martedì 22 settembre 2020

Il referendum della breccia

 Il piccolo successo degli àpoti

(di Felice Celato)

Come sappiamo, si deve alla corrosiva ed inquieta penna di Giuseppe Prezzolini (peraltro non esente da contrastanti sentimenti) la coniazione della parola àpoto (che non beve, alfa privativo e poto, in latino, bevo) come attributo di una immaginaria congregazione (la Società degli àpoti) che rivendicava per sé stessa il diritto di non farsela dare a bere, di sottrarsi cioè “al tumulto delle forze in gioco per chiarire idee, per far risaltare valori, per salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi futuri”.

Si era nel lontano 1922 (ancora, però, la Marcia su Roma non c’era stata); ma, successivamente, nel tempo, la società degli àpoti si vide partecipata da personaggi di diversa matrice culturale, spesso non omogena in termini di valori. Eppure il suo senso è rimasto vivo nel tempo (anche Montanelli si proclamò àpoto, come – diceva – dovrebbe esser ogni giornalista) tanto che mi è tornato in mente – come ricorderà qualche lettore di queste noterelle – come presidio contro la confusione dei tempi, dei linguaggi e dei valori che ci pervade e che – secondo me – ha anche innervato lo snervato mini-dibattito referendario. Per la verità avevo pessimisticamente stimato (cfr: Paradossi agostani, post del 1° agosto 2020)  nel 7 o l’ 8 (come valore assoluto e non percentuale!) il numero degli àpoti che, al referendum della breccia (quello del 20 settembre), avrebbero votato, solitari con me, per il No.

Sembra, dai dati ormai ufficiali, che siano stati molti di più (circa il 30% dei votanti; quindi, grosso modo, se , come pare, al referendum ha partecipato il 54 % dei quasi 52 milioni di aventi diritto, potremmo dire che circa 8 milioni di Italiani ha votato per il No, parte dei quali, spero, per pura apotìa; il resto magari per pura apatìa rispetto alle confuse pulsioni partitiche o sub-partitiche che sono fioccate in queste ultime settimane). Buon segno, dunque, nel senso della presumibile “resistenza” della mitica Società degli àpoti di Prezzoliniana ispirazione; meno consolante, per la verità, è lo scarso entusiasmo degli Italiani per i temi costituzionali, cioè per i fondamenti dello stato repubblicano che, evidentemente, ci è assai più caro come erogatore di bonus e sussidi piuttosto che come delicata macchina che decide delle nostre libertà: solo una persona su due si è presa la briga di occuparsene, magari in parte – bisogna concederlo – solo per piena fiducia negli improvvisati neo-costituenti che avevano varato (non senza pentimenti e ri-pentimenti) le nuove norme sottoposte a referendum confermativo. Fiducia che – beninteso! – in base al principio che vox populi è vox Dei e per rispetto alla democrazia, “dobbiamo” ritenere ben riposta; il che, ovviamente, mi/ci rassicura anche in ordine al seguito di questa riforma che ci è stato promesso (e, si sa, promissio boni viri est obligatio). In fondo, diceva l’on.le Martina, questa ora approvata è solo una breccia aperta nell’assetto del nostro Parlamento; il resto di sicuro verrà. Del resto “l’abolizione” della prescrizione non era solo una breccia aperta nel sistema della giustizia in vista di una complessiva e radicale revisione dello stesso (anch’essa in corso, sento dire)? 

Bene, in questa sbrecciata attesa del nuovo che deve venire e nello sconforto per la confusione del presente, il luminoso futuro che ci aspetta ci è di grande conforto (ci abbiamo il Recovery Fund da spendere!). Speriamo che, se proprio l’apotìa non è destinata a rimettere ordine nelle nostre caciare, almeno quella sua ridotta misura che è l’astemia si affermi, tenendoci al riparo dagli ubriachi; magari, chessò, introducendo per legge… la prova alcolometrica (il famoso “palloncino”) per i nostri rappresentanti. Non vorrei che dopo la breccia ci tocchi temere anche la brocca (del vino, naturalmente!). 

Roma 22 settembre 2020.

 

 

venerdì 18 settembre 2020

La palla e due parole antiche

Rinascenza vs. resilienza

(di Felice Celato)

Non mi fa meraviglia, anzi ne sono contento, quando nascono parole nuove o parole antiche tornano di moda, magari arricchite nel tempo di consapevoli sensi nuovi e, spesso, più complessi: la storia della lingua – lo dico senza essere un linguista – vive di queste evoluzioni che nascono dall’uso (cui la lingua è naturalmente destinata e dal quale riceve continui feed-back ) e dalla crescente complessità del reale. Se così non fosse, oggi parleremmo ancora la bella lingua di Cicerone o quella (stupenda!) del Padre Dante, che sui testi in uso agli studenti (e non solo) richiede spesso le note per la comprensione (chi si ricorda – per esempio – che cosa vuol dire si che s’avacci lor divenir sante, in Purg. VI, 27?). I purismi (qui intesi come culto degli usi antichi o come rifiuto di apporti allogeni) mi irritano spesso e talora mi fanno anche ridere (come quando i nostri amici francesi si ostinano a chiamare ordinateur il computer o logiciel il software).

Quindi non mi sono meravigliato né tanto meno scandalizzato quando si è diffuso l’uso del termine resilienza (dal Dizionario Nocentini, l’Etimologico, alla voce resiliente: prestito latino, dal lat. resiliens -entis, participio presente del verbo resilire “rimbalzare, contrarsi”) nato nel mondo della scienza dei materiali (ed ivi inteso come capacità di assorbire gli urti senza rompersi o anche di recuperare la forma originaria dopo una deformazione); di qui migrato in quello della psicologia (come capacità di superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà); ed infine atterrato in quello della politica dove ha assunto un significato comprensivo sia dell’approccio della scienza dei materiali sia di quello della psicologia: in sostanza la resilienza sarebbe – nel neo-linguaggio della politica – una sorta di vitale, collettiva resistenza ai traumi (l’inverso della fragilità), tale da assorbire gli urti economici e sociali e da recuperare rapidamente l’assetto pre-traumatico.

Ecco, è proprio quest’ultimo senso che mi preoccupa quando vedo comparire il termine in molti cicalecci politici e anche in qualche documento doverosamente meno ciarliero (da ultimo: Linee guida per la definizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, varato l’altro giorno dal nostro Governo). Provvisoriamente (?) molto scarso di numeri sui progetti, invece il documento allinea alcuni brevi ma chiari flash sullo stato del Paese prima del trauma pandemico; un’analisi, credo di poter dire, di cui non diffusamente il Paese è conscio ma che il Governo ha fatto bene ad enunciare, sia pure come trasparente ma comprensibile disclaimer (che sarebbe pienamente accettabile ove le forze di Governo non fossero o non fossero state responsabili dei fatti implicati dai dati).

Provo a sintetizzare il punto (cfr pg. 4 del corposo documento): l’Italia vive, da anni, in una condizione di sub-medietà Europea, nel senso che è sotto la media europea negli indici più rilevanti delle condizioni economiche, sociali e culturali dei paesi che fanno parte dell’Europa: è nettamente sotto nel tasso di sviluppo del PIL, della produttività, della occupazione (qui precede solo la Grecia), in particolare di quella femminile, della fruizione di istruzione superiore, della qualità di quella di base e intermedia, della spesa per ricerca e sviluppo; è invece sopra le medie europee per tasso di abbandono scolastico, per anzianità della popolazione e per incidenza della spesa pensionistica sul PIL. Insomma per dirla con Paul Krugman (così scrive il Nobel per l’economia 2008, sul NYT dell’8 settembre u.s.) l’Italia è un paese diffusamente considerato – e con fondamento – un fallimento (a country that is widely regarded – indeed, in some respects really is – a failure); anzi fra gli studiosi di economia è conosciuta come un monito esemplare in materia di insuccesso economico (Italy is best known as a cautionary tale of economic failure).

Bene (si fa per dire): in questa situazione – si badi bene: ante Covid! – ha senso invocare, per quando la forza della pandemia sarà definitivamente scemata, la resilienza cioè il rimbalzo, in pratica il rapido recupero della situazione pre-traumatica? O non abbiamo forse necessità – e il Next generation EU ce ne dà l'occasione, speriamo attentamente monitorata – di una rinascenza (tanto per usare ancora una volta una parola antica)?

Chiunque abbia maneggiato una palla sa che i rimbalzi perdono progressivamente di forza e dopo tre o quattro declinanti sussulti la palla riprende a rotolare sul terreno, magari – nel caso del nostro sport nazionale – in attesa di essere presa di nuovo a calci.

Roma 18 settembre 2020

 

lunedì 14 settembre 2020

Perdono

 Una “negazione” dello jus culturae?

(di Felice Celato)

Da tempo ormai mi sono abituato ad attribuire a quel che si legge sui giornali un grado di attendibilità attorno al 20-25% del “vero” (almeno sui giornali più “seri”); in particolare quando si tratti di articoli di cronaca (nera, di solito), di chiacchiericcio politicoso (copyright: Giuseppe Antonelli, citato l’altro giorno), di retroscena “riservati”, di calcio-mercato, etc. Per questo – a guadagno di tempo e a tutela del fegato – salto a piè pari articoli di tali generi.

Oggi però non ho potuto fare a meno di leggere per intero un articolo comparso su La Stampa sulla tragica vicenda dell’immigrato ucciso a botte da alcuni teppisti laziali (nel senso della regione). L’inviato a Paliano  (il piccolo paese del Frusinate dove abita la famiglia dell’immigrato capoverdino) riferisce del mesto, dignitoso e dolce raduno dei familiari del ragazzo, sotto il titolo La famiglia riunita dopo la cerimonia. “Abbiamo già perdonato gli assassini”.

Abituati come siamo a vedere i parenti di ogni vittima di cronaca nera affrettarsi, a favore di telecamera o di taccuino di giornalisti qualche volta un po' sciocchi, ad invocare giustizia (o talora qualcos’altro di più becero) come drammatico, pubblico grido contro il male subìto; abituati come siamo ad immaginare il male di una pena come l’idoneo contrappeso al male del delitto; abituati come siamo ad immaginarci detentori di un diritto soggettivo all’esercizio di un personalizzato jus puniendi; abituati a tutto ciò, che costituisce in qualche modo la nostra “cultura” della giustizia, mi ha molto colpito il commento attribuito ad una zia della vittima (“siamo molto cattolici, abbiamo già perdonato”), anche perché impaginato sotto un articolo in cui il nostro Premier (prontamente accorso al funerale) invocava “condanne severe e certe” (quasi come se sia proprio, da parte di un Presidente del Consiglio per di più giurista, l’auspicare una sentenza diversa dal semplicemente giusta). 

[N.B. Né La Repubblica né il Corriere della sera, salvo mio errore, riportano il commento della zia della vittima; entrambi però quello del Premier].

Al di là della commossa ammirazione per quanto attribuito alla zia di Willy (così si chiamava lo sventurato giovane massacrato di botte), mi sono chiesto se, paradossalmente, tutto ciò non testimoni un esemplare rifiuto di quella assimilazione culturale che talora invochiamo come legittimazione dei diritti umani di un immigrato. Non a caso abbiamo chiamato jus culturae quella specie di presupposto che, fra gli altri, vorremmo fosse posto a base del riconoscimento che un immigrato può finalmente dirsi italiano a pieno diritto. Nella fattispecie, però, "l'assimilazione" culturale sarebbe solo la prova che l’immigrato, aspirante a diventare italiano per cittadinanza, ha respirato a pieni polmoni i mefitici miasmi con cui avvolgiamo, in televisione o sui giornali, ogni racconto di ciò che accade nella nostra società, in fondo non diversamente che nelle tante altre del nostro mondo e di sempre.

Da un lato la misteriosa “sostanza” del male che sorregge ogni delitto, dall’altro la cattiva infinità del rancore (copyright: p. De Bertolis, odierna omelia alla Chiesa del Gesù), compongono una specie di uroboro (il mitico drago che si morde la coda) che solo il perdono ha il potere di uccidere. Ma il perdono (non sono così irenico dall’ignorarlo) non ha natura giuridica, nemmeno nella cultura religiosa (non a caso Pietro, nell’odierna pericope liturgica, senza cogliere la natura del perdono, domanda a Gesù “quante volte dovrò perdonare?” Cioè quando finisce il mio “dover” perdonare?); esso, invece, riposa inquietamente sulla esperienza della grazia, che non è canone di legge ma principio di amore. E l’amore non si regola per legge; anzi, si vive al di sopra di essa, come sembra voler dire la zia di Willy.

Roma 13 settembre 2020

 

 

 

 

domenica 6 settembre 2020

Babele / 5

In parole (molto) povere

(di Felice Celato)

L’ascolto (casuale, per la verità) di un dibattito “politico” su Radio Radicale (su un tema per me di secondaria imoprtanza) mi ha oggi gettato in una crisi profonda di (irreversibile?) sconforto: mi sembrava di conoscere perfettamente tutte le parole (del resto presumo di conoscere piuttosto bene la nostra lingua); eppure tutti i discorsi che di esse (parole) erano fatti mi risultavano privi di contenuto, frusti esercizi di vuote retoriche (dal Vocabolario Treccani on linefrustoconsunto, logoro… figurato: frasi fruste, logorate dall’uso…prive di originalità, banali), insopportabilmente banali, irritanti nella loro vacuità; tutti rimandanti all’uso di qualche slogan che ci siamo adattati a sopportare e che forse si sono – ahimè –  depositati nella mente di molti.

E allora la memoria mi è andata ad un ottimo libro, qui già segnalato oltre tre anni fa, nel post Letture del 19 maggio 2017 [di Giuseppe Antonelli ( professore di linguistica presso l’Università di Pavia): Volgare eloquenza, Laterza Editori, ebook, 2017, dedicato alla memoria di Tullio De Mauro]; un libro che vale la pena di rileggere (o di leggere ove mai – ma non voglio credere che ciò sia potuto accadere! – qualcuno dei miei lettori avesse ignorato la mia raccomandazione per la lettura).

Così ho passato il pomeriggio domenicale a risfogliarlo, il libro di Antonelli, e l’ho trovato (benedetto lo strumento delle evidenziazioni!) una miniera di puntuali sconforti bi-partisan, temperata da una volontaristica prospettiva: la possibilità di tornare – prima o poi – a dire sì al logos, prima come pensiero e poi come linguaggio. Uhm! Speriamo….

Ma il libro di Antonelli è anche un tesoro di produzioni onomaturgiche che, come sanno i miei lettori, sono una delle mie passioni. Per far venire voglia di prendere in mano il libro di Antonelli (lo ripeto: anche molto gradevole da leggere), eccone tre, coi commenti dell’autore:

(1) Cominciamo con emologismi: parole, frasi, formule che funzionano come emoticon o emoji…. Vent'anni fa, gli emologismi vincenti erano quelli che evocavano una vita felice: basti pensare ai berlusconiani libertà e miracolo. Oggi prevalgono quelli che esprimono paura (attraverso la rassicurazione identitaria: Prima gli italiani!) o addirittura disprezzo (come il nomadare di Meloni, se sei nomade devi nomadare) o veicolano nel modo più diretto possibile la rabbia (il vaffa di Grillo)Un linguaggio elementare, refrattario al ragionamento, che al logos preferisce i loghi. Un linguaggio infantile, che – rinunciando ad interpretare la complessità del mondo – la semplifica in una serie di disegnini stilizzati… destinati non [al]la mente di una bambina….ma [al]la pancia degli italiani. 

(2) DromocraziaLa vorticosa pragmatica dei media, inseguendo l'avvicendarsi dei temi del giorno, costringe – per conquistare il banco – a…una corsa sfrenata a chi arriva per primo sulla notizia. Ma anche [a] un ritmo sempre più frenetico nella creazione di nuove frasi o parole che possano immediatamente fare notizia… Così è la stessa dromocrazia a bruciare rapidamente slogan e modi di dire. E non solo per la forza del suo ritmo forsennato. Ma anche perché – in mancanza di ideologia o almeno di programmi – quegli slogan finiscono col galleggiare sul nulla. Durano poco perché non rimandano a nulla di concreto. Sotto le parole, niente. 

(3) PoliticosoIn principio c'era il politichese, fatto di parole latine oscuri riferimenti colti. Un linguaggio fiorito, infiorettato. Oggi c'è il politicoso: un linguaggio che sta alla politica come il petaloso sta ai fiori…. Un linguaggio elementare, fatto di battute e parole effimere, spesso di strafalcioni e parolacce pierinesche. Un linguaggio fatto di favole per adulti che affascinano chi si lascia affabulare. 

Bene: ammetto di aver “medicato” il mattutino sconforto con una lettura pomeridiana almeno tristemente divertente; ma il dubbio che il popolo seguace [copyright sempre di Antonelli] possa tornare (nei tempi della mia esistenza in vita) a dire di sì al logos prima come pensiero e poi come linguaggio non sono riuscito a fugarlo.

Roma 6 settembre 2020