partim dolore, partim verecundia, cioè un po’ con dolore e un po’ con vergogna, abbiamo vissuto in questi ultimi mesi una retrocessione evidente della nostra immagine nazionale dovuta alla caduta del nostro peso economico e politico nelle vicende internazionali ed europee. Abbiamo scontato certo una triplice e combinata insipienza: aver accumulato per decenni un abnorme debito pubblico, che non ci permette più autonomia di sistema; esserci fatti trovare politicamente impreparati a un attacco speculativo che vedeva nella finanza pubblica italiana l’anello debole dell’incompiuto sistema europeo; aver dimostrato per mesi e mesi confusione e impotenza nelle mosse di governo volte alla difesa e al rilancio della nostra economia.
…….
Il ritorno a un obbligo di credibilità internazionale che è in corso nelle ultime settimane non ci esime dal corrispettivo obbligo di guardarci dentro con severità, per capire le coordinate elementari dei problemi che abbiamo di fronte, seguendo l’antica saggezza chassidica: “le parole fondamentali sono quelle tra l’uomo e se stesso”.
…….
In questo complessivo affanno, non ci aiuta l’isolamento. Una società che aveva realizzato la sua ricostruzione post-bellica, il suo boom economico, la sua industrializzazione (di massa come di qualità) nell’alveo di una riconquistata appartenenza occidentale, di un primigenio protagonismo europeista e di una presenza planetaria del suo made in Italy, sembra oggi fuori dai grandi processi internazionali; al massimo, li rincorre faticosamente. Non ha più la potenza da socio fondatore della costruzione europea; non ha la forza di stare con pienezza di responsabilità nelle alleanze occidentali; non è partecipe di quanto sta avvenendo nell’Africa settentrionale, praticamente alle porte di casa; non ha rapporti sistemici con i rampanti free rider dell’economia mondiale (al massimo, li hanno i tanti imprenditori medi e piccoli presenti in quelle aree lontane); sta perdendo l’occasione di essere presente sull’asse di penetrazione verso l’Europa sudorientale (con il ritardo sulla Lione-Torino e con le difficoltà di fare del Nord-Est la piattaforma logistica di tale penetrazione).
……..
Per capire cosa ci sia sotto il carattere fragile, isolato ed eterodiretto della nostra attuale società occorre, con severità verso se stessi, capire perché i nostri più antichi punti di forza ‒ la collettiva capacità di continuo adattamento e i processi spontanei di autoregolazione (nel campo dei consumi come in quello del welfare, come in quello delle strategie d’impresa) ‒ non riescano più a funzionare come nel passato. E, ancora, realismo vuole che si prenda coscienza che l’adattamento e l’autoregolazione faticano a esercitarsi perché si è accentuata la dispersione delle idee, delle decisioni e del linguaggio:
- delle idee, perché……….;
- delle decisioni, perché……..;
- del linguaggio, perché…..;

È facile capire che diventa fatale, con queste dispersioni, il declino del dibattito socio-politico ………
Sembra quasi che esso segua una logica del “parlare per parlare” o del “parlare del parlare” che rende quasi inconsistente il pensiero collettivo: potrebbe ormai essere definito “pensiero povero”, non meritando neppure la vecchia e criticata, ma non indecorosa, connotazione di “pensiero debole”.
…….
Non è possibile pensare che di fronte a questa regressione del nostro sviluppo sociale, economico e civile si possa restare neghittosi e immobili, rimpiangendo lo sviluppo che fu e dubitando che “in noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento”.
……..
la crisi dura e un po’ scarnificante degli ultimi anni sta rimettendo in giuoco un carattere fondativo (anch’esso soggettivistico e antropologico) del solido “scheletro contadino”, che resta il riferimento quasi occulto delle nostre vicende di evoluzione sociale, anche se reso occulto e dimenticato dalle bolle di vacuità e banalità con cui abbiamo importato l’agiatezza e la modernità occidentali.
……
È quindi lo scheletro contadino, forse, la metafora più coerente con la nostra attuale innegabile fatica di vivere, di adattarsi alla crisi, di cercare di andare oltre la brutta stagione.
…….
Di qui, le cinque caratteristiche di questo scheletro contadino che De Rita intravvede come via d’uscita dalla presente condizione di “soli ma senza solitudine” e che individua ne: (1) il primato dell’economia reale; (2) la lunga durata; (3)l’articolazione socio-economica interna; (4) la relazionalità; (5) la rappresentanza, sociale e politica.


Dunque, se si vuole (e De Rita se ne è dichiarato incurante), il mood delle Considerazioni Generali si colora di terragno conservatorismo: La riproposizione potrà apparire un manifesto di orgoglioso conservatorismo, ma ha un sottile vantaggio: quello di esplicitare l’ipotesi che, se è giusto che uomini ragionevoli, quando serve, mettano ordine alla realtà, è anche accettabile qualche volta che sia la realtà a mettere ordine. In questo vale ancora San Tommaso: non ratio est mensura rerum, sed potius e converso.


Bene, fin qui la sintesi che solo nella parte in corsivo rende anche la colta piacevolezza della prosa.
In questi giorni di attesa, ci sia utile riflettere, con pietà ma senza risparmiarci lucidità dell’analisi. Se la ricarica delle nostre spente batterie deve passare per lo “scheletro contadino”, ben venga anche il terragno conservatorismo di De Rita, dopo tanti anni di altrui luccicanti banalità.


3 dicembre 2011

domenica 27 novembre 2011

Per poco ancora ma ancora

Sic transit gloria mundi
(di Felice Celato)



Come avranno notato i pochi amici che visitano questo blog, da qualche giorno mi sono astenuto dallo scrivere: teniamo tutti il fiato sospeso per quello che può accadere del nostro bellissimo e incosciente Paese. Infuria su di noi ed attorno a noi una tempesta dagli esiti imprevedibili, che può travolgere l’Italia e l’Europa e che non si arresta con le sole dichiarazioni del nuovo governo e della zoppa e goffa governance europea.


Tutti i nodi vengono al pettine. Come abbiamo sempre pensato, non sarebbe bastato il (pur assolutamente necessario) recupero di una dignità politica internazionale dopo i tanti mesi di sciagurata gestione della nostra immagine (e non solo di questa), a risolvere i problemi di fondo che da tanto tempo vedevamo con chiarezza. L’aver tardato tanto a divenirne coscienti (in Italia), ha amplificato i rischi di una situazione (nostra) troppo a lungo occultata; ma l’implosione più vasta che rischia di travolgere l’Europa ha anche cause esterne correlate alla debolezza di importanti leadership, esaltata anche – come accade spesso ai deboli – dalla presunzione di poter giocare ruoli impropri e dai “ricatti” dei rispettivi elettorati che non sanno guardare oltre il loro naso.


L’intero mondo è seduto su una montagna di debiti, pari, più o meno, all’80% del prodotto mondiale lordo (noi siamo al 120% del nostro prodotto interno lordo); che i detentori di questi enormi crediti (come tutti sanno ad ogni debito corrisponde un credito) siano in agitazione è fin troppo normale; che la loro agitazione sia concentrata su chi ne ha di più, di debito, può meravigliare solo gli ingenui e i prigionieri delle proprie ideologie, soprattutto se le economie di questi debitori lasciano pensare che non saranno mai capaci di restituire quanto hanno ricevuto in prestito. Molte banche in tutto il mondo hanno investito parte dei depositi che ricevono dai clienti in debiti degli stati e dalla qualità di questi (anche) dipende la capacità delle banche di restituire i depositi ai depositanti, ove questi ne facciano richiesta, come pure quella di prestare denaro a chi ne necessita per sviluppare l’economia. Un loop esplosivo, come facilmente si capisce.


Dunque, come da tempo sappiamo, la situazione è di estrema gravità, per noi soprattutto (indebitati, depressi e, finora, mal guidati) ma non solo per noi. I “pensieri” che sento correre in giro sono da brivido.


Per questo, non ho avuto e non ho voglia di scrivere. Ma oggi mi ha colpito una notiziola che ben accompagna la mestizia che ci pervade: Laura Antonelli, una bellissima sex symbol di qualche decennio fa, compie 70 anni, in miseria, in solitudine, distaccata dal mondo ma – dice il Corriere – in preghiera. Le sventure subite (da un’ingiusta detenzione ad un devastante lifting andato male), la fine del glamour che ne circondava la bellezza e della bellezza stessa, l’abbandono degli amici e l’isolamento dal proprio mondo sembrano essere i capitoli di un’elegia amara della bella vita, che – purtroppo – echeggia, sia pure dal piccolo mondo frivolo dello spettacolo, le vicende di un Paese che ha anch’esso dissipato se stesso.


Per questo, forse e curiosamente, mi ha colpito questa piccola notizia che viene da un mondo cui non ho mai prestato troppa attenzione. Tutti l’avevamo ammirata, la bella e vitale Laura di Malizia, che non ha saputo conservare se stessa nelle maree della vita e che ora comprende la fatuità del proprio trascorso: ha sperperato il suo provvisorio successo, dicono i giornali, ha tentato di arrestare il decorso del tempo sul proprio volto, che costituiva buona parte della sua ricchezza; ma, dicono sempre i giornali, non sembra travolta dall’amarezza, anzi pare distaccata ed assente.


Noi, torno così ai più drammatici casi nostri, non possiamo attendere distaccati ed assenti, per quanto inutili siano i rimpianti su ciò che avremmo potuto essere, e non siamo stati, se solo fossimo stati capaci di dirci come stavano le cose; anche a noi il lifting di debito e svalutazioni alla lunga non è venuto bene, anche noi abbiamo fatto uso di droga autorappresentandoci un mondo dove si può vivere e festeggiare coi soldi degli altri. Noi però siamo ancora in tempo; per poco ancora ma ancora. Seguitiamo ad attendere con fiducia trepidante la misura dell’impatto con la realtà.


Torneremo a parlarne quando ci sarà più chiara la strada.






27 novembre 2011

domenica 13 novembre 2011

Auguri, Italia!

12.11.11


(di Felice Celato)

Non voglio esimermi, dopo un giorno tanto importante quale quello di ieri, dal tracciare un mio breve commento su quello che vedo: non perché senta di avere importanti angoli da porre in luce (ci sono molti, ottimi commenti sui migliori giornali di oggi); ma solo perché, a distanza di tempo, vorrò rileggere, con i soliti amici che mi corrispondono, le impressioni su ore tanto importanti per il nostro Paese quali sono quelle che stiamo vivendo, per verificare – speriamo – la fallacia di tante negative impressioni che ho ricavato seguendo le cronache politiche di queste ore.


Cominciamo dalla situazione che ha determinato queste ore: L’Italia è già scivolata nel burrone della inadeguatezza della sua classe dirigente; ma, per fortuna, l’Italia non è il Paese di terza classe che ha dimostrato di voler essere per troppo lungo tempo: ha radici forti e amor proprio sufficiente per aggrapparsi a se stessa e al suo storico posizionamento internazionale; e i cittadini Italiani stanno capendo molto più di certi loro politici in che condizioni l’abbiamo messa. L’Italia può ancora tornare ad essere un paese serio, come lo è stato in molti passi cruciali della sua storia, anche recente, aggrappandosi agli appigli che anche questo burrone offre ancora alle forti mani dei suoi cittadini, riportati dai fatti alla veglia.


Veniamo alle reazioni della “piazza”: le scomposte piazzate che hanno salutato la resa di Berlusconi non sono degne di un paese serio, conscio della situazione; Berlusconi, dal punto di vista istituzionale, esce meglio di come è stato. Ha governato molto male (secondo me) ma sulla base di un forte consenso democratico; ha sciupato l’immagine e la credibilità del Paese con le sue sguaiataggini e la sua abitudine alla furbizia ma è stato a lungo popolare ed è stato votato con larghezza di consenso. Ha chiesto di approvare la legge di stabilità prima di dimettersi e l’ha, secondo me dignitosamente, ottenuto. Le gazzarre sono inutili anzi dannose.


La soluzione Monti: è, secondo me, la migliore che potevamo mettere al lavoro. Il Presidente incaricato dall’ottimo Presidente della Repubblica è una persona per bene, di grandissima competenza, estraneo ad ogni faziosità, personalmente dotato di una sensibilità civile e sociale assai distante dallo stereotipo tecnocratico che alcuni cercano di cucirgli addosso, dotato di un prestigio internazionale di grandissimo livello. Non è un politico; ma la sua missione non è propriamente politica. Perché sia chiaro: egli è un commissario straordinario per una situazione di straordinaria gravità; deve salvare il Paese dal tracollo e va sostenuto con ogni possibile forza.


Le reazioni della politica: diciamolo subito: ottimamente il Terzo Polo, molto bene anche il PD (Letta e Bersani; meno adeguato il discorso di Franceschini alla Camera), entrambi pienamente coscienti – così mi pare – della eccezionale gravità del momento e della eccezionalità delle misure richieste. Tutto sommato accettabile anche Vendola (verso il cui movimento non ho comprovate ragioni di simpatia, a partire, a ritroso, dall’ultimo referendum); da osservare nei fatti le confuse dichiarazioni di Di Pietro; male o molto male, direi, tutti gli altri. Quelli che per anni hanno beffeggiato la storia del paese tirando fuori ad ogni piè sospinto lo slogan stucchevole del teatrino della vecchia politica, dopo tanti mesi di loro cabaret, non sono usciti dalla loro prigione culturale ed hanno inanellato una serie di prese di posizioni politicistiche degne di quel passato che deridono ma, nella fattispecie, assolutamente incongrue, del tipo: “vogliamo prima vedere il programma”, “vogliamo vedere la squadra”, “quando vorremo staccheremo la spina”, “il governo deve essere a termine”, “vogliamo questo o quell’altro ministro”, “questo governo non è stato eletto dal popolo”, etc.etc.etc. L’abissale irresponsabilità di questi tentativi di ipotecare politicamente il governo “commissariale” che il prof. Monti deve faticosamente mettere in piedi ( e che spero vivamente duri fino al 2013, altroché “presto alle elezioni”!) è espressa meglio che da qualsiasi discorso da questo semplice dato: di qui alla fine del 2012 l’Italia ha circa 300 miliardi di € di titoli di Stato in scadenza e da rinnovare, circa il doppio di quelli faticosamente e onerosamente rinnovati quest’anno! 500 punti base in più (rispetto alla Germania) solo su questo massa di debiti vale 15 miliardi di € in più di intereressi da pagare, da parte di tutti i cittadini (250 € a cranio), che si aggiungono ai circa 80 miliardi comunque già da pagare (1300 € a cranio, compresi quelli vuoti!). E ciò che vale per i cittadini (maggiori interessi da pagare) varrà anche per le imprese Italiane che dovrebbero invece competere sui mercati con imprese tedesche e francesi e spagnole e inglesi, per ridare slancio allo sviluppo! Altro che “ricatti della signorina spread!”. Per favore, l’abbiamo già detto, non scherziamo col fuoco, perché ci faremmo molto molto male!


Conclusioni: le cose che Monti dovrà fare non saranno, nel breve, piacevoli per nessuno; e tanto più spiacevoli saranno, tanto meglio faranno nel lungo termine; ma vanno fatte assolutamente per il bene di tutti e vanno fatte subito. L’Italia ha l’occasione di ri-uscire dal baratro; per ora annaspa in cerca dell’appiglio che pure ha individuato e che la può trattenere almeno sul bordo e darle la possibilità di uscirne. Le chiacchiere della peggior politica e le sguaiataggini della piazza non sono un buon viatico!


Auguri, Italia!






13 Novembre 2011, ore 17

mercoledì 9 novembre 2011

Il "fai da te", precipitando

Idee
(di Felice Celato)

L’iniziativa del dott. Melani (l’imprenditore, mi pare, toscano, che sul Corriere della Sera del 4 novembre ha pubblicato a proprie spese un appello agli italiani perché sottoscrivano titoli del debito pubblico italiano) sta avendo corso con un successo che non può non confortare; prima di tutto per la natura dell’iniziativa (un’azione chiara, spontanea, responsabile e disinteressata invece di tante chiacchiere), poi per i presupposti (la breve ed impressionante elencazione dell’origine del problema è una delle rarissime operazioni di brutale verità che siano state fatte sul debito pubblico italiano); ed infine per l’eco positiva che ha suscitato, andando a scuotere le fibre di un amor patrio che sembrava morto. Onore quindi al dott. Melani ed alla sua iniziativa.


Detto ciò, però, vorrei formulare alcune considerazioni di natura certamente meno nobile di quelle che hanno ispirato il dott Melani ma che forse non sarebbero inutili presso i tanti politici che, come è loro costume verso ogni cosa che denoti possibilità di successo, hanno prontamente sponsorizzata (con calde parole, di cui sono spesso prodighi, quando qualcosa non li tocchi) l’idea di Melani.


La logica dell’iniziativa è scambiare la ricchezza delle famiglie con titoli del debito pubblico italiano; l’effetto desiderato non è quello, ovviamente, di ridurre il debito pubblico (sempre di debito stiamo parlando; o è debito già in mano a terzi o debito di nuova emissione; ma sempre debito è quello che dovremmo “accollarci”) ma di dimostrare verso esso un interesse di mercato (e per di più proveniente dal mercato “minuto” degli italiani) che valga a far percepire la fiducia degli italiani stessi verso il proprio paese e quindi anche a contenere la crescita del costo di tale debito correlata, invece, alla diffusa sfiducia verso l’Italia, a torto o a ragione diffusasi sui mercati (e io dico, vedendo il marasma politico in cui versiamo, a ragione).


Nello stesso spirito, mi permetto di suggerire una profonda modifica alla logica dell’operazione: non scambiare ricchezza delle famiglie contro debito pubblico, ma ricchezza delle famiglie contro patrimonio pubblico, ovviamente per ridurre il debito dello stato.


Mi spiego meglio tornando ad enunciare per sommi punti la logica dell’idea:


1. mettere una consistente parte del patrimonio dello Stato (azioni quotate, azioni non quotate e immobili) in un fondo, gestito da un’apposta SGR, magari a controllo pubblico;


2. imporre una patrimoniale su immobili (esclusa prima casa) e ricchezza mobiliare delle famiglie;


3. compensare lo sforzo eccezionale così richiesto alle famiglie dando in cambio a chi ha pagato la patrimoniale una certa proporzione di titoli del fondo come sopra creato;


4. destinare, ovviamente, il gettito della patrimoniale a riduzione del debito pubblico (in un colpo solo, molti miliardi di euro) e l’economia di interessi che via via si genererà sul bilancio pubblico (minor debito = minori interessi, e forse anche minori tassi) a riduzione delle imposte ordinarie sui redditi, per favorire la ripresa dei consumi e sostenere il reddito disponibile dei meno agiati.


Lo spirito è lo stesso di quello del dott. Melani (chiamare le famiglie a concorrere al risanamento del debito pubblico); l’effetto sarebbe però più radicale, sia sul piano finanziario (riduzione del debito e degli interessi), sia su quello degli effetti sui mercati (sarebbe una clamorosa operazione fiducia!) , sia infine sul piano, per così dire, pedagogico (gli Italiani imparino a diffidare dei politici che promettono solo spese, perché poi alla fine il conto lo pagano loro, gli italiani, intendo dire).


Però l’iniziativa del dott. Melani ha un grosso vantaggio su quella che siamo venuti esponendo: non richiede il concorso della politica, che in questo momento sta dimostrando una clamorosa povertà di idee e di coraggio.


L’Italia non è più sull’orlo del baratro, come ormai per mesi si è detto: è nel baratro! Ancora con qualche possibilità di salvarsi, contando sugli stamina dei suoi cittadini, ma ha bisogno subito di un colpo di reni e di misure forti (altroché il monitoraggio delle transazioni in contanti superiori ai 500 €, come pure, con madornale incongruità di merito e di tempi, sento dire!): non vedendo chi le stia apprestando, rinnovo i miei complimenti al dott Melani!

9 Novembre 2011

domenica 6 novembre 2011

Stupi-diario contento

Cronache di ordinaria banalità
(di Felice Celato)


Oggi lo stupore del nostro diarietto curioso ha un tono lieto: finalmente una buona sorpresa, ancorché generata da una triste circostanza!


Spiego subito, attingendo dal Corriere della sera di oggi (pagina 6) la buona notizia: pare che si stia determinando “in rete” una specie di “indignata” (che straordinario successo per questo aggettivo!) sollevazione popolare contro una giornalista del TG2 che ha incalzato con domande a dir poco incongrue (la solita, banale caccia alle sensazioni vestita da intelligente introspezione: “Che cosa hai provato?”) un ragazzino di 16 anni che aveva appena perso sua madre nella tragica alluvione di Genova.


Buon segno! Si vede che questo modo di fare giornalismo, che da tempo mi preclude la calma fruizione (nel senso che , come direbbe Totò, “escandesco” ) di ogni servizio televisivo dedicato a fatti di cronaca nera o tragica che sia, comincia (era ora!) a nauseare anche …..”la rete” (ormai sinonimo evoluto del superato “gente”).


E’ veramente ora di dire basta alla ritualità frivola di questo (fintamente) emozionato emozionismo che, non solo specula sui sentimenti e i dolori delle persone, ma anche esalta, talora, le reazioni e le pulsioni più sconvolte ed istintive. Per carità!, nessuno nega che reazioni istintive e pulsioni siano pienamente umane e in molte situazioni anche comprensibili; ma certamente fanno parte di quel vasto modo della nostra umanità, per sua natura, destinato a restare intimo e che quando vuole manifestarsi, per restare integralmente umano (e quindi non solo pulsionale), deve essere mediato e ricomposto dalla ragione.


Questo vale per il dolore e le sue manifestazioni ed anche per l’umana disposizione al perdono da parte delle vittime indirette di fatti di cronaca nera: quante volte sentiamo porre, con untuosa insinuazione e voce impostata, la domanda "intelligente": “Ma lei perdona chi le ha fatto tanto male?”, magari quando il sangue delle vittime è ancora caldo? Che senso banale diamo, in questo modo, alla dimensione sublime del vero perdono, al suo significato puro e purificante, che comunque richiede un travaglio interiore e una raffinazione del sentimento forte e delicata ad un tempo?


Dunque se comincia una reazione diffusa a questo tipo di giornalismo, bene, molto bene, per una volta ci stupiamo con favore! Speriamo che i direttori  di telegiornali (e di giornali) ne  tengano conto.


6 novembre 2011

venerdì 4 novembre 2011

Letture per una speranza civile

L’eclissi della borghesia

(di Felice Celato)

Come sanno tutti i miei “corrispondenti intellettuali” (cioè gli amici preziosi con cui mi piace – e mi fa bene – scambiare opinioni sul mondo, su come va e su come vorremmo che andasse), da molti anni sono un attento lettore di Giuseppe De Rita ed un estimatore ammirato del modo, lucido e ad un tempo pietoso, con cui guarda alle vicende del nostro Paese, con scorci di intuizioni talora forse un po’ visionarie ma sempre confortate da un ricco patrimonio di evidenze e da analisi quantitative accurate ed affidabili (come possono esserlo le indagini sociologiche).


Anche questo suo nuovo libro L’eclissi della borghesia, Laterza, 2011 (scritto in collaborazione con Antonio Galdo) non mi ha deluso.


L’evidente eclissi della borghesia italiana ( qui la borghesia è intesa non nel senso in cui la intendevano i vetero social-comunisti ma come la classe sociale con una funzione politica, come l’ avanguardia che produce movimento, mobilità, sviluppo e che vive il senso di una responsabilità collettiva; in altri termini come l’ossatura della classe dirigente di un Paese) viene analizzata brevemente nelle sue dinamiche storiche e nelle sue conseguenze sociologiche e politiche.


A questa eclissi ha corrisposto l’impoverimento della vita politica italiana e l’arroccamento dell’humus naturale della borghesia nel “presentismo” di una “cetomedizzazione” abdicativa e pavida del futuro, fatta di derive corporative e familistiche, localistiche ed isolazioniste al Nord e disimpegnate ed opache al Sud dove non sono mancati fenomeni estesi di resa al degrado.


Eppure, e questa è la benefica visionarietà di De Rita, partendo dalla singolare resilienza che – secondo De Rita – la nostra società nel suo complesso ha saputo ( anche in tempi economicamente così inquietanti come i presenti ) esprimere nel profondo, è possibile “nutrire nuove speranze facendo affidamento su alcuni segnali di un’inversione di tendenza”. E quali sono questi segnali, che, tutti insieme, chiamano in causa una rinnovata borghesia? Anzitutto l’esaurimento del lungo ciclo della soggettività (del quale Berlusconi è stato il più abile rappresentante politico), ove al primato dell’io sono stati piegati leggi naturali, codici morali e persino il peccato, ridimensionando anche il ruolo della Chiesa Italiana (peraltro non immune anch’essa da angusti arroccamenti, che ne hanno determinato la crisi presente); poi la ripresa di forme di partecipazione collettiva che si esprime anche in un forte volontariato ed in una spinta all’autorganizzazione (qui il richiamo è alla Big Society di Cameron, ma anche, aggiungerei io, a quanto va proponendo Pellegrino Capaldo nel suo Progetto su www.perunanuovaitalia.it )ed alla sussidiarietà civile.


In sostanza, concludono De Rita e Galdo, “le acque immobili di questa palude stagnante che è oggi la società italiana, possono essere agitate anche da un rilancio delle virtù civili che partono dal profondo della nostra coscienza e non da semplici pulsioni individuali”;il tutto a condizione che si determini in noi un ardore, di qualcosa che brucia dentro di noi.


Bene; questo è il piccolo ma non trascurabile libro che consiglio a tutti di leggere: comunque fa bene pensare che chi è tanto solido (e lucido) nell’analizzare i mali della nostra società e della nostra cultura anche civile, comunque coltivi “nuove speranze”, per le quali, da parte mia, non posso che desiderare analogo fondamento.

3 Novembre 2011 (vola lo spread ma noi pensiamo al π, quota 3,14)

domenica 30 ottobre 2011

Un film da vedere

Il villaggio di cartone

(di Felice Celato)


Chi mi conosce sa bene che non sono un frequentatore di sale cinematografiche (il solito fastidio – snobbistico – per tutti i riti collettivi!) anche se, poi, magari con clamorosi ritardi, i film che valeva la pena di vedere credo di averli visti più o meno tutti (e, alcuni, amati, come autentici capolavori dell’arte e della rappresentazione dei sentimenti). Figuriamoci quindi se posso impalcarmi a sottile critico cinematografico!


Eppure un commento allo splendido film Il villaggio di cartone, di Ermanno Olmi voglio tentarlo, non foss’altro per mettere in ordine il guazzabuglio di forti commozioni che il film mi ha suscitato.


Sarà per vecchiaia o per altri motivi più miei, ma, ormai, i temi che mi commuovono di più (o, forse, gli unici) sono quelli che hanno a che fare col rapporto dell’uomo con Dio, i temi della angosciosa ricerca religiosa che si alimenta dell’inquietante silenzio di Dio o della Sua misteriosa esile voce potente. Per questo il film di Olmi mi è parso, come dicevo, uno straordinario capolavoro di grande intensità, tale da suscitare forti commozioni non solo estetiche (le scene e la recitazione sono superbe!) ma anche intellettuali.


La vicenda, che ha un’importanza molto relativa, è semplice: una chiesa sconsacrata, la grande commozione del vecchio prete che per cinquant’anni ne era stato il parroco, l’occupazione della chiesa da parte di clandestini africani reduci da uno dei tanti naufragi di disperati, la loro interazione col vecchio prete conquistato dal suo proprio spirito di carità, la loro breve permanenza anche turbata dalla “caccia” poliziesca ai clandestini, i loro sentimenti ( di disperazione ma anche di rivolta), la loro uscita di scena per un altro viaggio della disperazione verso la Francia, mentre alcuni di essi, forse, si lasciano conquistare dall’abominio del terrorismo.


L’apparato simbolico è imponente e straordinariamente suggestivo: dalla scena iniziale del crocefisso calato con le funi mentre il vecchio prete ripete un disperato Kyrie eleison, al fonte battesimale utilizzato per raccogliere l’acqua che cade dal tetto e che poi serve a dissetare i clandestini, alle tende costruite nella chiesa, simili ad un presepio, alle immagini di una madre nera che tiene un bambino come lo fanno le tante Madonne della nostra storia dell’arte, ai rumori sordi della “caccia” (elicotteri, sirene,etc), alla televisione senza audio che manda le immagini della barca del naufragio, con le vele strappate pendenti da un albero a forma di croce. Alcune scene,poi, sono di struggente intensità: cito fra tutte quella, veramente commovente, in cui il vecchio prete canta con voce incerta un Adeste fideles, faticosamente genuflesso di fronte ad un piccolo crocefisso montato su quel che restava dell’altare, quando, nella ex-chiesa, nasce un bambino fra i clandestini.


Ma il cuore “intellettuale”del film sta tutto nelle riflessioni del vecchio prete (interpretato magistralmente da Michael Lonsdale), anzitutto lungo il sofferto percorso col quale giunge a sperimentare una sorta di interiore gerarchia (tutta pienamente Paolina, per la verità, cfr 1 Cor. 13,2 ) fra le virtù della fede e della carità; poi, anche – ma qui il tema si lascia cogliere con maggiore sottigliezza – nella sua allusiva percezione del soverchiante peso della storia (degli uomini) sulla fede, non solo quella cristiana ma anche quella mussulmana che si percepisce fra i clandestini (il tema emerge con qualche maggiore esplicitazione nel colloquio con un anziano medico che confessa al vecchio prete il suo scetticismo e la memoria di una preghiera che aveva fatto tanti anni prima, nel campo di Auschwitz). E anche a questo soverchiamento, la risposta viene al vecchio prete dall’”obbligo” tenace della carità, che dà senso anche alla storia e pone fine alle inquietudini. Il tutto, con buona pace di qualche critico alla ricerca di ideologie, direi profondamente cattolico.


In definitiva un film “forte” da vedere con l’animo disposto alla commozione ed alla riflessione (domenica pomeriggio, sala piccola da 69 posti, di cui una quindicina occupati, età minima direi cinquanta anni, peccato!).


30 ottobre 2011

venerdì 28 ottobre 2011

Manovra furba?

Non scherziamo col fuoco!
(di Felice Celato)
Non vorrei che la "manovra triste" dell' estate, di cui avevamo parlato (e della quale avevamo regolarmente previsto l’insufficienza, cfr. su questo blog , post del 7 settembre 2011, "Ancora, inevitabilmente, sulla manovra") sia diventata la (bozza di una) manovra furba d’autunno: non abbiamo bisogno di ulteriore discredito, nemmeno per azioni in linea con gli stereotipi più correnti sull’Italia.[Non sono incline ad attribuire autorità né Vetero né Neo Testamentarie all’Economist ma la lettura dell’articolo “A tale of two Italians”, pubblicato sull’edizione del 29 ottobre, mi pare istruttiva, come pure la grafica spietata che lo accompagna!]


Il tempo dei furbi è passato, da tempo; se non ce ne siamo accorti, in poche settimane lo constateremo con ulteriore pena.


E’ troppo presto per dirlo con certezza ma non troppo presto per temerlo. Non ci vorrà molto per scoprire le carte.


Il Governo ha fatto (male, dal punto di vista politico) il suo mestiere, rendendosi conto (o fingendo di rendersi conto, sia pur tardivamente e frettolosamente) della gravità dei problemi e della urgenza di soluzioni che valgano a dissipare il rischio che l’Italia possa diventare l’affossatrice dell’euro e dell’Europa. Le misure che ha progettato (un misto di buone idee, di velleità e di astuzie) sono apparse (o, meglio, sono dovute apparire) come rispondenti alla bisogna. Se (e sottolineo il se) in esse sono presenti delle macchinazioni elettoralistiche (del tipo: se riesco a fare in poche settimane ciò che non ho fatto in tanti anni, sono il salvatore della patria; se non riesco, sarà colpa dell’opposizione comunista ed irresponsabile), allora la vicenda finirà male comunque per noi. L’opposizione deve ora fare bene il suo mestiere, dando priorità agli interessi del paese, sacrificando quelli delle consorterie e delle ideologie che ad essa fanno capo e mettendo da parte le sue priorità politiciste. Il PD deve decidere se sceglie l’opzione oltranzista o se vuole presentarsi come possibile partito di governo, in grado di occupare anche gli spazi che la frana dell’attuale maggioranza offrirà. Le premesse non sono buone.


Il momento continua ad essere drammatico (per noi), non ostanti i rimbalzi di borsa. Il fallimento (mascherato) della Grecia, l’eccezionale e controverso sforzo richiesto alle banche ( ed ai loro azionisti) e le perdurati incertezze sui meccanismo del cosiddetto fondo salva stati, sono dei moniti minacciosi.


Non scherziamo col fuoco!

28 ottobre 2011

mercoledì 19 ottobre 2011

Tragiche pesature

Shalit

(di Felice Celato)

Volevo evitare di soffermarmi a riflettere sullo scambio fra il caporale Shalit e 1000 prigionieri palestinesi: in fondo l’amore per la vita del popolo ebraico non mi pareva meritare perplessità nè considerazioni di carattere morale sulla “equità” di queste tragiche pesature.


Ma francamente il coro di considerazioni “politically correct” circa la vittoria di entrambi i fronti “negoziali” mi ha (rapidamente) irritato e tolto la voglia di sottrarmi alla solita accusa di faziose visioni filo israeliane.


Certo, se il frutto dello scambio sarà un frutto di pace, ben venga qualsiasi scambio, anche il più scellerato. Ma purtroppo credo che così non sarà (come al solito e più del solito, spero di sbagliarmi, ma temo di vedere con chiarezza).


Lo scambio fra Shalit e i 1000 prigionieri palestinesi nasce sotto l’ombra di una profonda amarezza che pervade l’intera società israeliana, al di là di qualche (magari assennata) considerazione politica e della naturale, grande felicità per il ritorno a casa del giovane caporale dell’IDF: per rendersene conto, basta scorrere i commenti che nel libero paese di Israele, come in qualsiasi altra democrazia occidentale, ciascun lettore può scrivere sulle edizioni in inglese dei giornali locali diffuse via internet.


Shalit poteva essere ben considerato dai suoi “rapitori” politicamente colpevole (di essere Israeliano e di combattere per il suo paese); ma certamente doveva esser considerato personalmente innocente (come lo è qualunque soldato che adempie al suo dovere, senza macchiarsi di colpe personali); i 1000 palestinesi, di converso, potevano ben essere considerati politicamente coplevoli dai loro carcerieri ma altrettanto dovevano ben essere considerati personalmente colpevoli, in gran parte di atti di terrorismo perpetrati per scelta personale. E dunque, lo scambio non avrebbe mai potuto essere alla pari anche se fosse stato effettuato uno contro uno.


Invece lo scambio è stato fatto uno contro mille: il caporale Gilad Shalit, per i Palestinesi, vale un millesimo di un terrorista, peggio di un  innocente (possibilmente ebreo) che valeva un decimo di un soldato nazista (Roma, Fosse Ardeatine).


Queste tragiche disequivalenze di vite ( e di morti) non hanno mai portato alla diminuzione dell’odio e temo che non la porteranno nemmeno fra Israeliani e Palestinesi (i precedenti sono molto negativi; i servizi israeliani calcolano che il 60% dei prigionieri liberati torna ad attività terroristiche); fra l’altro la mediazione dei Fratelli Mussulmani d’Egitto, appare foriera di altre inquietudini che non è il caso di riprendere qui, anche se, forse, vale a sottrarre Hamas all’influenza ben peggiore del regime di Teheran.


Scrive Gideon Levy su Haaretrz di oggi: “la gioia in Israele per la liberazione di Shalit e quella di Gaza per il ritorno dei prigionieri Palestinesi è un breve sollievo, una specie di break commerciale che interrompe la danza di morte e disperazione che accompagna questo interminabile conflitto sanguinoso”. Speriamo che si sbagli anche lui.




19 ottobre 2011

sabato 8 ottobre 2011

Stupi-diario senza parole

Le donne e il dibattito sulla legge elettorale
(di Felice Celato)


Lo stupi-diario di oggi è senza parole, per eccesso di stupore (e di ….. perplessità); mi limito solo a segnalare la notizia (Corriere della sera di oggi 8 ottobre 2011, pagina 10), senza trovare il bandolo di un commento.


Una onorevole deputata dal cognome importante (on.le Alessandra Mussolini), nota anche per le sue (giuste) “battaglie a favore delle donne”, ha, in radio, “ironizzato così” sul nome “ideato dal premier per sostituire il PdL” (i virgolettati si riferiscono al testo del Corriere) : “Forza Gnocca? Lo adoro. E' nazionalpopolare, unirebbe il Nord al Sud e prenderebbe un boato di voti.” E più oltre: “Il premier ha detto: mica lo vorremo chiamare così…..Sono stati gli altri deputati presenti a bisbigliare quest’ipotesi: c’erano Mario Landolfi, Renato Farina…Poi è chiaro che noi donne ci siamo messe a ridere….ma non vedo dove sia lo scandalo. I veri problemi sono altri. Come il fatto che le donne siano escluse dal dibattito sulla legge elettorale. Il resto sono stupidaggini”.


Non ho, come dicevo, commenti da suggerire. Sono però rimasto molto preoccupato del fatto (che ignoravo ) che le donne siano escluse dal dibattito sulla legge elettorale. E confortato del fatto che l’ipotesi di nuovo nome sia stata bisbigliata.


8 ottobre 2011 (il giorno successivo al downgrading di Fitch)


sabato 1 ottobre 2011

Stupi-diario del 1°ottobre

Politici offesi
(di Felice Celato)

Dunque Diego Della Valle ha comprato ampi spazi su molti giornali per gridare “Politici ora basta”. Un j’accuse, come scrive ogni buon giornalista che si rispetti, nuovo (o quasi) nelle modalità, (forse) non atteso da una fonte così particolare, non nuovo nei contenuti ma certamente robusto nei toni e significativo nel tempo scelto.


Ed eccoci ai commenti (fonte: corriere della sera.it di oggi): consueti distinguo ed appelli alla responsabilità (John Elkan), incongrue ironie di La Russa, vuote battute della Bindi (calzata Tod’s), letture partitiche di Cicchitto, banalità della Camusso (“bisogna stare attenti a chi scaglia la prima pietra”); anche qui, nulla di nuovo né, mi sia consentito il dirlo, di notevole. Più attenti alla sostanza Casini (“siamo contenti che ci sia una chiamata di corresponsabilità e una unione perché il paese così non può andare avanti”) e Maroni (“sono parole pesanti e con i dovuti distinguo sono almeno parzialmente condivisibili”). Più centrato e profondo il dubbio di Profumo, che in buona parte condivido (“l’idea e il pensiero che la società civile sia così meglio della classe politica, è proprio sbagliata”).


La vera sorpresa viene però dalla Ministra della Pubblica Istruzione Gelmini, che, reduce da un infortunio mediatico non trascurabile, (sempre per dirla da buon giornalista) si scaglia oggi contro chi “acquista pagine di giornali per sporcare la politica”: ma come? Sono mesi che leggiamo ogni giorno di intrecci puttaneschi ( veri o presunti, qui non importa) fra politica ed affari, di presunte battute irresponsabili su capi di stato esteri, di corruzioni e mazzette, di parlamentari che dicono in pubblico il contrario di ciò che dicono in privato, persino la CEI, “lento pede”, solleva con vigore il problema del decoro delle istituzioni pubbliche e della vita pubblica; e mentre corre tutto ciò in Italia da mesi, secondo la Gelmini chi pubblica un attacco anche durissimo ma frontale ai politici (mi pare – anche a giudicare dalle reazioni – senza distinzione di parte) agisce “per sporcare la politica”? Non si è, purtroppo, la politica, da sola, già sporcata abbastanza?


Mi viene in mente una brevissima favola di Trilussa (“Rimedio”) che, per carità, allude a ben altri vizi e, per di più, dell’umanità nel suo complesso ma che, in un senso più ampio, può applicarsi al quadro che ci occupa:


Un lupo disse a Giove: - Quarche pecora
dice ch'io rubbo troppo... Ce vô un freno
per impedì che inventino 'ste chiacchiere... -
E Giove je rispose: - Rubba meno.


Certo, se ha ragione Profumo (cosa che ritengo possibile), a risentirsi dell’iniziativa di Della Valle dovrebbe essere anche la cosiddetta società civile (del resto non risparmiata dallo stesso Della Valle); ma non credo che la politica, onorevoli Bindi, La Russa, Cecchitto e Gelmini, abbia titolo per chiamarsene fuori e per scandalizzarsene!


1° ottobre 2011

mercoledì 21 settembre 2011

Divagazioni sulla speranza

Prendendo spunto da una predica.
(di Felice Celato)

Domenica ho ascoltato una bellissima predica, alla chiesa del Gesù di Roma, alle 10 (P. Ottavio De Bertolis SJ, chi non ha ascoltato mai le sue omelie, lo faccia; ne vale … il piacere!) a proposito della parabola degli operai (Mt. 20, 1-16). Chi non la ricorda? [In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. ……. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna……..]



Tante volte l’abbiamo sentita commentare, questa parabola, con riferimento alla liberalità dell’amore di Dio o anche alla “gelosia” di coloro che si ritengono i cristiani “della prima ora”, quelli che erano stati chiamati per primi e che ricevevano niente più del pattuito; stavolta mi ha colpito l’ attenzione dedicata ai chiamati “dell’ultima ora”, a quelli che nessuno ha preso a giornata ma che alla fine ricevono quanto è stato promesso agli altri.


Sono, quelli che nessuno ha preso a giornata, i disperati, quelli che hanno perso la fiducia di essere utili, quelli che hanno cercato ma apparentemente non sono stati trovati; e che quando lo sono (trovati), scoprono di essere stati fin dall’inizio preziosi, forse più preziosi degli operai “della prima ora”. Ma siamo anche tutti noi, tanto spesso, quando perdiamo l’energia della speranza, quando dimentichiamo che le nostre vie non sono le Sue vie (Is. 55, 6-9), quando siamo deboli e non percepiamo che è nella nostra debolezza che si manifesta pienamente la Sua potenza (2 Corinzi, 12, 9-10)


Al di là della bella omelia e del suo svolgimento profondamente spirituale (che non tento nemmeno di sintetizzare; e questo non ne sarebbe nemmeno il luogo!), mi è piaciuto cogliere, in questo momento molto grave per il nostro Paese, il richiamo ad una virtù teologale che è sempre stata, per me, una virtù difficile e, mi permetto di dire, ambigua: che cosa è “lecito” sperare ad un cattolico? Solo ciò che è connesso a ciò che crediamo per fede (Fede è sostanza di cose sperate e argomento delle non parventi, qui Dante traduce San Paolo), cioè il disegno di salvazione che culmina nella vita eterna, dove ogni lacrima sarà asciugata? Ovvero esiste, nel perimetro della nostra fede, anche una speranza “civile”, “umana”, che è connessa ai nostri destini terreni, quando i contorni dell’esistenza si fanno oscuri? Questa speranza “civile”, che pure appare tanto radicata nella teologia della storia nell’Antico Testamento (basta leggere il salmo 121: Il custode di Israele) si è dissolta nella teologia della croce? E alla teologia della croce è estranea una speranza in Dio correlata al dipanarsi delle vicende umane?


Interrogativi molto pesanti, almeno nella mia sensibilità; che senz’altro richiederebbero una profonda preparazione teologica che so bene di non possedere. Eppure mi fa piacere pensare che non sia vano il pregare per le sorti dell’uomo (o di una comunità di uomini), quando tutto sembra bloccato dalle volontà cieche dell’uomo, quando la depravazione ha consumato  i suoi effetti e nulla sembra sorgere all’orizzonte su cui basare una “ragionevole speranza” di redenzione terrena.


Viviamo un tempo molto cupo, almeno da noi; un analista economico che guarda professionalmente alle nostre vicende mi diceva oggi che gli sembra che i nostri sforzi di uscire dal presente in cui ci siamo cacciati gli appaiono un hopeless exercise, un esercizio destinato al fallimento.


Qualcuno potrebbe, forse a ragione, inorridire di fronte a questa commistione di temi. Forse però molti non hanno capito di fronte a quale baratro (economico e civile) siamo arrivati; oppure io leggo le notizie con animo troppo trepidante? E’ fuori luogo che l’unico pensiero che mi si affaccia alla mente è quello della barca travolta dai venti? E allora, mi viene da dire: “Signore, non ti importa che moriamo?


Le ho chiamate, queste riflessioni, “divagazioni sulla speranza”. Già, forse, solo divagazioni della prima giornata d'autunno. Senza senso......speriamo.


21 settembre 2011

lunedì 19 settembre 2011

Stupi-diario amaro

"Il minimo calorico"

(di Felice Celato)


Sul Corriere della sera on line leggo oggi questa notizia:
Solo panino e succo a chi non paga
In mensa ricevono soltanto un panino e un succo di frutta, mentre ai compagni viene servito il pasto completo. Succede ai bambini della scuola elementare di Cesate, da giovedì scorso, dal quando è partito il servizio di refezione. La punizione sarebbe destinata ai genitori, furbetti o semplicemente poveri, che per una ragione o per l'altra non sono in regola con i pagamenti. Ma la vendetta viene servita a bambini dai sei ai dieci anni e proprio in un luogo e in un momento che dovrebbero essere educativi.”


Non voglio commentare il fatto, di per sé non certo confortante né sul piano educativo né su quello sociale (per i disagi che certamente denota).


Ciò che mi ha impressionato sono i commenti: la notizia era delle 12, 05 ; io l'ho vista nella pausa pranzo, diciamo alle 13,15; ebbene c'erano già 44 commenti, la gran parte dei quali improntata alla durezza: bene, era ora!, giusto! giustissimo!,corretto!, finalmente!, la scuola non è beneficienza!, l'azienda che gestisce la mensa non è la Caritas!, chi non paga non ha!, non è che il bimbo muore di fame, ha anche un "minimo calorico" ugualmente concessogli, etc. Le considerazioni a supporto dei commenti “positivi”, espresse quasi tutte con linguaggio mediaticamente convenzionale ( furbetti, buonismo, più controlli, si rivolgano al Premier, magari i genitori hanno il SUV, etc), avevano tutte un sapore di rigorosa razionalità sociale, amministrativa, equitativa, quasi come se l'Italia fosse un paese di perfetti cittadini, potenziali ottimi amministratori e di tassonomici soppesatori di valori.


Non mi interessa nemmeno discutere la fondatezza di questi sistemi di giudizio; solo mi preme notare la quantità di (non cieco, ma) ragionato rancore che la gran parte di questi quasi istantanei commenti trasuda: in molti hanno avuto fretta di gridare il loro punto esclamativo, severo, rigoroso, insofferente di altre ragioni, sommario, inappellabile.


Bene, direbbe un inguaribile ottimista, possiamo stare tranquilli: potremo contare su molti cittadini modello sui quali ricostruire un Paese più giusto! Vedremo.


Male, molto male, dico io che – dicono – sono incline al pessimismo: con quello che ci aspetta in questo tragico autunno, queste dosi massicce di rancore che circolano nel sangue del nostro popolo non possono che portare male, molto male: "E poiché hanno seminato vento raccoglieranno tempesta. Il loro grano sarà senza spiga, se germoglia non darà farina, e se ne produce, la divoreranno gli stranieri "(Osea, 8,7). Spero di sbagliarmi, naturalmente.


19 settembre 2011







lunedì 12 settembre 2011

"Sentinella,quanto resta della notte?"

"Sentinella, quanto resta della notte?" (Isaia, 21,11)
(di Felice Celato)

Leggendo i commenti dei più autorevoli commentatori politici in questi giorni di sospensione ed attesa, mi veniva in mente questo versetto di Isaia  ed il suo enigmatico seguito (Sentinella quanto resta della notte? La sentinella risponde: "Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!") che tanti affanni ha creato agli esegeti.


La famosa manovra non ha ancora completato il suo iter approvativo e già c’è chi ci chiede ulteriori misure “qualora le entrate derivanti dal fisco siano minori di quanto previsto e se vi fossero difficoltà a tagliare la spesa come stabilito” (cfr Corriere della sera.it, oggi, 12 settembre).
E’ possibile che il testo appena citato sia stato scritto qualche giorno prima dell’approvazione dell’ultima versione della manovra; ma è certo – e ne sono testimonianza l’odierno spread sui Bund, salito a 380 bp, ed il costo dei CDS sull’Italia che ha ormai sfondato i 500 bp (cfr Firstonline.info di oggi) – che il nostro Paese soffre di un (inevitabile) deficit di credibilità ancora più grave dei suoi problemi di debito e non ostante la supposta sufficienza contingente delle misure in corso di adozione.

Il problema torna a dimostrarsi per quello che è: la compagine politica (e forse, ancora più profondamente, sociologica) del Paese non appare, a chi la osserva da fuori senza le lenti rosa che ci siamo imposti, adeguata alla natura, alla vastità, alla complessità ed all’urgenza dei problemi che abbiamo tutti insieme di fronte, dopo anni di inutili proclami, dopo tanti impegni solenni, dopo tanti anni di fuga dalla realtà.

Già, quanto resta di questa notte del nostro presente incerto e tormentato? Quanto tempo durerà ancora questa eclissi della verità e della responsabilità che ci impedisce di vedere con chiarezza la strada da percorrere, di valutarne le difficoltà e di commisurarle alla nostra tensione verso il futuro? Per quanto tempo ancora dovremo ascoltare le bugie di cui sono condite le nostre irresponsabili  autorappresentazioni? Per quanto a lungo dovremo nutrirci di rancori reciproci e di artate deviazioni dalla cruda realtà in nome di esigenze elettorali, di clientela, di fazione, di corporazione?

Non riesco a prevederlo; so solo che non riconosco più l’Italia delle sue migliori e non lontane memorie.
Scrive il direttore del Corriere della Sera che dobbiamo e possiamo farcela da soli. Dobbiamo e potremmo, verrebbe di pensare anche a me. Ma solo quando la notte sarà passata. E quando sarà possibile (prima di tutto a noi stessi) di nuovo credere in noi.


12 settembre 2011

mercoledì 7 settembre 2011

Ancora, inevitabilmente, sulla manovra

Manovra "triste"?
(di Felice Celato)


Un (inevitabile) commento breve sulla manovra ormai “in dirittura d’arrivo”, per dirla con una banalità tipicamente televisiva.

Un mio amico l’ha acutamente definita una manovra triste e la definizione mi ha convinto e fatto riflettere.
Perché questa manovra, al di là della sua possibile contingente sufficienza, appare (anche a me) triste? Anzitutto perché ogni manovra che “mette le mani in tasca agli italiani”, come dicono con turpe senso civico alcuni, è per forza triste perché preannuncia sacrifici e sacrificarsi non piace a nessuno. Ma non è questo il senso dell’aggettivazione.
Questa manovra è, ben più a ragione, triste perché:


• essa è frutto di un orrido percorso fatto di veti populisti incrociati. L’Italia ha dato una pessima immagine di sé, prontamente rinfacciataci da molti;


• perché essa rappresenta un’occasione persa: gli Italiani erano aperti, stavolta, a fare i conti con la verità ma l’operazione verità è stata ancora una volta elusa. Sanare problemi patrimoniali (e il debito pubblico eccessivo è un problema patrimoniale di tutti i cittadini) con provvedimenti di conto economico (aumentare il costo di beni aumentando l’IVA è un provvedimento che tocca, per così dire, il conto economico degli italiani) è cosa estremamente ardua che, purtroppo molto spesso non riesce; e il sospetto che la manovra possa non bastare è un sospetto diffuso, che certamente non rallegra chi è chiamato a pagare;


• essa è stata adottata in solitudine da un esecutivo ormai arrivato a fine corsa, in termini di consenso, di credibilità, di prestigio; non è il Governo del futuro ma il Governo del passato, malinconico anch’esso.


La gran parte del significato “strutturale” della manovra è affidato a due leggi costituzionali (abolizione delle province e pareggio di bilancio in costituzione) la cui seria ed equilibrata progettazione appare ben al di là delle capacità di questa classe politica; il loro percorso approvativo è poi complesso ed incerto ed il pericolo di drammatici pastrocchi è fortissimo: si pensi solo alla complessità della costruzione di un vincolo di bilancio che non si riveli una trappola mortale nel caso di cambiamenti radicali dello scenario dei tassi o dello scenario economico. Si dirà: ma lo stanno facendo in molti paesi europei! Vero. E per di più ci viene richiesto con forza da chi non si fida più (forse giustamente) della nostra capacità di autocontrollarci. Vero anche questo. Ma quello che preoccupa della nostra situazione è il contesto civile e culturale che dovrebbe radicare nella nostra costituzione una modifica così rilevante, un contesto non affidante e non tranquillizzante. Spero di sbagliarmi, naturalmente; vedremo presto.


7 settembre 2011