giovedì 26 maggio 2011

Proviamo a discuterne

Derive



(di Felice Celato)


Quasi 10 anni fa (nel 2002) Giuseppe De Rita – a mio giudizio l’analista più lucido e ad un tempo pietoso delle nostre derive – scriveva ( ne Il regno inerme, Einaudi): Nella nostra società comincia a circolare…un pericoloso virus di inimicizia e di spaccature verticali, dopo decenni di sostanziale unità e coesione. Se la crescente molecolarizzazione del sistema non trova adeguate forme di condensazione sociale e istituzionale, allora essa slitta fatalmente verso una configurazione amorfa e indistinta di moltitudine. E la moltitudine può facilmente essere tentata dalla componente emotiva della vita collettiva, passivamente vivendo degli eventi in maree di sensazioni senza esito, spaccandosi in posizioni bipolari e personalizzate magari artatamente supportate dalla comunicazione di massa.


A distanza di 10 anni ho ripreso in mano questo breve libro, secondo me straordinariamente attuale, e rileggendolo ho provato a confrontarne le amare e non più fresche analisi con altre più recenti, anche più focalizzate sulle condizioni sociali ed economiche del nostro Paese.


Marco Revelli (Poveri, noi, Einaudi, 2010) traccia una mappa drammatica del meccanismo dei risentimenti che ispira, in Italia soprattutto, il dominio della psicopolitica – una politica di governo … .che fa leva sulle emozioni e sulla psiche dei cittadini e fa di questa leva un volano indispensabile all’esercizio del potere; essa …. mette al lavoro le emozioni nella loro immediatezza, senza mediazione culturale e senza differimento progettuale, favorendo in particolare quelle negative – o oppositive – maggiormente in grado di riempire il vuoto di identità creatosi e di produrre un istantaneo ( anche se effiimero) senso di comunione se non di comunità ( anche da : Pier Aldo Rovatti, Etica minima, Cortina, 2010).


Questo meccanismo dei risentimenti innerva – sto sintetizzando brutalmente il libro di Revelli – l’enorme potenziale di mobilitazione e di consenso del sentimento elementare dell’ira che pervade l’animo dei deprivati, cioè di tutti quelli ( una quantità crescente di Italiani, come dimostrano le statistiche, ampiamente citate, cfr ibidem) che progressivamente hanno visto crescere la propria povertà percepita ed effettiva; un sentimento dell’ira che è alla base di tanti fenomeni genericamente attribuibili al mondo della xenofobia sociale, intesa come fobia dell’altro, straniero, nomade, sbandato, lavavetri o qualsiasi “altro”.


Dopo una ampia, dettagliata e veramente preoccupante analisi delle diverse povertà che dilaniano l’Italia (ceti medi largamente compresi), Revelli torna sul tema politico dell’invidia sociale, intesa ora non come ostilità verso chi ha di più ma ostilità/risentimento verso chi ha di meno e in qualche modo contende la nostra povertà: solo ampliando la propria distanza dagli ultimi, nell’impossibilità di “salire”, si riacquista lo status di medio! Come se ad aggregarci non ci sia più l’eguaglianza ma la differenza! E questa è l’arma dei più sciagurati populismi. Fin qui, in estrema sintesi, Revelli.


Poi ho provato a volgere lo sguardo su una lettura ancora più strettamente economica delle derive del nostro Paese, attingendo a dati OCSE, Istat e FMI largamente diffusi sulla stampa di questi giorni:


• La produttività dei fattori in Italia è oggi sotto i livelli del 93 e ben sotto quella raggiunta nel 2001 e di molti punti sotto quella dei paesi concorrenti, che nel periodo sono molto cresciuti; nei pochi anni di crescita del periodo è comunque sempre cresciuta sempre meno di quella degli altri Paesi concorrenti (Francia, Germania, Regno Unito, Giappone, Stati Uniti). I dati sono dell’OCSE;


• Il PIL per ora lavorata è sotto il livello del 2001 e dal 93 ad oggi è quasi sempre cresciuto meno di quella degli altri Paesi concorrenti, che oggi stanno molto al di sopra del livello da noi raggiunto (OCSE);


• Un quarto degli Italiani sperimenta il rischio di povertà o di esclusione sociale (Rapporto annuale dell’Istat presentato a Montecitorio il 23 maggio);


• Nel decennio 2001-2010 l’Italia ha realizzato la performance di crescita peggiore di tutti i paesi dell’UE (Istat, ibidem);


Perché si dovrebbe essere ottimisti? Perché ci arrabbiamo se Standard & Poor’s prospetta un outlook negativo per il nostro Paese?


Si potrebbe replicare:


• Perché ad oggi la ricchezza privata (ricchezza finanziaria netta delle famiglie in % del PIL) è superiore a quella di molti dei paesi concorrenti (dati FMI, tabella su Il sole 24 ore del 19 maggio);


• Perché ad oggi il debito pubblico rapportato alla ricchezza privata è in linea e talora migliore del dato relativo ai paesi concorrenti;


• perché ad oggi circa la metà del debito pubblico italiano è in mano di Italiani.


Bene: io non credo che contrapporre dati “ottimisti” a dati “pessimisti” aiuti a capire (in fondo ottimismo e pessimismo non sono altro che due nomi diversi assegnati alla fondamentale ignoranza del futuro che caratterizza gli uomini).


Quello che mi pare certo è che le tendenze sono molto preoccupanti, tanto più perché la deriva anche economica e produttiva è ormai lunga ed inequivoca, e per certi versi – non foss’altro per la sua misurabilità – anche più chiara di quanto si possa osservare in ottica sociologica.


Stiamo, secondo me, consumando il capitale accumulato da almeno due generazioni (per questo un certo benessere “regge”) e stiamo raschiando il fondo delle energie vitali e morali del Paese.


Se è così – ed ovviamente spero di sbagliarmi – mi prende l’angoscia del senso di responsabilità generazionale: che cosa abbiamo ricevuto dalle generazioni che ci hanno preceduto e che cosa lasciamo a quelle che ci seguiranno? Come si presenta il bilancio della NOSTRA gestione del NOSTRO ambiente economico, sociale, morale?


Quando pongo questa domanda ad amici della mia generazione sento propormi varie considerazioni ma sinteticamente ascrivibili a due tipi di risposta:


(1) beh! In fondo non è tutta colpa nostra! E’ l’intero Occidente che sta declinando e non c’è ragione di pensare che noi avremmo potuto sottrarci a questa deriva;


(2) eh! Va bene, ma anche questi nostri giovani potrebbero darsi da fare, alzare i loro morbidi sederi dai loro troppo comodi divani e pedalare con maggior vigore di quanto non facciano al riparo degli agi che gli abbiamo procurato!


Entrambe le risposte mi lasciano completamente insoddisfatto ( e magari – come troppo spesso mi accade – anche un po’ irritato): la prima non è vera, basta guardare alla Germania, alla Francia ed al Regno Unito; la seconda mi pare addirittura elusiva e sostanzialmente qualunquista.


Per avere risposte convincenti, bisogna porci domande chiare: la nostra generazione è stata inadeguata ai problemi che ha dovuto affrontare, inadeguata dal punto di vista politico, inadeguata dal punto di vista morale, inadeguata dal punto di vista culturale?


C’è qualcuno che sa darmi ragionevolmente torto, se possibile senza addossare, come è banale fare, tutte le colpe a chi ci governa? Siamo ancora in tempo per ritrovare una mente in opera, un riarmo mentale più che morale (Censis, Rapporto 2010)?


Spero, molto ovviamente, in una valanga di convincenti argomentazioni positive!













sabato 21 maggio 2011

Un passaggio nel Duomo di Milano

Un giovane scuro



(di Felice Celato)






Quando a Milano mi capita di passare dal centro e di avere una mezz’ora libera, non manco mai di entrare nel Duomo: l’interno austero e solenne, la memoria dei grandi vescovi che vi hanno predicato, il pensiero ai funerali dei grandi lombardi che hanno avuto luogo nella chiesa simbolo della cristianità meneghina severa e generosa, la suggestione delle grandi vetrate sullo sfondo dell’abside, il senso di una pietas nobile e seria, valgono senz’altro il piccolo fastidio di passare i severi controlli di sicurezza che ci ricordano in che mondo viviamo.


L’ho fatto anche ieri, verso mezzogiorno e, scavalcando l’inevitabile folla di turisti, sono arrivato davanti al grande quadro della Madonna che allatta, appeso a metà della navata di sinistra fra centinaia di candele accese dalla pietà popolare: un giovane scuro (un nero forse più asiatico che africano), alto e di taglia robusta, le larghe spalle curve nell’atto di una preghiera raccolta sull’inginocchiatoio davanti al quadro: una preghiera silenziosa, le mani giunte nell’atto di una invocazione accorata, il volto segnato da qualche lacrima.


Non so, ovviamente, che cosa invocasse il giovane scuro ma non ho potuto sottrarmi all’emozione di immaginare: si trattava senz’altro di un giovane forte, uno che aveva avuto la forza di sradicarsi da chissà quale contesto sociale ed economico che tanti suoi meno coraggiosi conterranei dovevano subire senza speranza, uno che aveva accettato le difficoltà di una rischiosa emigrazione per radicare altrove, in un mondo ignoto del quale conosceva solo qualche immagine patinata, le proprie energie vitali e la propria ricerca della felicità. Cosa chiedeva alla Madonna, con tanto commosso fervore? Un ricongiungimento, la salute di un parente restato nella gabbia del paese d’origine, un po’ meno di ostilità e un po’più di certezze, un po’ di pace, un supplemento di forza per resistere nel tentativo di trovare uno spazio di futuro?


Non lo so, ma avrei voluto abbracciarlo, quel giovane scuro, per comunicargli almeno il senso di una umana com-passione che forse è proprio una delle cose che più gli manca. Mi è tornato in mente un verso di Dante, che, nel Paradiso (“VergineMadre,figlia del tuo figlio….”,33° canto) ha un senso certamente diverso da quello che le circostanze mi hanno suggerito: “Ancor ti priego, Regina, che puoi/ ciò che tu vuoli, che conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi.” E sono uscito sul sagrato, verso la Galleria, per consumare un rapido pasto; al bar, un gentile cameriere, con piccoli baffi meridionali, si è scusato con me per l’inopportunità dello scorrere davanti ai tavolini di un paio di vu’cumprà : “Non se ne può più, mi creta”, sì, “mi creta”, come dicono tutti gli immigrati dal Sud d’Italia per sembrare più Lombardi.


Fuori della Galleria, si distribuivano volantini elettorali.


Roma, 21 maggio 2011

venerdì 13 maggio 2011

Lontano dal rumore dei giorni

Due letture



(di Felice Celato)


In questo periodo di nausea della politica,dei suoi rumori sguaiati e della sua ciarliera inadeguatezza, forse vale più che mai la pena di rifugiarsi nelle letture, meglio se distanti, molto distanti, dal presente.


Ne segnalo agli amici due, in diverso modo, molto piacevoli ed interessanti.


La prima è un classico, per la verità sicuramente già letto da molti e anche da me forse più volte ma mai gustato così tanto come quando lo si rilegge in età….diciamo matura: Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, una specie di contro-romanzo risorgimentale, di intonazione narrativa direi manzoniana (la lieve ironia dell’autore, il suo distacco non privo di compassione, il suo radicamento storico) ma di spiritualità rothiana: ne Il Gattopardo, il Principe di Salina che sente di appartenere “ad una generazione disgraziata a cavallo fra i tempi vecchi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due”; ne La Marcia di Radetsky (di Joseph Roth), il Barone von Trotta,il capitano distrettuale dell’Impero asburgico, che “non poteva sopravvivere all’Imperatore” e chiude anche lui gli occhi quando questo muore. In entrambi i romanzi un’elegia della storia che passa, srotolandosi sopra le teste di uomini che ne hanno percepito con dolore il passaggio senza comprenderne le ragioni, anzi radicandosi mestamente nel passato: l’uno, il Principe di Salina, amaramente fiero dell’essere stato l’ultimo dei gattopardi mentre già si affacciano sulla scena della storia “gli sciacalletti e le iene”; l’altro, il Barone von Trotta, abbandonato al declino della civiltà nella quale riposavano ordinatamente tutti i suoi valori. Anche le stupende scene di morte hanno un sapore comune, nei due romanzi: la dignità della morte e la morte di due dignità, pur fra loro tanto lontane, quella di un Principe Pari del Regno di Sicilia che anche morendo “corteggia la morte”, e quella di Joseph, il Maggiordomo di un capitano distrettuale dell’Impero Asburgico, che sul letto di morte “sotto le coperte fece un debole tentativo di battere i talloni”.


Il senso della storia, dunque, e del suo scorrere avanti alla capacità degli uomini di comprenderne i passaggi, sempre vòlti come sono a formulare previsioni sul futuro (“a noi e a tutti vietate non per altro che per essere vane”, Benedetto Croce) nelle quali si proiettano le percezioni, spesso confuse e inadeguate, del presente o le interpretazioni, magari emotive, del passato: Il Gattopardo, questa specie di homme dépaysé della storia, è la sintesi letteraria di questo disagio; e forse proprio per questo l’ho sentito molto vicino ed ancora attuale, al di là dei suoi certi meriti, appunto, letterari.


Veniamo alla seconda lettura, scoperta per caso, per consiglio di un…insospettabile collega. Si tratta dell’opera di un filosofo e scrittore francese (Eric-Emmanuel Schmitt) intitolata Il Vangelo secondo Pilato: non di un trattato di teologia si tratta, ovviamente, ma di un “romanzo” articolato in due parti: la prima, più breve, che si immagina scritta dallo stesso Gesù, nella quale, con grande perizia letteraria si affronta il tema della nascita della cosiddetta (dai teologi) coscienza messianica di Gesù: come nasce nel figlio del falegname nazareno, come emerge all’interno della profonda pietas del ragazzo che lentamente sta diventando uomo, la percezione del suo essere il Messia? Come si svolge il suo rapporto col discepolo che lo tradirà, proprio per accompagnare l’adempimento della missione messianica?


La seconda parte, più estesa, invece è costituita dalle lettere che si immaginano scritte da Pilato al fratello Tito per tenerlo aggiornato della affannosa ricerca della prova dell’”impostura” della resurrezione, del puntuale fallimento di ogni presunta dimostrazione fino alla progressiva nascita in Pilato di una confusa coscienza dell’eccezionalità di quanto deve essere avvenuto,una coscienza fortemente influenzata dalla fede nata in Claudia Procula, sua moglie.


Un romanzo, senz’altro un romanzo, ma scritto con intelligenza e profonda conoscenza dei temi di fondo della nostra fede che, liberamente, emergono in filigrana attraverso una narrazione tesa e ben strutturata; un’altra lettura che non ha fatto rimpiangere il tempo sottratto alla lettura dei giornali di questo oscuro periodo della nostra storia.


Credo di ricordare che domenica si vota in molte città italiane, alcune molto importanti: non potremo evitare, temo, il clamore di ulteriori oltraggi all’intelligenza dei cittadini.


13 maggio 2011